rivista anarchica
anno 42 n. 376
dicembre 2012 - gennaio 2013


lettere


Dalla parte di chi lotta e non s'inchina

Attenzione! Attenzione!
Questo, a distanza di 100 giorni dal mio arresto, è un piccolo contributo che voglio dare per mettere in guardia voi tutte e tutti.
1) Se per caso avete lampadari in casa, funzionanti con lampadine, fate attenzione, potreste pentirvene. Ma se proprio non potete farne a meno di averne qualcuno, non tenete in casa altre lampadine, oltre quelle già inserite negli appositi lampadari. Quando si fulmineranno, vagherete nel buio e solo allora potrete averne di nuove. Assicurandovi però di buttare quelle rotte, perché anche esse, come fatto notare dagli acutissimi Ros e Pm, sono un ottimo mezzo per costruire bombe.
2) Se ritenete opportuno abbellire la vostra presenza fisica con orecchini, badate bene a non acquistarli, qualora siano di rame. E se per caso un amico o amica ve ne voglia regalare un paio, separatevene senza indugi, perché sono armi pericolosissime.
3) Se non avete la maniacale abitudine di dare un posto ad ogni cosa, ma siete disordinati e tendete ad avere una improvvisata scatola degli attrezzi, dove tenete fra l'altro chiodi e pinzette per fermare i fogli, che dirvi? Evidentemente siete pericolosi terroristi, pronti a preparare bombe in ogni minuto.
4) Se vi capita di avere in casa mollette per i panni, non di plastica, bensì di legno, inceneritele, bruciatele, spargete le loro ceneri ai quattro venti. Non avete idea di cosa si nasconda dietro di loro.
A voler essere seria, tutta questa trafila di piccoli, ma non poco importanti avvertimenti, servono perché la notte in cui mi hanno arrestata hanno trovato nella casa dove vivo con il mio compagno (e dove non mi trovavo) lampadine di riserva, orecchini di rame, chiodi, ferma fogli e una molletta di legno. Il tutto è stato messo insieme, fotografato e sistemato da loro stessi in modo tale da farlo sembrare un assemblaggio di oggetti per preparare ordigni esplosivi. Così, infatti, il materiale sequestrato è stato presentato dai Ros e dalla Pm durante l'udienza del riesame.
Non parliamo ovviamente del fatto che, non avendo trovato alcun materiale cartaceo che descrivesse come si preparino tali bombe, sia stato da loro detto, evidentemente grandi conoscitori della mia persona, che non ce ne era bisogno, “perché era tutto nella mia mente, nella mia salda memoria!” Ogni commento è superfluo, vero?
Vorrei aggiungere un ultimo punto della lista, seppur a prima vista possa sembrare poco inerente ai precedenti:
5) Se questo mondo vi fa schifo; se ripudiate guerra, sfruttamento e devastazione; se non avete mai avuto il timore di dirlo; se non avete mai abbassato la testa pensando “non ci posso fare niente”; se ci avete sempre messo la faccia; se avete chiara la coscienza di chi sono i responsabili delle vite terribili che conduciamo; se siete convinte che la società in cui viviamo sia lobotomizzata; se non riuscite a guardare una gabbia con indifferenza; se il cuore vi si chiude, il sangue vi pulsa, la vista si annebbia al pensiero di una donna, di un uomo o di un animale rinchiuso, beh, prima o poi, come dice una donna rinchiusa qui con me “ti devi fare la galera”.
E se questo mio essere, questa Giulia che sto scoprendo forte, dignitosa, ancora più ferma e convinta delle sue idee e sprezzante dell'annichilimento in cui chi mi ha rinchiusa vorrebbe gettarmi; se questo mio essere loro lo vogliono etichettare come pericoloso, che costruisce bombe, che partecipa ad associazioni sovversive (magari affiliate alla fai-informale, nonostante qualunque cosa io abbia mai fatto, detto o pensato, non possa in alcun modo far pensare ad una mia benché minima adesione o partecipazione) volte a terrorizzare e seminare il panico fra la gente, beh, io non glielo permetto e rimando tutto al mittente.
Terrorista è chi rinchiude, chi manganella, chi devasta. E allora, parafrasando una canzone, che tremino i potenti di fronte agli animi fieri di tutte queste “terroriste”, che non hanno paura di lottare contro tutto ciò che realmente genera e rinvigorisce il terrore, la discriminazione, la diseguaglianza, la devastazione, lo sfruttamento.
Che tremino, che abbiano paura! La loro vera paura è che sanno che qualsiasi gabbia mi metteranno intorno, che sia cella, che sia lavoro, che sia diffamazione, che sia isolamento, niente mi toglierà la voglia di romperla e di continuare a guardare il mondo con gli occhi lucidi, aspri, vitali e liberi.
Che si arrovellino pure il cervello per trovare maglie migliori per le mie catene, io sarò più forte. Perché ho in me una coscienza, una consapevolezza di quello che sono, che non intaccheranno mai.
Che si specializzino nell'arte sopraffina (vera arte dei nostri tempi) del reinventare un significato per le parole, laddove guerra diventa missione di pace; laddove le bombe sono intelligenti e non pericolose e gli orecchini di rame e le lampadine pericolosi esplosivi; laddove il terrorismo non è quello di chi rinchiude, uccide, reprime ma quello di chi critica tutto ciò; laddove la devastazione si chiama civilizzazione, progresso o ricchezza; laddove il non accettare lo status quo dell'ingiustizia è sinonimo di pericolosità sociale; laddove gli immigrati carcerati si chiamano ospiti.
Le mie parole non hanno il peso della storia dei nostri tempi, della rabbia, dell'insolenza, della voglia di abbattere tutta la crudeltà, la ferocia della gabbia che rinchiude la vita di tutti noi, fuori e dentro le galere, schiavi di una vita che non vogliamo, di un mondo che cade a pezzi e che chiama i suoi residui progresso.

Dalla parte di chi lotta, di chi non si inchina.
Le bombe e il terrore li semina lo Stato, il Potere e la nostra santa Democrazia.
Per la libertà di tutte e tutti.
Una donna libera.

Giulia Marziale
Carcere Rebibbia – femminile
via Bartolo Longo, 92
00156 Roma



Elezioni regionali siciliane/Voto a perdere

Di questi tempi, parlare male delle istituzioni sembra quasi un inutile accanimento.
E se al centro della riflessione ci sono le Regioni, si rischia davvero di cadere nella banalità.
Ci basterebbe parlare della Regione Lazio, di Fiorito e dei festini pagati dai contribuenti. Ci basterebbe parlare della Regione Lombardia, di Formigoni e degli intrallazzi con la 'Ndrangheta. Ci basterebbe parlare della corruzione che, da Nord a Sud, rimane la cifra costante della politica italiana.
E poi, rimanendo sul piano locale, non faremmo davvero fatica a elencare alcuni degli innumerevoli esempi di inefficienze, sprechi e privilegi che caratterizzano la classe dirigente siciliana. Per non parlare poi delle compenetrazioni strutturali tra politica e mafia; dell'insopportabile arroganza di chi occupa posti di governo e sottogoverno in Sicilia ottenuti anche grazie al clientelismo; degli effetti nefasti prodotti dall'Assemblea Regionale Siciliana sulla pelle di questa terra martoriata.

Adesso i siciliani sono chiamati alle urne per il rinnovo dell'Assemblea Regionale Siciliana..
Tutti i candidati dicono di essere “perbene”. C'è chi promette di liberarci. Altri ancora promettono addirittura la rivoluzione. E ci sono persino quelli che fino a ieri mandavano 'affanculo il sistema, e oggi chiedono il voto per il loro partito.
Tutti, però, sono inquieti. C'è qualcosa che gli agita il sonno. Sembra che i politicanti di ogni colore abbiano paura di una cosa soltanto: l'astensionismo.

I sondaggi più recenti hanno rilevato che quasi la metà degli elettori siciliani non andranno a votare e non si presteranno così al rituale, ipocrita e farsesco, delle elezioni regionali. Per correre ai ripari, i politici fanno appello al senso di responsabilità di ciascuno, mettendo in guardia dai pericoli della cosiddetta antipolitica, ricattando moralmente ogni elettore perché colpevole, in caso di astensione, di favorire inevitabilmente gli avversari. Quello che temono, in realtà, è la delegittimazione del loro ruolo e del loro potere.

Da anarchici, la cosa non può che farci piacere, ma dobbiamo essere chiari.
Se questo nutrito “partito dell'astensione” fosse animato da una volontà anche solo vagamente simile alla nostra, saremmo praticamente a un passo dalla rivoluzione sociale.
Purtroppo, non è così.
Come abbiamo avuto modo di ribadire in più occasioni, l'astensionismo al quale noi facciamo appello presuppone un radicale cambiamento nel modo di intendere l'azione politica: non più la delega alle istituzioni e ai loro “specialisti”, ma l'azione diretta da parte degli individui e delle comunità che si autogovernano.
Il nostro astensionismo è coerente con una critica radicale e intransigente a tutti i meccanismi di potere, i quali sono - di per sé - impossibili da riformare o migliorare “dall'interno”. In parole povere, se si decide di giocare al tavolo delle istituzioni, bisognerà accettarne le regole, l'ingiustizia, la disumanità.
Ecco perché, se davvero si vuole trasformare realmente la società in direzione dell'uguaglianza e della libertà, non bisogna più sedersi al tavolo delle istituzioni nel vano tentativo di giocare lealmente una partita già truccata.

Anche se l'astensionismo è un primo, importante passo, non ci si può fermare al pur comprensibile disgusto per le campagne elettorali e per i candidati che ci ossessionano con la loro invadenza e la loro retorica.
Bisogna fare qualcosa di più: discutere con chi ci sta accanto, nelle scuole, nei posti di lavoro, nei quartieri; confrontarci su cosa davvero serve per gestire le nostre vite senza chiedere niente a nessuno. E poi autorganizzarsi, cominciare a costruire spazi di libertà e di autonomia, dal basso e in maniera solidale.
Solo così l'astensionismo può caricarsi di un significato più profondo e duraturo, solo così non avremo più bisogno di politicanti, di burocrati, e delle loro insopportabili campagne elettorali.

Gruppo Anarchico Andrea Salsedo”
Trapani



Il sapore dell'utopia

Nella prima edizione delle memorie di Umberto Tommasini c'è una foto del corteo funebre che lo accompagna al cimitero di Vivaro, in un giorno da canicola agostana. Mi vedo nelle prime file, con la bandiera rossa e nera, dopo lo striscione iniziale. Sono passati trentadue anni.
Ora mi si chiede un contributo sull'importanza della cultura materiale nei ricordi di Umberto. Quali sono le idee che ci nutrono e qual è l'importanza di quel nodo dove si aggrovigliano idee, azione, esperienza e materialità della vita? Non si può immaginare la libertà senza libertà d'immaginazione, scrivevamo sui muri qualche anno dopo, all'inizio della dittatura mediatica, ma non si può immaginare nemmeno la vera fame senza averla provata, e di conseguenza provare la gioia del cibo che ci ristora. In cento anni il mondo è cambiato evolvendosi, involvendosi, annodandosi, sperandosi e disperandosi. Ideologie, movimenti, guerre, rivoluzioni, repressioni, rivolte...
Per rimanere all'Europa e al piano delle culture materiali, nei centosedici anni che separano la nascita di Umberto a oggi, si è passati dalla fame nera all'abbondanza e allo spreco, e – per le classi danarose dei ladri legali – addirittura agli eccessi da basso impero decadente e opulento, con cene da 400 euro a testa e con assurde proposte di abbinamento tra ricette fantasiose e acque minerali provenienti da tutto il mondo! Proprio nello stesso momento in cui – a causa dei disastri ambientali – nel mondo iniziano le guerre per l'acqua, per la sopravvivenza. Contraddizioni e differenze che gridano vendetta. Ora con la crisi si riaffaccia di nuovo lo spettro della fame anche nei paesi “sviluppati”. Eppure noi difficilmente riusciamo a immaginare quel che significa miseria e fame nera, quella provata dai nostri nonni o bisnonni, quella provata da Umberto.
Nel libro ci sono dei passaggi commoventi con ricordi puntualissimi dei cibi consumati in particolari occasioni. L'esperienza unica e una fame singolare moltiplicano l'attenzione percettiva e la memoria. È necessario pensare alle condizioni materiali ed economiche dei periodi storici del Novecento, altrimenti leggendo le memorie di Umberto si rischia di stravolgerne il senso.
Durante il confino all'isola di Ponza, degli antifascisti si organizzano in maniera spontanea e naturale in mense, secondo tradizioni gastronomiche regionali. Quando arrivano i caporioni del partito comunista, le mense vengono invece suddivise per appartenenza ideologica. È uno dei momenti in cui Umberto si scontra con l'aspetto egemonico e settario partitico nella pratica delle cose. Non rivendica alcuna comunanza identitaria e geografica ma una semplice abitudinarietà, il fatto stesso che siamo abituati a mangiare i frutti della terra dei luoghi vissuti e le ricette derivate dalla trasformazione di questi frutti, e questa trasformazione è il risultato di esperienze, gesti, affetti che ci consolano con ricordi “proustiani”. Che non sono nostalgia e rivendicazione identitaria ma sono solo il fatto che siamo un concentrato di contraddizioni e tensioni tra ciò che vogliamo essere e ciò che abbiamo vissuto.
Tant'è vero che quando Umberto arriva in Spagna durante la rivoluzione, secondo quanto riportato da Paolo Gobetti in una video-intervista, a emergere è la felicità per la gratuità del cibo, lo stravolgimento dei rapporti di produzione è l'appagamento di un desiderio rivoluzionario. Altro che la cucina molecolare dell'odierno chef catalano alla moda! è l'aroma dell'utopia che si respira, è il sapore della libertà. La cognizione del gusto, i percetti e gli affetti diventano rivoluzionari. La via libertaria è dunque atto di resistenza contro la distruzione dei sapori, contro l'annichilimento dei saperi ma anche contro la deprivazione sensoriale che ci porta all'ottundimento della nostra facoltà di udire, di vedere, di tastare, di gustare e di annusare... e quindi di pensare.
L'insensatezza deriva dai rapporti di produzione, ossia dalle modalità con le quali gli uomini producono e si relazionano tra di loro. È allora il caso di domandarsi: che tipo di sensorialità sviluppano o inibiscono i rapporti di produzione? In che modo e perché le relazioni sociali sono insensate – si producono nell'inibizione della sfera sensoriale o nell'indifferenza verso di essa?
Noi non possiamo immaginare cosa ha provato Umberto nel gustare quei pasti gratuiti, durante quel frammento di utopia realizzata, ma oggi come allora, questa consapevolezza ci pone corpo a corpo, senza alcuna possibilità di mediazione, in una battaglia che diventerà cruciale nei prossimi decenni. Sarà cruciale per le sorti del pianeta e per la possibilità che continui a esistere una sensibilità planetaria. Occorre avere coscienza che siamo ai limiti dell'irreversibilità dell'insensatezza globale. Proprio per questo è necessario il rifiuto di produrre e di consumare l'infelicità del mondo, ma anche di ogni localismo politico e identitario. Il locale che si contrappone al globale non è nient'altro che il suo gemello stupido, rancoroso e noioso. Basta guardarsi sotto i piedi, l'uomo non ha radici e se fosse identico a ciò da cui origina avrebbe ben poco da gloriarsene. Uno dei limiti del movimento anti-globalizzazione è stata la pretesa di modificare le regole del potere politico attraverso l'uso della rappresentanza politica. Da questa ossessione per la rappresentanza deriva il suo eccessivo carico simbolico e la sua forte spettacolarizzazione. La sensibilità libertaria rifiuta questa contrapposizione speculare. La sensibilità planetaria non propugna un'altra globalizzazione, ma cerca una via di fuga sia dal localismo sia dalla globalizzazione. Il localismo è nemico della sensibilità planetaria. La globalizzazione la distrugge.
Fuori tema. Materialità della vita e dell'esperienza. Pensiero e azione. Ho visto Umberto di persona solo una volta, ma dopo il funerale mi è capitato più volte, da solo o con compagni e amici, di passare a salutarlo con un fiore, attraversando il paesaggio lunare dei magredi che da Rauscedo porta a Vivaro. Ho riletto il libro di Tommasini di recente. La foto che lo vede ritratto accanto a Pannella, durante un comizio di una marcia antimilitarista nel 1973, mi ha ricordato un fatto raccontatomi da un compagno. Durante un contraddittorio Umberto disse al leader radicale pressappoco queste parole: “Diventerai un servo dei padroni e dello Stato”. Non si trattava di una profezia, ma di una motivata analisi politica che dimostrava che dalle posizioni “liberali” di Pannella, mancanti di una visione politica più complessa del potere, non si poteva che arrivare – prima o dopo – a diventare ciò che Pannella è diventato. È stato così, lo possiamo constatare. Guarda caso quelli erano gli anni in cui Pierpaolo Pasolini, intellettuale osannato ancora oggi da destra e da sinistra, manda ai Radicali un augurio, pieno di elogi e di adesione, per un Congresso. Il critico della “mutazione antropologica” degli italiani e della fobia dell'omologazione ebbe anche delle idee interessanti, inutile negarlo, ma fu anche difensore degli sbirri di Valle Giulia nel '68 e assunse altre ambigue posizioni. Non fosse stato assassinato nel 1975, forse lo avremo ritrovato nel 2011 a fianco della sua amica Oriana Fallaci nell'odio razzista. Da lì si arriva a lì. Come aveva intuito Tommasini a proposito di Pannella: da lì si arriva a lì. La lettera ai Radicali di Pasolini è tanto bella formalmente (ricordate “subito i grandi successi: e continuare imperterriti, ostinati, eternamente contrari, a pretendere, a volere, a identificarvi col diverso; a scandalizzare; a bestemmiare”) ingenua dal punto di vista politico. Umberto era un rivoluzionario senza le nostalgie e le ingenuità politiche di Pasolini, forse la sua cultura non era quella del poeta di Casarsa, ma portava dentro di sé il seme delle idee libertarie (“portiamo un mondo nuovo nei nostri cuori”, diceva Durruti), forgiate nella materialità dell'esperienza, che gli impedirono di prendere le posizioni di Pannella e di Pasolini. Se dovessi scegliere tra i tre... ho già scelto. Grazie Umberto!

Marc Tibaldi
Lecce



Per un antispecismo libertario

È più probabile che riusciamo a persuadere gli altri a condividere il nostro atteggiamento se temperiamo i nostri ideali con il buon senso, che non se ci battiamo per un genere di purezza più appropriato a una legge alimentare religiosa che a un movimento etico e politico.

(Peter Singer – Liberazione Animale)

Sempre più frequentemente da vegani inorriditi dall'olocausto animale, ci sentiamo a dir poco in forte imbarazzo di fronte ad atteggiamenti d'intolleranza, accuse senza possibilità d'appello addirittura verso vegetariani, ad opera di non pochi animalisti. In effetti potremmo citare decine di aneddoti: pazze che non comprendono come una vegetariana possa convivere con un onnivoro, cinquantenni, sessantenni, settantenni neo-convertiti che salgono e risalgono sul pulpito per arringare chiunque gli capiti a tiro, vegetariani insultati durante conferenze informative pro vegan rei di comprare uova biologiche al mercato del proprio paese.
Lo ripetiamo, siamo coscienti della tragica situazione in cui riversano gli animali non umani nella nostra società, e facciamo del nostro meglio per non prender parte e quando possibile combattere le principali forme di sfruttamento animale; ma non siamo affatto convinti che l'intolleranza, gli atteggiamenti da integralisti, il trasformare ogni persona in un miscredente da indottrinare, servano effettivamente alla causa animalista.
Fin da “Liberazione Animale” del 1975, Peter Singer, probabilmente uno dei più celebri esponenti del movimento, ci ha messo in guardia dalle degenerazioni irrazionaliste: “Io non credo che la coerenza si identifichi con, o abbia come conseguenza, una rigida insistenza su criteri di assoluta purezza in tutto ciò che si consuma o si indossa [...] Anche per quanto riguarda la dieta, è più importante ricordare gli obiettivi principali che non preoccuparsi di dettagli quali la questione se il dolce che vi viene offerto a una festa sia stato preparato con un uovo di allevamento intensivo”1
L'integralismo in ambito animalista è stato più volte stigmatizzato anche da Tom Regan, altro celebre esponente del movimento. In “Gabbie Vuote” scrive di conoscere attivisti per i diritti animali tanto moraleggianti dal preferire cambiar strada piuttosto che avere a che fare con loro2. Anche noi, come abbiamo già detto, ne conosciamo.
Nato come ampliamento, universalizzazione dell'etica antropocentrica oltre i confini della specie, il movimento antispecista rivela in non pochi dei suoi membri molte di quelle pratiche autoritarie e liberticide che vorrebbe radicalmente combattere. In effetti, anche se, come movimento radicale di liberazione, l'antispecismo incarna la consapevolezza che ogni processo di emancipazione sociale non può rimanere rinchiuso negli angusti ambiti dell'antropocentrismo, siamo d'accordo con Andrea Papi, che la trasformazione, in breve tempo, del movimento libertario in movimento antispecista sia auspicabile ma tutt'altro che scontata.3 Soprattutto, al di là degli attivisti e dei militanti, la trasformazione rivoluzionaria della società in direzione di un antispecismo libertario è un processo a dir poco complicato, reso ancor più difficile dal fatto che non è assolutamente vero che i principi dell'umanismo anarchico possano essere aproblematicamente ampliati in direzione antispecista.
Senza dubbio, e lo dimostrano molti articoli pubblicati sulla rivista di critica antispecista “Liberazioni”, nonché il fitto dibattito sull'antispecismo in ambito anarchico, è possibile che i movimenti libertari evolvano verso l'antispecismo, ma si devono evitare semplificazioni e non nascondersi le non poche difficoltà.
Ad esempio, quanti all'interno del movimento antispecista farebbero o fanno proprio lo slogan anarchico (qui parafrasato): l'antispecismo o sarà libertario o non sarà? Quanti, pur pronti ad usare tutta la violenza necessaria per distruggere ogni struttura di dominio, sarebbero poi in grado di mettere in pratica la celebre frase di Malatesta, che neppure il bene può essere legittimamente imposto con la violenza4?
Il problema è che l'innesto dell' antispecismo sul tronco della tradizione anarchica (o viceversa) non è affatto un'operazione scontata. Apparentemente, come dicevamo prima, l'antispecismo potrebbe essere interpretato come un ampliamento, un'universalizzazione degli storici movimenti di liberazione umani, come l'antirazzismo o il femminismo; ma, come Peter Singer rileva, il movimento di liberazione animale ha tra i suoi principali handicap “il fatto che quasi tutti gli appartenenti al gruppo oppressore sono direttamente coinvolti nell'oppressione” .
In effetti oggi la specie umana è nella sua stragrande maggioranza specista (in Italia, ad esempio, i vegani sono lo 0,6 per cento della popolazione!). Questo significa che l'antispecismo oltre a implicare il superamento dall'antropocentrismo (già implicito di per sé nella tradizionale prospettiva atea dell'anarchismo) implica, secondo alcuni, anche l'abbandono dell'umanismo5. è quest'ultimo congedo in effetti, oltre a portare l'animalismo antispecista “all'isolamento dal resto dei movimenti progressisti, che spesso sfocia in posizioni politiche reazionarie6, a rendere tutt'altro che banale l'incontro con il movimento anarchico e libertario, movimento che, come scriveva ancora Malatesta, fa della libertà il proprio metodo7.
In effetti bisogna tener presente che la libertà tematizzata dagli anarchici è sempre stata libertà strettamente umana, affrontata in tutte le sue inevitabili implicazioni specifiche. Partendo da queste osservazioni, ci domandiamo tutt'altro che in maniera retorica, in che modo il movimento di liberazione animale può far propria la “libertà come metodo”, centrale nel pensiero e nella pratica anarchica? A una domanda come questa, oggi, è molto difficile offrire risposte condivisibili, evitando di ricadere in quelle pratiche autoritarie che si spera di combattere.
Vi è poi da considerare che i movimenti libertari hanno sempre fatto proprio come minimo un individualismo metodologico tutt'altro che condiviso, però, in ambito antispecista8. Quindi, come può essere ripensato il concetto di individuo, di interessi individuali, di rispetto delle scelte del singolo nella sua specificità in una prospettiva che vada oltre la specie?
Peter Singer evidenzia poi un ulteriore problema1. La liberazione animale non potrà certamente avvenire tramite la lotta degli oppressi. Non sarà attraverso la loro capacità di ribellione, che gli animali non umani riusciranno a liberarsi dall'oppressione, ma sarà tramite l'aiuto degli ex-oppressori. Il processo della liberazione animale non potrà avvenire in alcun modo tramite quelle pratiche di autoorganizzazione che gli anarchici considerano quasi come l'anticipazione stessa dell'anarchia. Il movimento antispecista, per questi aspetti, può rischiare di prendere strade ben lontane dalle pratiche anarchiche, o anche solo democratico popolari. E' probabilmente molto più compatibile con tutte quelle impostazioni politiche di derivazione platonica, e quindi elitarie, secondo cui i sapienti, (ovvero le avanguardie, il partito, i tecnici, gli illuminati di ogni ordine e grado) sono chiamati dalla repubblica ideale a governare il volgo e a liberarlo dall'ignoranza e dal male. Il movimento antispecista (anche se in teoria, e noi ovviamente ce lo auguriamo, potrebbe essere una sorta di movimento libertario al quadrato, che fa propria la concezione che non si dovrebbe aspirare a prendere e a esercitare il potere, quanto piuttosto a dissolverlo) rischia di non essere affatto immune, complice il suo elitarismo antiumanista, da derive antipopolari e autoritarie.
Il problema quindi della possibilità dell'affermarsi di un antispecismo libertario è un problema complicato, reso ancora più complicato dal fatto che ogni articolazione del discorso in direzione “umanista” può facilmente venir ricondotta a pregiudizio “specista”, come atto di colpevole giustificazionismo nei confronti dell'ideologia del dominio, di tolleranza nei confronti degli autori e di tutti gli umani complici dell'olocausto a cui gli altri animali sono quotidianamente sottoposti.
In ogni caso ( sperando di non venir additati come “collaborazionisti”, ma ce ne faremo una ragione...) rimane la nostra speranza che “vegano” non diventi sinonimo di “talebano” ovvero che l'antispecismo (è effettivamente già preoccupante doverlo sottolineare) o sarà libertario o non sarà.

Luca Cartolari
Sara Vittone
Perosa Canavese (TO)

Note

  1. Peter Singer - “Liberazione Animale” – 1975 – Il Saggiatore Tascabili - 2009
  2. Tom Regan – “Gabbie Vuote, la sfida dei diritti animali” – 2004 – Edizioni Sonda – 2009
  3. Si vedano gli interventi di Troglodita Tribe e di Andrea Papi, sui numeri 367, 368, 370, 371 di “A rivista anarchica”
  4. Errico Malatesta – “Un lavoro lungo e paziente...”, secondo volume delle Opere complete a cura di Davide Turcato – La Fiaccola, Zero in condotta
  5. Oltre la Specie - “Al di là dell'umanismo: l'orizzonte inesplorato dell ‘in-umano” - Pubblicato su “Liberazioni Rivista di critica antispecista” n.8 2012
  6. Massimo Filippi - “Antispecismi” - Pubblicato su “Liberazioni Rivista di critica antispecista” n.10 2012
  7. Davide Turcato – Leggere Malatesta – Edizioni Bruno Alpini - 2010
  8. Aldo Sottofattori - “Martin Balluch e la lotta per la liberazione animale” - Pubblicato su “Liberazioni Rivista di critica antispecista” n.8 2012.

 


A Pino

Giuseppe Pinelli
nato a Milano
il 21 ottobre 1928
ammazzato a Milano
la notte del
15 dicembre 1969

Caro Pino,
Caro compagno d'ideali libertari,
Oggi, 21 ottobre nella ricorrenza dei tuoi natali
Ti devo un pensiero.
Un pensiero lungo oltre quarant'anni
Per un'epoca breve ma intensa
Di lotte e di azioni per diffondere
L'Idea d'Anarchia, Idea d'Amore e di Pace.
Epoca chiusa dai malvagi in una fredda notte di Dicembre.
Quel 15 Dicembre che ha appesantito le nostre menti
E svuotato i nostri cuori: il mio e quelli dei compagni tutti
Del Circolo Ponte della Ghisolfa.
Per noi non era mancato un “militante” ma un Fratello;
Per questo io amo ricordare i Tuoi 41 anni di allora e non oltre.
Il tempo che ne segue è accompagnato
Dal buio di quella notte, da quella sottile nebbia
Che ha ammantato una Milano ferita dall'atrocità
Commessa in quella Banca di Piazza Fontana.
Un lungo abbraccio dal Tuo.

Ivan Guarnieri
Milano



Libertà per i gatti detenuti

Non è un mistero che la liberazione sia un percorso lungo e difficile, che ci sia da combattere con muri e gabbie di ogni genere, ma se c'è un fatto evidente, inossidabile, senza il quale questo percorso non è neppure iniziato, è proprio la facoltà di riuscire ad immaginare questa liberazione, la facoltà di reputarla possibile, realistica, attuabile.
Chi considera la libertà una mera utopia, chi pensa all'anarchia come ad un fatto puramente teorico che non trova certo posto nella propria vita quotidiana, che non è neppure ipotizzabile in questo contesto storico, ha perso, ovviamente, ogni possibilità di liberarsi.
Franco, un anarchico che conoscemmo in un paesino ligure nei pressi di Seborga, una volta ci disse: “Io all'anarchia ci credo davvero. Sono davvero convinto che la possiamo realizzare, ma non in un futuro lontano, la possiamo realizzare nel giro di poco tempo. Se non ci credessi non sarei anarchico.” Ed è vero, verissimo. Come si fa a credere in qualcosa che si ritiene irrealizzabile? Nel momento in cui lo ritieni irrealizzabile, illusorio, impossibile, hai già smesso di crederci.
L'immaginario umano, però, in moltissimi casi, è talmente domato e addomesticato da non riuscire più neppure ad immaginare realizzabile non solo la propria liberazione personale (così connessa a quella collettiva), ma il concetto stesso di libertà.
Leggo da un blog di “esperti” di gatti e resto allibito: la libertàdel gatto è un concetto romantico ed attraente, ma, in pratica, il sistema piùsicuro per abbreviarne l'esistenza, sempre che non sia possibile liberarlo in un luogo assolutamente sicuro, come un cortile o un giardino chiuso da ogni parte da muri sufficientemente alti, infatti, le reti sono scavalcate facilmente e basta un albero a “portata di zampa” e l'evasione è certa.
Evidentemente neppure la caparbia insistenza del gatto nel ricercare la sua libertà è sufficiente per far comprendere i suoi desideri, le sue intenzioni, la sua volontà. Togliere la libertà a qualcuno “per il suo bene” significa considerarlo, a tutti gli effetti, un incapace, un essere che non è neppure in grado di vivere a suo modo. Succede nei manicomi, succede con ogni forma di proibizionismo, succede quando si pretende che i nomadi non possano spostarsi come meglio desiderano, succede in tutte le forme di “educazione” repressiva e violenta. Succede perché chi è differente, chi si scosta dalle direttive indicate dal dominio, chi agisce e dimostra la propria libertà deve essere ricondotto sulla retta via, ad ogni costo.

Lo sciopero selvaggio è un gatto nero

Il gatto nero è un simbolo utilizzato dai movimenti anarchici a causa della sua indipendenza, della sua irriducibile propensione alla libertà.
Il gatto nero anarchico si chiama, genericamente, Wild Cat (gatto selvatico). È un gatto nero (molti lo intendono come una gatta nera, però) in posizione di allerta e di combattimento, con la schiena inarcata; una raffigurazione ripresa in maniera esatta dall'atteggiamento di ogni gatto che si predispone alla lotta. Tra gli anarchici è però noto come Sab Cat o Sabo Tabby: questo il nome che gli (le) diedero gli Industrial Workers of the World. “Gatto Sabotatore”, o “Sabomicio”. Non poteva essere altro che nero (nera): fin dal 1880 circa il colore nero è associato all'anarchismo, e in particolare all'anarcosindacalismo. Una caratteristica che si è mantenuta nella denominazione inglese per lo “sciopero selvaggio”, vale a dire quello intrapreso spontaneamente dai lavoratori senza nessuna “concertazione” con i sindacati ufficiali e senza preavviso: Wildcat strike. In inglese, le azioni di sciopero diretto, non mediato e a oltranza sono lo sciopero del gatto selvatico – naturalmente nero.
Rinchiudere un gatto in una gabbia, però, è un ulteriore simbolo, è la negazione della libertà, è la repressone dell'indole libertaria che incarna.
Un gatto ha bisogno di un territorio di diversi chilometri che esplora quotidianamente, marcando il terreno, appostandosi di vedetta in luoghi strategici, combattendo per difenderlo. La vita di un gatto si realizza esclusivamente in condizioni di libertà. In una gabbia o in un appartamento potrà sopravvivere, certo, proprio come un umano potrà sopravvivere dentro una cella, o costretto ad un lavoro stressante che odia, che lo reprime, che lo porta inevitabilmente alla nevrosi e alla malattia.
Ma se non si riesce più a concepire la libertà per le specie non umane, che sono libere per antonomasia, che fondano la loro intera esistenza sulla libertà, se vogliamo rinchiudere anche loro, come possiamo sperare di liberare noi stessi?
Ma del resto si tratta dell'ennesima conferma di quanto la liberazione umana sia legata indissolubilmente alla liberazione animale. Chi non è libero, chi ci ha già rinunciato e ti ride alle spalle, vuole rinchiudere tutti gli altri. Rinchiuso in gabbie mentali, rinchiuderà gli animali in gabbie di ferro.
Chi non riesce neppure ad immaginare un mondo di libertà, lotterà inevitabilmente per un mondo fatto di muri e di gabbie. Un mondo a sua immagine e somiglianza. Un mondo che gli dia l'illusione di sentirsi al sicuro e al riparo dai rischi, dai pericoli, dagli incidenti, dalle malattie, dalla crisi. Un mondo dove di libertà si parla solo sui libri e sulle riviste.
Tutto questo ci mostra quanto il dominio di una razza, di un genere, di un esercito o di una specie sulle altre non sia soltanto causata dal desiderio di soddisfare i propri interessi a scapito di quelli altrui, ma anche dalla paura e dalla rassegnazione. Chi viene dominato quotidianamente (al lavoro, in famiglia, all'università…) è una vittima che non potrà fare a meno di replicare e favorire la catena del dominio.
I contadini, sfruttati e angariati dai proprietari terrieri, sfruttavano donne e animali. I militari di leva, sfruttati e dominati dai superiori, tendevano a sfruttare e dominare i nuovi arrivati creando nuove gerarchie.
La catena del dominio tende inesorabilmente a replicarsi. Chi tenta di spezzarne una maglia, quando non viene soppresso, deve essere per forza relegato nel mito di una teoria irrealizzabile. Chi è stato domato non riesce più a sopportare la vista della libertà. La libertà vissuta, per chi è rassegnato, risulta una luce fastidiosa e abbagliante.

Allargare le percezioni

La vista di un gatto libero infastidisce alcuni “protezionisti” proprio come tanti anni fa la vista di un giovane hippy infastidiva la benpensante borghesia. La vista di un gatto libero, senza futuro, senza alcuna sicurezza, scatena quel finto amore che spinge a rinchiuderlo per prolungargli la vita.
Ma un gatto libero non è un'anima in pena alla ricerca di un padrone che lo accudisca. In realtà il gatto non è mai randagio, ma sceglie una zona che reputa adatta per la sua sopravvivenza e, nonostante i lunghi vagabondaggi, torna sempre nella sua zona. Quando il territorio è particolarmente promettente si possono formare, in maniera del tutto spontanea, delle colonie feline: vere e proprie comunità di gatti liberi. Ed è proprio in questo contesto che è possibile, casomai, aiutare e curare i gatti senza imprigionarli.
Ma come si fa per i gatti che vivono da sempre in un appartamento di città? Come è possibile liberarli se si abita al settimo piano di un palazzo nel pieno centro di una metropoli? Di certo non è un'impresa semplice.
Tanto per cominciare occorrerebbe realizzare che questo gatto ha comunque un gran bisogno di riacquistare la sua libertà, di assaporarla, di viverla, proprio come chi ha scelto la sua compagnia.
Ed è proprio osservando il gatto che questa persona potrebbe acquisire la reale consapevolezza di quanto la libertà sia indispensabile per una vita degna di questo nome. L'attenta e paziente osservazione del gatto, in effetti, ci pone nella mirabile situazione di allargare le nostre percezioni, di entrare finalmente in sintonia con il gatto nero dell'anarchia che mai si rassegna e mai smette di lottare per la sua libertà.
E allora, questa persona, potrebbe cominciare a portare se stesso e il gatto in situazioni di libertà, che siano per entrambi possibili e vivibili. Dovrebbe industriarsi per guarire e lasciare andare la paura che lo sta trattenendo, per abbandonare la sua stessa cella che rende impossibile la libertà al gatto, e trovare una sistemazione in cui un umano e un animale possano convivere senza costringersi, senza rinchiudersi, senza rinunciare a tutte le potenzialità dei loro corpi e delle loro menti. Certo, la mancanza di denaro e la mancanza di quell'illusoria sicurezza che imprigiona quotidianamente la maggior parte di noi umani, potrebbero essere degli ostacoli non indifferenti, ma superare questi subdoli condizionamenti è oramai il minimo che possiamo fare, se ancora abbiamo il coraggio e l'ardire di pronunciare la parola libertà.
Entrare in sintonia con questo spirito felino e ribelle mostrerà con chiarezza un nuovo atteggiamento di apertura convincendoci definitivamente che chi condivide una gabbia con un altro essere, invece di trattenere il suo compagno, dovrebbe architettare insieme a lui un piano di fuga.
Per farla breve, occorrerebbe essere così pazzi da cambiare casa e vita per il proprio gatto (che ovviamente non è di nessuno se non di se stesso). Perché il significato di voler bene a un gatto che vive rinchiuso può essere identificato solo nell'aiutarlo a ritrovare il senso della sua vita, che è la libertà.
E poi, riuscendo in questa mirabile impresa, avrete dato un senso anche alla vostra di vita. Avrete aiutato davvero una persona che amate, il gatto, ritrovando insieme a lui la vostra libertà.

Troglodita Tribe
Serrapetrona (MC)



Il trasferimento degli uomini-ombra

Nel carcere di Spoleto, nella sezione AS 1, si era formato un gruppo di uomini ombra (così ci chiamiamo fra di noi ergastolani ostativi) che  con dibattiti, articoli e inviti al mondo esterno,  lottavano pacificamente per l'abolizione della “Pena di Morte Viva” (così chiamiamo l'ergastolo ostativo, quello senza nessuna possibilità di liberazione).
Avevamo assiduamente incontri con la società esterna, locale e nazionale.
Commovente il colloquio collettivo con la scrittrice Benedetta Tobagi, che ha avuto il padre ammazzato dalle brigate rosse.
Affettuosi gli incontri con la Comunità Papa Giovanni XXIII e con il Prof. di Filosofia Giuseppe Ferraro, dell'Università Federico II di Napoli.
Costruttive le visite del Senatore Francesco Ferrante, dell'Onorevole Rita Bernardini, dell'ex Senatore Giovanni Russo Spena, degli operai di Pomigliano e di tanti altri.
Bellissime le visite d'intere scolaresche delle scuole superiori e degli studenti universitari con gli uomini ombra.
Molte le iniziative intraprese da parte degli uomini ombra per sensibilizzare l'opinione pubblica, la più importante è l'attuale petizione “FIRMA CONTRO L'ERGASTOLO” sul sito www.carmelomusumeci.com, che ad oggi ha superato le quindicimila firme e  che sta avendo adesioni come Stefano Rodotà, Umberto Veronesi, Luigi Ferraioli, Don Luigi Ciotti, Erri De Luca, Margherita Hack, Agnese Moro, Bianca Berlinguer, Giuliano Amato, e molti altri.
Con il nostro pacifico, costruttivo attivismo non pensavamo di dare fastidio a nessuno, ma un bel giorno inspiegabilmente, senza sapere il perché, come sacchi di patate ci prendono e ci sparpagliano in molte carceri d'Italia, molte addirittura in Sardegna: percorsi rieducativi interrotti, legami tagliati, colloqui coi familiari resi ancor più difficili, percorsi scolastici bruscamente interrotti.
Oggi ho potuto finalmente scoprire la verità sulla diaspora degli uomini ombra  leggendo la bellissima lettera, pubblicata su “Il Manifesto” dell'19 ottobre 2012, del coraggioso direttore aggiunto del carcere di Spoleto, Giacobbe Pantaleone:

(...) non è da escludere che il trasferimento di questi detenuti sia dipeso da una sorta di fraintendimento o malinteso, forse influenzato da un eccesso di interpretazione autarchica rispetto a quello che bolliva in pentola in questo stare al gioco. Per esempio, sollevare il tema dell'ergastolo ostativo può avere generato dei sospetti? Eppure esso è stato portato tante volte all'attenzione dell'opinione pubblica con intelligenza: mai che si ricordi sia stato portato dentro un progetto rivendicativo ottuso (...)

I funzionari  di Roma hanno paura dei prigionieri che pensano, lottano e scrivono.
Lo sospettavo che eravamo partiti perché lottavamo pacificamente contro l'abolizione  dell'ergastolo, ora ne ho la certezza.

Carmelo Musumeci
Padova, ottobre 2012
www.carmelomusumeci.com



In memoria di Angelo Papi (mio padre)

Sulle pagine di questa rivista che mi è da sempre così cara vorrei ricordare mio padre, Angelo Papi, morto in modo sereno e senza troppo soffrire all'età di 93 anni il 21 settembre scorso. Lui stesso leggeva, fino a che ha potuto con frequenza, A rivista e i miei articoli che vi venivano pubblicati, dandomi anche consigli sempre preziosi.
Mio padre è stato partigiano, dapprima impegnato nei gap di città poi nelle montagne del pesarese. Tra le sue ultime testimonianze mi ha confessato che il periodo partigiano è stato il più bello della sua vita. Da partigiano era comunista, ma essendo sempre stato di spirito autenticamente libertario, quando subito dopo la liberazione cominciò a sapere dei crimini staliniani si staccò con grande convinzione dal PCI, fino a sentirsi in breve totalmente contrapposto al suo autoritarismo di sostanza.
Conobbe anarchici e li stimò grandemente, me lo disse lui stesso. Pur non essendosi mai dichiarato anarchico, mi ha però trasmesso valori indelebili di amore per la libertà, facendomi comprendere come siano inaccettabili le chiese, e i regimi totalitari come il fascismo e il bolscevismo. Ricordo ancora con commozione quando, dopo aver appreso nel sessantotto che ero diventato anarchico, mi regalò testi anarchici che si era procurato e che aveva letto: un'edizione originale degli scritti scelti di Errico Malatesta curata dalla Giovanna Berneri e da Cesare Zaccaria e un'edizione originale di “Risposta di un internazionale a Giuseppe Mazzini” di M. Bakunin, edizione originale del Bollettino Rosa del 1876, che in seguito ho poi donato all'archivio Pinelli di Milano, avendone io il testo in una ripubblicazione attuale. Mi diede inoltre una raccolta da lui fatta di articoli di Gaston Leval, pubblicati, mi sembra, da Umanità Nova, sulle esperienze delle comunità agricole e delle collettivizzazioni delle fabbriche durante la rivoluzione spagnola del 1936/'37. Cose che mi furono poi preziosissime quando le lessi e mi confermarono l'essermi sentito anarchico.
Ciò che mi ha regalato mio padre, come autentica acquisizione di valori di libertà e di senso di responsabilità per mantenere uno stato di libertà, per me è un bene prezioso che mi terrò nel cuore per tutta la vita. Grazie a mio padre dunque, che fu partigiano per spirito ideale di libertà e che rimase fino alla morte un libertario convinto, anche se non divenne mai ideologicamente anarchico.

Andrea Papi
Forlì





I nostri fondi neri

Sottoscrizioni. AGianni Forlano e Marisa Giazzi (Milano) ricordando Carlo Oliva, 100,00; Monica Giorgi (Bellinzona – Svizzera) 80,00; Patrizia De Masi (Caposele - Av) 5,00; Davide Foschi (Gambettola - Fc) 20,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando Carlo Oliva, 500,00; Luca Vitone (Berlino – Germania) 50,00; Francesco D'Alessandro (Sesto San Giovanni – Mi) 38,00: Claudio Paderni (Bornato – Bs) 10,00; Alberto Ciampi (San Casciano Val di Pesa - Fi) 20,00; Roberto Caelli (Parma) 20,00; Roberto Bernabucci (Cartoceto – Pu) 20,00; Giuseppe D'Agostino (Novara) 20,00; Stefano Bevione (Alba - Cn) 10,00; Vincenzo Portone (Colle Val d'Elsa – Si) 5,00; Gianfranco Cutillo (Bari) 20,00; Simona Bruzzi (Piacenza) 20,00; Simone Zanchini (San Leo – Pu) 10,00; Pasquale Messina (Milano) 10,00. Totale € 958,00.

Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti specificato, trattasi di euro 100,00). Fabio Santin (Venezia); Angelo De Rosa (Tokyo – Giappone); Massimo Merlo (Lodi); Stefano Stofella (Rovereto – Tn); Giorgio Sacchetti (Arezzo). Totale € 500,00