Sudafrica
Dopo il massacro di Marikana
di Antonio Senta
Dalle miniere di platino a tutto il paese, l'agitazione sociale fa tremare il governo e ottiene aumenti salariali.
È successo proprio quello
che il governo sudafricano non aveva preventivato: il massacro
di Marikana del 16 agosto (cfr. Il
massacro di Marikana, sullo
scorso numero di “A”) ha gettato benzina sul
fuoco della lotta di classe. Dopo sei settimane di scioperi
selvaggi i minatori della Lonmin hanno ottenuto gli aumenti
salariali richiesti e da lì a poco l'agitazione sociale
si è allargata a tutto il settore minerario, investendo
quello dei trasporti e dell'industria automobilistica.
A estendersi è stato anche il metodo utilizzato dai lavoratori
che si sono mossi autonomamente rigettando le tradizionali rappresentanze
sindacali e facendo ricorso ai picchetti, al sabotaggio, all'occupazione
dei luoghi di lavoro.
I minatori si sono autorganizzati da subito, incrociando le
braccia e rifiutandosi di uscire dai loro poveri alloggi vicino
alle miniere che sono diventati i centri di coordinamento della
rivolta. In lungo e in largo per il paese hanno reclamato gli
stessi aumenti salariali ottenuti dai colleghi della Lonmin
e anche di più, fino a tre volte tanto quel che guadagnavano
precedentemente. Hanno rivendicato anche una diminuzione dell'orario
e miglioramenti delle condizioni di lavoro. Sottoterra la temperatura
arriva a quarantacinque gradi, i tunnel in cui sono costretti
a scavare sono alti non più di un metro e mezzo, devono
tenere i piedi in acqua per diminuire le polveri, i martelli
pneumatici (non idraulici) pesano quasi cinquanta chili, il
rumore è assordante. Hanno reclamato infine che fossero
loro concessi i servizi di base essenziali all'interno delle
township in cui risiedono: alloggio, acqua, elettricità,
il diritto all'istruzione per i loro figli e quello alla salute.
La lotta ha dimostrato subito di pagare e ha coinvolto una gran
parte dei cinquecentomila impiegati nel settore minerario. Nonostante
la repressione e la continua minaccia di licenziamenti di massa
da parte dei proprietari delle miniere, l'adesione massiccia
agli scioperi ha fatto sì che molte delle richieste avanzate
dai lavoratori venissero soddisfatte: sono stati diversi gli
impianti dove il salario mensile è aumentato da 5˙000
fino a 17˙000 rand (1˙700 euro), risultati ottenuti con l'azione
di massa illegale, al di là di qualsiasi consuetudine
di contrattazione sindacale del recente passato.
Così è avvenuto alla Anglo Platinum di Rustenburg,
dove in quarantacinquemila hanno scioperato contemporaneamente
per tre settimane tra settembre e ottobre, alla Royal Bafokeng,
alla Impala Platinum, così nelle miniere d'oro della
Gold Fields, in quelle di cromo, di ferro, di diamanti, di carbone,
dal Gauteng al North West, dal Northern Cape al Free State,
dal Kwazulu-Natal al Limpopo.
Una
nuova generazione di lavoratori
I sindacati sono stati costretti a rincorrere gli operai sul
piano della conflittualità e pur di far rientrare l'agitazione
si sono affrettati a concludere accordi che sono stati poi regolarmente
sconfessati dagli stessi lavoratori, che puntavano a maggiori
aumenti. Si tratta di quegli stessi sindacati, legati al Congress
of South African Trade Union, che da anni limitano di fatto
il diritto alla rappresentanza, dal momento che secondo il Labour
Relactions Act da essi sottoscritto è necessario che
un sindacato ottenga almeno il 30% di adesione in un determinato
luogo di lavoro perché si possa sedere al tavolo delle
trattative.
Da parte loro l'African National Congress e il suo alleato al
governo, il South African Communist Party, con chiaro stile
neostalinista, hanno continuato ad affermare che gli scioperi
erano provocati da elementi reazionari e criminali che si sono
infiltrati nella classe operaia, rivendicando l'uso della repressione
poliziesca contro gli odiati lumpen. Costoro sarebbero
stati manipolati da qualche misteriosa “forza sinistra”,
secondo un trito ragionamento che ricorda da vicino le calunnie
del governo bianco su Steve Biko, che veniva accusato di essere
al soldo della CIA.
A protestare è in realtà una nuova generazione
di lavoratori che non ha preso parte diretta alla lotta contro
l'apartheid e non si sente oggi rappresentata dalle élite
nere al governo né tanto meno dai rappresentanti sindacali
che sono anzi guardati con disprezzo. In uno dei tanti cortei
di questi mesi alla miniera di cromo di Samancor gli operai
portavano sulle spalle delle bare di cartapesta con sopra scritto
“NUM” (National Union of Mineworkers). Ancora, in
ottobre centinaia di minatori dell'Anglo Platinum di Rustenburg
sono andati in manifestazione negli uffici sindacali del NUM
a stracciare la tessera del sindacato. I segnali della svendita
e della corruzione all'interno dei sindacati legati al Cosatu
erano evidenti già da tempo.
Cyril Ramphosa è stato uno dei leader operai più
popolari ai tempi della lotta all'apartheid. Nel 1987 guidò
tre settimane di sciopero dei minatori arrivando a bloccare
completamente l'estrazione di oro e a lui si deve la crescita
esponenziale del NUM, da seimila aderenti nel 1982 a trecentomila
nel 1992. Oggi il suo Shanduka Group possiede una quota dell'Incwala
Resources, partner industriale di quella Lonmin dove in agosto
la polizia ha massacrato trentaquattro scioperanti.
L'ondata di agitazioni sociali che da agosto investe il Sudafrica
ricorda gli scioperi di Durban del 1973. Anche allora l'azione
si fece da subito radicale e si estese dall'industria tessile
a tutte le maggiori fabbriche e miniere del paese. Da quel momento
la minoranza bianca al governo non poté più ignorare
la distanza che li separava dalle centinaia di migliaia di lavoratori
neri, mentre questi ultimi si resero conto per la prima volta
che insieme potevano far tremare il governo. Oggi sta succedendo
qualcosa di simile.
Di fronte a tutto ciò la Confederazione dei proprietari
delle miniere ha minacciato più volte di spingere ulteriormente
sulla via della meccanizzazione in un settore che ha già
perso più del 30 per cento della forza lavoro dalla metà
degli anni ottanta e ha contemporaneamente aumentato la propria
capacità estrattiva grazie ai progressi della tecnologia.
Tuttavia il processo di meccanizzazione è lento e costoso,
e i proprietari delle miniere non possono permettersi di perdere
ulteriori quote sul mercato internazionale e sono chiamati ad
agire in fretta.
Rimane per gli operai l'incognita dell'inflazione, che viaggia
al momento attorno al 5 per cento, e potrebbe aumentare, erodendo
il potere d'acquisto dei salariati.
Ma ciò non toglie che il 2012 si possa considerare un
punto di svolta per i lavoratori sudafricani. Da una parte c'è
stata una crescita di consapevolezza dell'efficacia di metodi
di lotta radicali, dall'altra sindacati e governo non hanno
potuto più solo affidarsi alla repressione, ma sono stati
costretti a fare concessioni che solo prima dell'estate erano
impensabili.
Inoltre la lotta dei minatori ha contagiato anche altri settori:
nel corso di ottobre gli autotrasportatori si sono fermati per
tre settimane di fila e hanno ripreso il lavoro solo dopo avere
ottenuto aumenti del 10 per cento in busta paga e lo stesso
è avvenuto con i lavoratori dell'auto.
In tutto questo la verità sul massacro di Marikana del
16 agosto, dove la polizia ha ucciso trentaquattro lavoratori
e vero episodio scatenante di quest'ondata di agitazioni, si
è allargata al grande pubblico anche attraverso il lavoro
di una commissione governativa istituita su pressione dell'opinione
pubblica. “Sono stati ammazzati come fossero degli insetti,
dei parassiti”: queste parole dell'avvocato dei parenti
dei minatori assassinati, Dumisa Ntsebeza, hanno fatto il giro
del paese – i giornali e le televisioni di stato non le
hanno potute ignorare – e hanno contribuito a mettere
il governo di fronte alle proprie tremende responsabilità.
Antonio Senta |