rivista anarchica
anno 42 n. 376
dicembre 2012 - gennaio 2013


La svastica allo stadio 3

La squadra del ghetto

di Giovanni A. Cerutti


In questa terza (e penultima) puntata dei suoi articoli su “calcio e nazismo”, il direttore scientifico dell'Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea nel Novarese e nel Verbano-Cusio-Ossola “P. Fornara” si occupa dell'Ajax. E dei mondiali di calcio Argentina '78. E di altre vicende, alcune allucinanti.



Domenica 25 giugno 1978, ore 15.00. Allo stadio Monumental di Buenos Aires stanno per entrare in campo le nazionali dell'Olanda e dell'Argentina per disputare la finale del campionato mondiale. Tra i due capitani, Ruud Krol e Daniel Passarella, non c'è, però, l'arbitro designato originariamente dalla Fifa, la Federazione internazionale, ad arbitrare la partita. La federazione argentina, infatti, aveva fatto pressioni per ottenere la sostituzione dell'israeliano Abraham Klein, sostenendo che i rapporti politici troppo stretti tra Olanda e Israele potevano condizionare la sua capacità di garantire un arbitraggio imparziale. In realtà gli argentini temevano un arbitro che aveva dato prova di non essere assolutamente influenzabile, dirigendo in modo impeccabile Argentina - Italia, vinta dagli azzurri per 1-0 nel corso del primo turno. Con quella vittoria la nazionale italiana aveva conquistato il primo posto nel girone, accedendo in tal modo al girone A di semifinale, che si giocava a Buenos Aires, e costringendo gli argentini a spostarsi a Rosario, per disputare le partite del girone B. Oggi abbiamo numerose prove, comprese le ammissioni di alcuni calciatori argentini, di quanto quel mondiale fu, invece, condizionato dalla volontà del regime del generale Videla di ottenere con ogni mezzo una vittoria che pensava gli avrebbe consentito di consolidare una popolarità traballante. Clamorosa, in questo senso, la combine con il Perù, battuto 6-0, per eliminare il Brasile grazie alla differenza reti.
Ma né gli argentini né Klein in quel momento potevano avere coscienza di quanto quella decisione annodava in un groviglio inestricabile il passato più tragico della storia europea con un presente che dava mostra di non averne appreso la lezione. È probabile, invece, che Ruud Krol lo avesse intuito, pur non conoscendo ancora una circostanza significativa di quella vicenda.
Kuki Krol, il padre di Ruud, era stato un centrocampista molto popolare nella regione di Amsterdam, grazie al suo gioco fantasioso, molto distante dall'elegante potenza atletica grazie al quale il figlio sarebbe diventato uno dei calciatori più forti della sua generazione. Dopo la capitolazione olandese del 14 maggio 1940, Krol aveva costituito insieme a Leo Horn uno dei gruppi più tenaci della Resistenza olandese. Nel dopoguerra Horn sarebbe diventato un famoso arbitro internazionale, dirigendo, tra l'altro, il 25 novembre 1953 Inghilterra - Ungheria che vide la storica vittoria a Wembley per 6 a 3 della squadra di Puskas e Hidegkuti, prima nazionale a battere i maestri inglesi in casa. Il salvataggio e la protezione della popolazione ebraica costituivano uno dei nuclei principali dell'azione svolta da quel gruppo, e da Krol in particolare. Nel 1941, infatti, ad Amsterdam risiedeva più della metà dei circa 140.000 cittadini definiti ebrei dall'estensione delle leggi di Norimberga al territorio olandese. Si trattava di circa il 13% della popolazione cittadina. La maggior parte di essi viveva nello Jodenbuurt, il quartiere ebraico, dove avevano vissuto Rembrandt e Spinoza. Tre chilometri più ad est sorgeva lo stadio dell'Ajax, una delle squadre più prestigiose del paese fin dalla fondazione nel 1900. Krol e Horn erano soci del club biancorosso e una parte significativa della Resistenza di Amsterdam si aggregò intorno a una rete che poteva essere ricondotta alla società dell'Ajax.
I legami tra la squadra dell'Ajax e gli abitanti del quartiere ebraico cominciarono a svilupparsi fin dagli anni venti, quando il calcio divenne lo sport più popolare del paese. All'interno della comunità erano sorte cinque piccole squadre ebraiche, ma la popolazione del quartiere era in prevalenza di modesta estrazione sociale. Fino all'avvento del professionismo, far parte di una squadra – o di un club, come si diceva allora – era piuttosto costoso, un po' come oggi far parte di un club di golf o di tennis. Erano molto pochi, quindi, gli ebrei che potevano permettersi di far parte di una di quelle squadre; meno che meno di far parte dell'Ajax. Il più famoso di questi fu Eddy Hamel, un esterno destro dallo scatto veloce, che militò tra i biancorossi dal 1922 al 1930, disputando 125 partite e segnando 8 gol.
Intorno alle squadre di calcio, però, si creò subito un legame che dava luogo a fenomeni di identificazione collettiva, diventando in breve tempo un elemento non secondario della vita sociale. Da subito la maggior parte degli abitanti dello Jodenbuurt che si interessavano di calcio cominciarono a tifare per l'Ajax, anche coloro i quali non avrebbero mai potuto permettersi di andare allo stadio. La domenica pomeriggio, le tribune di legno dello stadio dell'Ajax diventavano un luogo di incontro tenuto insieme da un'idea di appartenenza comune. Tanto che quando nel 1938 si disputò la partita con l'Admira Vienna, nel momento in cui i giocatori austriaci fecero il saluto nazista alla bandiera tedesca, lo stadio esplose in una selva di fischi e molti spettatori abbandonarono polemicamente le tribune.

Amsterdam, Jodenbuurt (quartiere ebraico), 1942

Nazione tollerante?

L'occupazione tedesca pose fine a questa consuetudine, lacerando in modo irrimediabile il tessuto umano e sociale di Amsterdam, e del resto del paese. Tra il 1940 e il 1945 in Olanda vennero deportati nei campi di sterminio circa 107.000 persone di origine ebraica; soltanto 5.450 riuscirono a sopravvivere. Si tratta della percentuale più alta di deportati rispetto al complesso della popolazione ebraica e della percentuale più alta di morti rispetto al numero dei deportati registrata nei paesi occupati dell'Europa occidentale. Questo dato impressionante è il risultato della combinazione di diversi fattori. Innanzitutto lo spietato regime di occupazione diretto da Seyss-Inquart, il fanatico antisemita austriaco che Hitler aveva posto al vertice dell'amministrazione civile olandese, all'interno del quale il comandante supremo delle SS e della polizia Rauter – anch'egli parossisticamente antisemita – non aveva avuto alcun tipo di ostacolo nel porre l'eliminazione degli ebrei come obiettivo prioritario. La comunità ebraica, di contro, era attraversata da linee di divisione sociale piuttosto marcate, soprattutto quella di Amsterdam, divisa tra una maggioranza di piccoli commercianti dal reddito prossimo alla soglia della povertà, con stili di vita conseguenti, e una classe media e un'alta borghesia proprietaria di ingenti fortune.
Questa frammentazione impedì di percepire la vera natura della minaccia, che, invece, prescindeva completamente da considerazioni sociali o di status, ma si muoveva seconda la logica razziale, anzi ancora più sinistramente biologico-razziale. Il consiglio ebraico, inoltre, si lasciò manipolare completamente dalla strategia di intimidazioni e lusinghe utilizzata dalla polizia tedesca, finendo per facilitare nei fatti la deportazione della propria gente. Ma il fattore probabilmente decisivo fu la collaborazione prestata dall'amministrazione olandese, in modo particolare dagli uffici delle anagrafi, che permisero ai tedeschi di individuare facilmente i cittadini ebrei, e dalla polizia, che affiancò con zelo non richiesto le operazioni di prelevamento eseguite dalle SS e dalla polizia tedesca.
Più difficile dire quale fu il comportamento complessivo degli olandesi. Al mito della nazione tollerante che si prodiga naturalmente per salvare i propri cittadini ebrei perseguitati è subentrata nel tempo la consapevolezza della sostanziale indifferenza che circondò la deportazione. Significative in tal senso le parole pronunciate dalla regina Beatrice nel discorso tenuto alla Knesset il 28 marzo 1995, nel quale riconosceva che il popolo olandese non era stato in grado di impedire lo sterminio dei propri concittadini ebrei, pur rendendo omaggio al valore di chi si era messo in gioco dando vita a forme di resistenza coraggiose. Oggi questi comportamenti tendono ad apparirci poco giustificabili e difficilmente riusciamo a comprendere la sostanziale inerzia che permise la realizzazione del progetto di sterminio nazista. Ci manca – possiamo dire fortunatamente – la capacità di riuscire a valutare compiutamente il ruolo svolto dalla pressione della violenza esercitata dal regime di occupazione nel coartare le volontà individuali, impedendo soprattutto che riuscissero a confluire in una dimensione collettiva. Ma resta la sensazione di fondo dell'inadeguatezza prima ancora che nel fronteggiare, nel comprendere compiutamente quanto stava accadendo, la natura della minaccia che la deportazione e lo sterminio ponevano all'idea stessa di umanità. Fattore decisivo fu la disgregazione di qualsiasi struttura collettiva sotto l'urto delle armate tedesche. Stati e società vennero disarticolati, privando le persone delle coordinate entro le quali incardinare i propri comportamenti. Restavano le scelte morali di ciascuno, fondamentali nel conservare un'idea di umanità, troppo deboli per impedirne lo scempio. È forse è proprio questa la lezione che dovremmo imparare.

Eddy Hamel

Direzioni diverse

Le stesse dinamiche hanno investito il mondo che ruotava intorno alle squadre di calcio. L'Ajax in particolare, dato che al momento dell'occupazione era la società che vantava il maggior numero di iscritti di origine ebraica. Nel 1941 i soci ebrei della società furono espulsi, in ossequio alle disposizioni del regime di occupazione; molti altri si dimisero prima di dover subire il provvedimento. Accanto a questa neghittosa acquiescenza conviveva la volontà di mostrare la propria disapprovazione per quanto stava avvenendo, come mostra uno stralcio del resoconto dell'attività 1941-42 pubblicato da Simon Kuper nel suo Ajax, the Dutch, the War, in cui si allude chiaramente alle deportazioni in corso, mostrando solidarietà e trepidazione per il destino dei propri soci. Tra questi c'era anche Eddy Hamel. Sebbene fosse nato a New York nel 1902 e avesse mantenuto la cittadinanza americana, nel 1942 venne deportato a Birkenau, dove morì il 30 aprile 1943.
Anche le scelte individuali presero direzioni diverse sotto l'urto dell'occupazione. Il capitano della squadra che vinse i campionati nel 1918 e nel 1919, Joop Pelser, che dal termine della carriera faceva parte del consiglio direttivo come socio onorario, fin dalla fine degli anni trenta si era iscritto al partito nazionalsocialista olandese con la moglie e il figlio Harry, anch'egli giocatore dell'Ajax. Un altro figlio, Jan, si era arruolato volontario delle Waffen SS, finendo sul fronte orientale. Nel 1942 Pelser incominciò a lavorare per la Lippman Rosenthal Bank, una banca che era stata sottratta ai proprietari ebrei e trasformata in un'agenzia che valutava i beni delle persone avviate ai campi di sterminio. Piet van Deijck, titolare della prima squadra, fece parte di una banda che razziava le case degli ebrei deportati. Nel dopoguerra fu anche accusato di aver denunciato alla Gestapo dei cittadini olandesi, anche se l'accusa non venne mai provata. Foeke Kermer, mediano di una squadra cadetta e allenatore delle giovanili, aveva catturato ad Harlem cinquanta persone che si stavano nascondendo e aveva prestato servizio quale sorvegliante nei campi, dove si era segnalato per i maltrattamenti che aveva inflitto ai prigionieri.
Kuki Krol e Leo Horn, invece, come abbiamo visto, avevano scelto di entrare nella Resistenza, costituendo un gruppo che svolse un'attività costante fino al termine della guerra. Fu un'esperienza che segnò in maniera indelebile entrambi. Horn dovette ricorrere a un potente sonnifero fino al termine della sua vita per riuscire a domare i lancinanti ricordi che gli facevano puntualmente visita ogni sera. Krol non riuscì mai a lasciarsi veramente alle spalle gli anni della guerra. Intervistato lungamente da Kuper nel 1999 quando stava scrivendo il suo libro sull'Ajax, era ancora così scosso emotivamente che alla fine non se la sentì di concedere l'autorizzazione a utilizzare le informazioni che riguardavano la sua vicenda e di permettere di venire citato ufficialmente. Il gruppo era formato da dieci persone che agivano nella più assoluta clandestinità, svolgendo azioni militari, soprattutto di sabotaggio alle linee di comunicazione dell'esercito tedesco, e provvedendo a mantenere in vita una rete di alloggi dove era possibile tenere nascosti per lunghi periodi gli ebrei che erano riusciti a sfuggire alla deportazione, cercando di organizzarne, quando possibile, la fuga. Uno dei centri organizzativi era il negozio di Kuki Krol, che venne individuato dalla polizia tedesca. Krol sfuggì alla cattura, perché nel momento dell'irruzione casualmente non si trovava nel negozio. Venne, però, perquisito il commesso, un giovane comunista che militava anch'egli nel gruppo. Lo tradirono le tre diverse carte d'identità che gli vennero trovate addosso. Non tornò mai dal campo in cui fu deportato. Si creò anche una rete informale tra molti dei soci che partecipavano più attivamente alla vita della società, che dispensò aiuti di ogni genere non solo agli ebrei perseguitati. Questa rete fu attiva soprattutto nell'ultimo terribile inverno di guerra, l'Hongerwinter, quando ad Amsterdam più di un migliaio di persone morirono di fame e di stenti, procurando e distribuendo aiuti alimentari e vestiario.
L'Ajax, però, incominciò a essere identificata con gli ebrei a partire dagli anni sessanta, quando le tifoserie delle squadre avversarie cominciarono a definire i biancorossi “squadra di ebrei” con intenti non proprio celebrativi, fino, in anni più recenti, a invocare dalle curve una nuova Auschwitz o a riprodurre il sibilo delle camere a gas all'ingresso dei calciatori in campo. Per inciso, non solo in Olanda: quando nel 2003 l'Ajax giocò a Roma una partita di coppa, i tifosi giallorossi accolsero gli olandesi con uno striscione che recitava: «And now... go to have a shower». Ben presto i tifosi dell'Ajax rivendicarono con orgoglio l'identificazione, cantando a squarciagola “Ebrei!” mentre sventolavano bandiere con la stella di David, meglio nota negli stadi come la stella dell'Ajax, o srotolando in curva un'immensa bandiera israeliana.

Unica possibilità: l'Ajax

L'Ajax, però, non era più la squadra degli ebrei dello Jodenbuurt degli anni trenta. Durante l'occupazione il quartiere era stato trasformato in un ghetto dai tedeschi, che lo avevano recintato con il filo spinato per rendere più spedite le operazioni di prelevamento delle persone da avviare alla deportazione. Come abbiamo visto, al termine della guerra non era tornato quasi nessuno. Il quartiere era diventato un ammasso di rovine e le case lasciate vuote erano state saccheggiate; persino gli stipiti delle porte erano stati usati come legna da ardere. E anche delle cinque squadre di calcio ebraiche non era rimasto niente.
Così i ragazzi delle poche famiglie ebree sopravvissute che volevano giocare a calcio cominciarono a bussare timidamente alle porte dell'Ajax. Era una scelta quasi naturale.
Nel 1949 due ragazzini, Sjaak Swart e Bennie Muller, furono accettati nelle giovanili dell'Ajax. Il padre di Swart vendeva aringhe al mercato, la famiglia di Muller aveva un banco di frutta e verdura.
Nel 1956 Swart debuttò in prima squadra a soli diciotto; l'anno dopo toccò a Muller. Swart – il cui soprannome divenne significativamente Mr. Ajax – avrebbe giocato 596 partite ufficiali con la maglia dell'Ajax, vincendo otto campionati, tre coppe dei campioni e una coppa intercontinentale; Muller divenne il capitano dei biancorossi e della nazionale olandese. Era nata la squadra del ghetto. L'identificazione divenne ancora più stretta qualche anno dopo, quando un gruppo di imprenditori ebrei cominciò a entrare nel consiglio direttivo dell'Ajax e a investire massicciamente nella squadra, che divenne in breve tempo la più forte d'Europa, segnando un'epoca del calcio mondiale.
Nel 1964 venne eletto presidente della società Jaap van Praag. I suoi genitori e la sorellina erano morti nei campi di sterminio ed egli era riuscito a salvarsi grazie all'aiuto della rete dei soci dell'Ajax, che lo avevano tenuto nascosto per due anni e mezzo. Tra i principali finanziatori della squadra c'era Maup Caransa, immobiliarista e proprietario di vaste zone di Amsterdam. Anche i suoi genitori e i suoi quattro fratelli non erano mai tornati dai campi. Figlio di un commerciante di carbone, Caransa aveva cominciato a lavorare a dodici anni girando per il quartiere ebraico con un carretto per vendere petrolio e carbone.
Ma gli altri grandi finanziatori della squadra erano diventati i fratelli Freek e Wim van der Meijden, che ad Amsterdam tutti chiamavano significativamente “i costruttori del bunker”. Titolari di una piccola impresa di costruzioni, durante l'occupazione si erano messi al servizio dell'amministrazione tedesca, costruendo caserme, postazioni di artiglieria lungo la costa e, appunto, bunker, accumulando una fortuna ingente e sviluppando una delle società edili più rilevanti del paese. Dopo la liberazione, vennero condannati a tre anni di carcere per collaborazionismo. Accesi tifosi dell'Ajax, scontata la pena ricominciarono a frequentare le tribune dello stadio De Meer e a sostenere economicamente la squadra, accollandosi numerose spese e aiutando i calciatori, ancora semiprofessionisti, a trovare adeguate sistemazioni. Ma l'infamante pena subìta divenne un ostacolo insormontabile all'ingresso ufficiale nel consiglio direttivo della società. Fino all'elezione a presidente di van Praag. L'uomo che si era salvato dalla morte nascondendosi per due anni mezzo e la cui famiglia era stata sterminata nei campi, tendeva la mano a chi aveva collaborato attivamente con la macchina dell'occupazione. Qualche tempo dopo Freek e Wim van der Meijden restaurarono a proprie spese una vecchia sinagoga che stava cadendo a pezzi.
Il 15 novembre 1964 sul campo di Groningen debuttò in prima squadra il diciassettenne Johan Cruijff. Due anni dopo, il 7 dicembre 1966, nella partita di andata degli ottavi di finale della coppa dei campioni, l'Ajax sconfisse per 5 a 1 il Liverpool, grande favorito per la vittoria finale. Quel gruppo di ragazzi cresciuti intorno al vecchio stadio aveva iniziato a scalare il mondo.
Ruud Krol tutta questa storia la conosceva bene. Fino alla sua morte, avvenuta nel 2003, suo padre aveva tenuto su un tavolino in soggiorno la fotografia del ragazzo catturato dai tedeschi nel suo negozio. Non poteva, però, sapere che nel 1947 il tredicenne Abraham Klein, profugo dall'Ungheria e dalla Romania, sulla strada per Israele era stato ospitato per un anno in Olanda, insieme ad altri cinquecento bambini, frequentando la scuola nella città di Apeldoorn. Lo avrebbe raccontato soltanto anni dopo a Simon Kuper. Né Klein poteva sapere del ruolo avuto dal padre di Krol durante l'occupazione nel salvare dalla deportazione gli ebrei che si trovavano in Olanda. Lo avrebbe saputo da Leo Horn soltanto nel 1994, nel corso di una conversazione addentratasi accidentalmente nelle vicende della guerra, svoltasi durante uno dei suoi periodici viaggi ad Haifa per rendere visita al suo grande amico.
Daniel Passarella, invece, non avrebbe dovuto essere il capitano della squadra argentina. Aveva ereditato la fascia da Jorge Carrascosa, il terzino sinistro dell'Huracán, che aveva rinunciato alla nazionale per non dover sostenere il regime di Videla. Il posto alla sinistra della difesa, invece, era finito ad Alberto Tarantini, che ha rivelato in un'intervista di qualche anno fa che tre suoi amici furono sequestrati dai militari e risultano ad oggi tra i desaparacidos. A trecento metri dallo stadio Monumental di Buenos Aires sorgeva la Escuela de Mécanica della Marina Argentina.

Cartolina commemorativa di Ruud Krol

L'aguzzino e la vittima

Nei primi giorni dopo il colpo di stato del 1976 l'edificio era stato utilizzato per trattenere le prime persone fermate; in seguito divenne il luogo in cui veniva rinchiuso chi era destinato a sparire. Anche in quel pomeriggio di giugno continuavano le torture dei prigionieri detenuti al di fuori di ogni procedura legale, che il regime dei generali giudicava suoi oppositori. Quel dramma che segnava il mondo lacerato dalla guerra fredda si stava incrociando su un campo di calcio con la tragedia che aveva distrutto l'idea stessa di civiltà. E chi stava torturando in nome di un'altra paranoica visione del mondo negava che chi era stato beneficiato da chi aveva tenacemente cercato di difendere i valori umani fosse in grado di saper dirigere obiettivamente una partita.
Molti anni dopo, nelle sue memorie pubblicate nel 2009, il centrocampista del Tottenham Osvaldo Ardiles, dal tocco elegante e dal grande senso tattico, proverà a mettere ordine nel tumulto di pensieri che si rincorrono da allora su quel pomeriggio: «Stavamo disputando la finale nello stadio del River Plate, e a tre-quattrocento metri c'era la scuola di meccanica navale. Solo dopo abbiamo scoperto che era il principale centro di tortura della marina. E penso che, quando segnavamo, tutti ci potevano sentire. Le guardie magari dicevano ai prigionieri “stiamo vincendo”, è così che probabilmente glielo riferivano. Non dicevano “L'Argentina sta vincendo” ma “noi stiamo vincendo”. Uno è l'aguzzino, l'altro la sua vittima. E poi penso: coloro che erano imprigionati come si sentivano, felici o tristi? In un certo senso erano felici perché erano argentini, e stavamo vincendo la Coppa del Mondo per la prima volta nella nostra storia. Meraviglioso. Ma sapevano che quella vittoria significava che la dittatura militare sarebbe durata ancora a lungo. Che non sarebbero stati rilasciati. Cosa hanno provato in quei momenti?»
Già, cosa hanno provato? Può darsi si stessero chiedendo fino a quando la gente può continuare a voltarsi da un'altra parte facendo finta di non aver visto. Ma ho paura che la risposta si sia persa nel vento. Forse per sempre.

Giovanni A. Cerutti

Per saperne di più

Le vicende intorno alla squadra dell'Ajax sono tratte dal lavoro di Simon Kuper, Ajax, the Dutch, the War. The Strange Tale of Soccer During Europe's Darkest Hour, Orion, London 2003 (edizione italiana, Ajax, la squadra del ghetto, Isbn, Milano 2005).

Le informazioni sull'occupazione tedesca in Olanda provengono dalla voce Olanda redatta da Werner Warmbrunn nel Dizionario dell'Olocausto, a cura di Walter Laqueur, Einaudi, Torino 2004.

Sullo svolgimento dei mondiali di calcio in Argentina nel 1978 vedi Alec Cordolcini, Pallone desaparecido. L'Argentina dei generali e il mondiale del 1978, Bradipo libri, Torino 2011.

L'autobiografia di Osvaldo Ardiles è stata pubblicata con il titolo Ossie's Dream. My Autobiography, Bantam Press, London 2009.

La svastica allo stadio

I precedenti contributi di questa serie di articoli di Giovanni A. Cerutti sono apparsi sul numero 374 di “A”, ottobre 2012 (“Árpárd Weisz, un maestro del calcio europeo inghiottito nel nulla”), e sul numero 375, novembre 2012 (“Ernest Erbstein, l'uomo che fece grande il Torino”).