rivista anarchica
anno 43 n. 377
febbraio 2013


teatro in Bolivia 2

La parola alla cultura indigena

di Federica Rigliani


Due registi cileni nell'altopiano boliviano alla fine degli anni '60 per realizzare il teatro Kollasuyo, popolare e atavico, costruito a partire dal mito e dal sogno.



Il Teatro Kollasuyo è un'esperienza che segna un momento molto importante nel teatro boliviano. Con questo gruppo, infatti, per la prima volta il teatro entra in una comunità rurale autoctona per assorbirne ritmi di vita e di lavoro, rispettare gli atavici e tradizionali cicli di semine e raccolti dei suoi abitanti e ascoltare, silenzioso, gli uomini morenos parlare e raccontarsi. Possiamo definirlo, quindi, il primo teatro indigeno-campesino realizzato con e da gli abitanti delle Ande.
Era la fine degli anni sessanta quando Gabriel Martínez e sua moglie Verónica Cereceda fondarono il Teatro Kollasuyo nella regione di Oruro, situata tra quelle di La Paz e Potosí, nel sud della Bolivia. Ma la loro storia ha inizio in Cile, terra di origine di entrambi, dove lavorarono a lungo nella cittadina universitaria di Concepción. Avevano un teatro-tenda chiamato El Caleuche. Mito molto conosciuto nel sud del Cile, quella del Caleuche è la storia di una nave fantasma che appare nel buio della notte con le luci accese, le vele spiegate e l'equipaggio condannato. Ogni qual volta Gabriel e Verónica issavano il tendone e lo riempivano di tutti gli oggetti che servivano al teatro, dalle tende ai teloni, dalle fioche luci di scena ai suoi teatranti erranti, rievocavano questo mito e lo facevano rivivere nei luoghi che visitavano. Durante la campagna elettorale pro-Allende del 1964, la loro tenda-teatro divenne il punto di contatto di numerosi artisti e intellettuali, e se Gabriel e Verónica rappresentavano lì un teatro di grande qualità, basato esclusivamente su drammaturgie nordamericane ed europee, in quel tendone Pablo Neruda e Nicanor Parra leggevano le loro poesie.
Man mano che El Caleuche visitava l'entroterra cileno, avvicinando culture e tradizioni locali, la coppia percepiva uno scontento professionale che la mise ben presto di fronte a una crisi ideologica e artistica: “Io ero cosciente che il nostro era un buon teatro d'intrattenimento, niente più di questo... quello che facevamo non entrava profondamente nella gente e nel pubblico, non eravamo capaci di produrre in loro profondi processi spirituali”.1 Animati dall'ansia di una nuova ricerca teatrale indirizzata in qualche modo verso l'esperienza mistica e catartica, i Martínez non sapevano quale fosse la strada da seguire, né quali obiettivi prefiggersi in questo cammino che sentivano assolutamente necessario: “Quello che invece sapevamo con certezza era che non volevamo continuare a fare quel tipo di teatro che avevamo sempre fatto: il teatro europeo, il teatro spagnolo, il teatro occidentale, l'ultimo grido di New York...”.
Cominciarono a pensare di lasciare il Cile, sia perché delusi dal pubblico cileno “non ci incitava, non ci permetteva di svolgere una ricerca così come noi volevamo farla”, sia a causa della situazione politica interna. Quando la schiacciante vittoria di Eduardo Frei Ruiz su Salvador Allende impedì di fatto l'apertura a un rinnovamento politico, il loro desiderio di partire si trasformò in un'esigenza. Divenne fondamentale cercare un villaggio, una società dell'America del Sud che rappresentasse un nuovo uditorio e l'occasione per lavorare con artisti “per i quali l'esercizio del teatro fosse realmente, ogni notte, con sacralità, una notte di consegna, di sfida, di creazione e, pertanto, di disciplina interiore”2. Indecisi tra Guatemala e Bolivia, alla fine optarono per quest'ultima: “Quando giunse il momento di lasciare il Cile [...] la scelta cadde sulla Bolivia, senza sapere esattamente che cosa avremmo trovato. [...] Avevamo dei contatti. Eravamo stati a Cochabamba, sapevamo che c'era qualche possibilità di lavorare nell'università di Oruro, nient'altro. Andai a parlare con il rettore, già intenzionato a creare un teatro universitario, [...] noi non proponemmo un teatro legato alla sperimentazione e allo stile dei teatri universitari esistenti in America Latina. Noi volevamo fare un teatro nuovo”. Volevano trovare nuove forme e nuovi contenuti per un teatro “che parlasse al cuore della gente”, ancorato alle tradizioni locali e alla cultura autoctona: “Sapevamo chiaramente che il nostro teatro doveva essere molto, molto vicino alla cultura tradizionale, alla cultura indigena, però quale dovesse essere la sua forma concreta, quale il suo aspetto reale, scenico e drammaturgico, non lo sapevamo proprio [...]. Per noi, fu davvero un'avventura, una ricerca, un'ansia di trovare cose nuove”.3 E la Bolivia, abitata per oltre il 60 per cento da indigeni che vivono con forte spiritualità e intenso misticismo anche la ritualità quotidiana, avrebbe offerto loro la formula.
Quando arrivarono, nella metà degli anni '60, continuarono a fare i conti con una realtà sociale non molto dissimile da quella da cui si erano allontanati. La società boliviana era delusa e amareggiata dalla gloriosa Rivoluzione Nazionale del 1952, all'indomani della quale il paese non incontrò il reale processo di liberazione economica e di progresso sociale che tanto si aspettava. L'originale sentimento rivoluzionario, lo stesso che visse a fianco di Nuevos Horizontes e che vide la nazionalizzazione delle miniere, l'istituzione del voto universale e l'abolizione del latifondo, era stato lentamente schiacciato dalla corruzione interna del MNR (Movimento Nazionalista Rivoluzionario), il partito di governo. E il futuro sarebbe stato ancor più oscuro: il colpo di stato del 1964 di René Barriento Ortuño avrebbe inaugurato un periodo di diciotto anni di potere militare alternato all'elezione di tre presidenti civili per una durata complessiva di soli quattro anni di governi democratici. Mentre tutta l'America Latina viveva l'effervescenza della Rivoluzione Cubana, l'esperienza della guerra del Vietnam e il sogno integralista nel continente, la Bolivia, nonostante investita già da un decennio da sentimenti rivoluzionari, fu tra i primi paesi a passare da un potere democratico all'autoritarismo militare.

Il problema linguistico

Nella cittadina di Oruro la collaborazione con l'Università partì grazie al rettore Julio Garret che accettò il loro progetto. Da questo momento in poi tutta la loro esperienza teatrale si volse alla ricerca di quella spiritualità che animasse e motivasse dal profondo i loro attori e il loro pubblico. Inaugurarono un teatro universitario dai tratti nuovi: “Era un teatro universitario di nuovo tipo, con un altro stile, realizzato dagli studenti più poveri e umili, non universitari al modo cileno o europeo che si dedicano al proprio corso di studio approfondendo altre attività culturali, ma meticci umili e indigeni più poveri della città”. Sua moglie Verónica cominciò a scrivere un'opera basandosi sugli scritti di Canal Fejó, autore che guardò molto al folclore del nord dell'Argentina, e questo materiale si avvicinava molto al mondo quechua, l'etnia prevalente della zona scelta, e alla sua area culturale. Il racconto fu drammatizzato e messo in scena con il nome El atoj Juancito.
Già in questo primo lavoro il Teatro Kollasuyo cominciò ad esprimere una revisione totale del punto di vista della messa in scena e della scenografia: non più il teatro frontale, non più il telone, non più un sistema complesso di illuminazione, nella loro ricerca di un contatto maggiore con lo spettatore il pubblico doveva circondare la scena o trovarsi molto vicino ad essa. E questo rompeva con tutti gli schemi scenici presentati fino a quel momento. L'altra grande novità fu l'uso della lingua autoctona, il quechua: “Presentammo la nostra opera in spagnolo chiedendoci cosa sarebbe successo se avessimo reso delle battute in lingua quechua. Facemmo una prova e, con l'aiuto di persone legate al mondo universitario di Cochabamba che conoscevano molto bene il quechua, scrivemmo l'introduzione e traducemmo un episodio.” Fu proprio usando il quechua che capirono quanto uno dei problemi maggiori della ricerca che si prefiggevano era quello linguistico: per parlare al pubblico cui volevano rivolgersi era necessario l'uso della lingua autoctona come lingua teatrale: “Il nostro pubblico era un pubblico popolare. Noi non facevamo pagare l'ingresso, distribuivamo semplicemente biglietti gratis alle 'cholitas', ai meticci, alla gente del villaggio di Oruro, alla gente del mercato, agli operai... Tutta gente povera. [...] Improvvisamente, durante lo spettacolo [...] questo pubblico ascoltò un episodio nella sua propria lingua e, senza rendersi conto del passaggio linguistico, incominciò a partecipare di più, cominciò a ridere, a integrarsi allo spettacolo, a goderne pienamente. Poi tornò lo spagnolo. Questo ci indicò chiaramente che una delle linee del lavoro era la lingua, la lingua autoctona, la lingua che per tutta questa gente è la propria lingua, la lingua che danno con il latte quando allattano i bambini”.
Questo portò inevitabilmente a una immediata rivalorizzazione della lingua nativa: la elevarono dal folklore locale cui era stata confinata legittimandone l'uso in teatro, nei processi creativi e in quelli artistici. Lo stesso Gabriel sosteneva che per loro “valorizzare la lingua quechua [...] come lingua teatrale significava darle la possibilità di esprimersi artisticamente... Quello che sapevamo della lingua rispetto al teatro è che in Bolivia si faceva e si era fatto solo un teatro in lingua spagnola, tranne una piccolissima parentesi antecedente [...], come la rappresentazione del Carnevale di Oruro o la Morte di Atahualpa che non bastarono a dare al quechua un posto nell'espressione artistica locale, bensì nel folclore”.
Da queste premesse Gabriel e Verónica svilupparono la fase forse più importante del loro lavoro: scendere in profondità. Desideravano lavorare con i campesinos, trovare con loro, nel loro mondo, la formula di un teatro nuovo che non riuscivano a teorizzare, far fluire un nuovo processo creativo per immaginare drammaturgie provenienti da quel mondo e ad esso riconoscibili: “Vedevamo passare gli indigeni a Oruro con i 'bastones de mando' e i vestiti peculiari, isolati in loro stessi, padroni di un proprio essere che ci risultava affascinante. Era quella la 'vera Bolivia' che volevamo penetrare”. Si rivolsero ancora al rettore e gli esposero la ferma intenzione di voler lavorare per un teatro 'popolare' davvero indigeno che affondasse le proprie radici nella cultura tradizionale andina: “Non vogliamo più fare né El atoj Juanito, né il teatro che facevamo in Cile. Ci dia il permesso per fare teatro con le comunità, creiamo un teatro davvero indigeno, di lingua quechua, che abbia i suoi propri contenuti e un'organizzazione drammatica e scenica diversa”4. Non più un teatro urbano, quindi, ma un teatro per le comunità. Volevano lavorare con gli indigeni che non parlavano lo spagnolo, sperimentare un teatro davvero indigeno-campesino, trovare nuove forme sceniche ai nuovi contenuti che speravano di avvicinare e generare risoluzioni artistiche come frutto della partecipazione dei nativi al processo creativo.
Interessato al progetto, e di fatto di nuovo motivato ad appoggiarli, Garret creò le condizioni perché i Martínez potessero trasferirsi a vivere in una comunità rurale: “Non conoscevamo molto bene la Bolivia, viaggiammo molto per scegliere quale delle aree indigene ci sembrasse più interessante e rimanemmo affascinati dalla zona di Charazani. Era molto importante da un punto di vista culturale, oltre ad essere parte integrante della cultura andina e delle sue tradizioni, mantiene degli aspetti propri molto forti. Lunlaya fu la nostra comunità, i suoi abitanti furono i nostri attori, il quechua la nostra lingua e i materiali li estraemmo da loro, dalla loro cultura.”

Come un gioco

A proposito dell'incontro con la gente della comunità, avvenuto nel 1968, Gabriel mi disse: “Sarebbe stato più facile parlar loro di coltivazioni di patate... ma teatro? Non conoscevano quella parola”. Il loro ingresso fu difficile, gli abitanti avvezzi al loro atavico isolamento li guardavano con diffidenza. Dovettero farsi conoscere, concedersi affinché si manifestasse la fiducia che avrebbe garantito l'apertura e l'integrazione, così trascorsero i primi sei mesi semplicemente vivendo, incontrando le persone, partecipando ai lavori agricoli e alle loro feste. Provando a parlare il quechua. Sapevano che i comuneros non avrebbero capito le loro intenzioni se non avessero imparato a confidare ciecamente in loro. Dopo un periodo di convivenza, però, gli abitanti capirono la nuova realtà che si era aggiunta ai loro ritmi vitali e Gabriel e Verónica iniziarono a farli incuriosire con la pratica di alcuni esercizi fisici e di improvvisazione. Inizialmente furono presi come un gioco nel quale gli abitanti della comunità dovevano “fare finta”, questo li incuriosiva. Ma come procedere dopo il training, l'allenamento fisico e le improvvisazioni? Come farli entrare in un processo creativo partecipato?
Pensarono al mito e al sogno. Secondo Gabriel e Verónica, mito e sogni avrebbero potuto essere raccontati come una 'realtà presente', sentita in maniera forte in ciascuno di loro, familiare, autentica e ancestrale. A loro avviso lavorare su miti e sogni avrebbe potuto offrire un 'materiale teatrale' capace di mettere in scena l'interiorità autoctona e gli indigeni si sarebbero riconosciuti facilmente nei temi rappresentati. Questo era un aspetto molto importante strettamente legato alla storia andina e alle tradizioni di questa gente, alla religione e a un forte clima spirituale che avrebbe dovuto garantire una profonda partecipazione emotiva interiore. Scelsero il mito regionale del Meqalo: “Quello del Meqalo è un mito molto suggestivo. È un essere antropomorfo che visita le valli di Lunlaya, che scendono giù, fino alla conca amazzonica”. In estate, durante la stagione delle piogge, la quantità di acqua che precipita genera molta umidità e una nebbia sale dalle valli più basse verso il canyon di queste terre frastagliate. Si dice che il Meqalo, essere particolarmente elastico e un po' ondulante, con una lunga coda e una luce intensa sul viso, si allunghi e si accorci nei crepuscoli di Lunlaya risalendo la valle, volando rasoterra per sedersi poi sulle rocce più grandi che la sovrastano. Lì rimane per molto tempo osservando silenzioso i luoghi che lo circondano con sguardo penetrante. Si dice sia l'aiutante del Inca Rey e vigili i suoi tesori sotterrati in questa valle per restituirglieli al suo ritorno. E proprio per la sua vicinanza al mito panandino del Inca Rey fu scelto. Perché del Inca si aspetta il ritorno. Lui restituirà a queste popolazioni il maltolto, in termini materiali e morali, li salverà dalla povertà e restituirà loro il rispetto negato dalla storia degli uomini: “Per tutti loro questo mito [...] incarnava il ritorno della dignità e della giustizia, nonché la valorizzazione della cultura andina. Cosa succederebbe se tornasse? Chiesi loro.” E tutti cominciarono a immaginarne la venuta.
Per sviluppare questi temi Gabriel e Verónica tentarono due vie parallele: lui curava l'attività fisica degli attori, basata soprattutto sull'improvvisazione, cercando di provocarli e stimolarli, immaginando come avrebbe dovuto verificarsi la venuta del Meqalo; lei raccoglieva, registrandole e trascrivendole, le testimonianze di lunghe conversazioni, soprattutto i racconti dei sogni degli abitanti.
Tutto avrebbe portato alla realizzazione di Ukhu Ukhumanta, 'dal più profondo' in lingua quechua, spettacolo che nella parte riguardante il mito doveva provocare un fatto reale: l'arrivo e l'incarnazione del Meqalo in uno degli attori. Gabriel sottolineava con fervore l'enorme pressione a cui il gruppo di attori venne sottoposto: “Ottenemmo tutto attraverso una pressione psicologica e spirituale molto forte che esercitammo su di loro. Non si parlava di nient'altro che del Meqalo, se qualcuno lo aveva mai visto o sognato [...]. Pian piano la sua immagine si oggettivò nella loro fantasia e divenne sempre più concreta; [...] lavoravamo tutta la notte, masticando coca e conversando con la gente. Chiaramente non avevamo luce elettrica, per cui parlavamo al chiarore di queste lampadine molto fioche, in una penombra molto intima all'interno di un piccolo spazio, una specie di capanna di rami e fango. Inoltre, c'era sempre la musica. Non ricordo più se fui io o Verónica o un campesino a suggerire la possibilità di evocarlo con la musica, e la musica di Cherazani era molto impressionante. Suonavano dei bombos grandissimi fatti con il tronco degli alberi e il suono era molto grave, ti smuoveva le viscere”. A questo dobbiamo aggiungere che la chiamata del Meqalo era sempre legata a un rito propiziatorio, una cerimonia rituale che consisteva nel salire sulle vette delle montagne e invocare le divinità che abitano il loro interno, perché sulle Ande le montagne rappresentano esseri divini. A loro chiedevano aiuto affinché favorissero l'arrivo del Meqalo con chiamate ogni volta più potenti e angustianti, quasi angosciose. Gabriel voleva riprodurre una situazione “da riti woodu”: “speravo che improvvisamente qualcuno si sentisse posseduto dal Meqalo e diventasse egli stesso il Meqalo”. Secondo lui, infatti, la presenza vitalizzante del Meqalo doveva passare attraverso il corpo di uno degli attori producendo in lui uno stato di estasi e rapimento. Ma durante l'interpretazione di uno di questi rituali, un attore cadde in una specie di trance e sbatté la testa contro le rocce. In quello stato di semi incoscienza chiamava e richiamava il Meqalo piangendo disperatamente “un pianto isterico di emozione religiosa”. La possibilità che si verificasse davvero una possessione mise in difficoltà i registi e Gabriel si rese conto di trovarsi, impotente, di fronte a qualcosa più grande di lui: “Capii che il cammino intrapreso era in realtà molto pericoloso, non sapevo cosa sarebbe successo se si fosse davvero verificata una possessione e, soprattutto, non avrei saputo come affrontare il problema né cosa fare in una situazione del genere. Io non avevo strumenti medici o psichici per uscire da quella situazione, avevo paura. Non volli più seguire l'esperimento e abbandonai la possibilità di lavorare in questo modo”. Furono gli stessi attori a risolvere il problema e fornire la soluzione drammaturgica, coreografica e scenica. Uno di loro, Pedrito Condori, colse lo spunto da questa vicenda e, all'insaputa di tutti, trovò una soluzione tipicamente andina. Raccolse l'usanza secondo cui gli haiciris, fingendosi condor che sbattono le ali e simulano un atterraggio, invocano nell'oscurità le montagne e le divinità che le abitano, con tonalità da ventriloqui e con voci ora femminili ora maschili. Pedrito Condori finse una possessione, simulò l'arrivo del Meqalo, batté le braccia come ali di un condor, cadde a terra e parlò a lungo con quegli uomini commossi che continuavano a fare domande sulla loro vita e sulle loro condizioni di miseria. La partecipazione e il turbamento erano infiniti e la religiosità dominava una scena nata nel preciso momento in cui si era data. Il cerchio umano intorno al Meqalo iniziò a danzare all'unisono, come se chi lo formava avesse studiato un'apposita coreografia e tutto finì con una danza pacata e rispettosa della venuta tanto invocata del Meqalo. La conclusione della prima parte dello spettacolo era stata trovata. La forma scenica pienamente raggiunta.
Per la seconda parte, quella riguardante i sogni, scelsero il sogno di una giovane donna che aveva perso il suo bambino: lei lo vedeva sospeso tra cielo e terra e cercava disperatamente di afferrarlo senza riuscirci, lui si allontanava lasciandole gli occhi pieni di pianto mentre la pioggia continuava a bagnarle il viso.

Gabriel Martínez e Verónica Cereceda,
intervistati in queste pagine

Alterne fortune sceniche

La rappresentazione di Ukhu Ukhumanta all'interno della comunità fu un momento mistico, quasi religioso, in cui attori e spettatori realizzarono un processo di catarsi totale: quando Pedrito Condori cadde a terra e si rialzò vestendo i panni del Meqalo tutte le donne si tolsero spontaneamente il cappello nell'esatto momento in cui lo fecero anche gli attori. Nella capanna c'era un clima speciale che unificava tutti: pubblico e attori erano in realtà un solo gruppo. Gabriel raccontava di non aver mai visto nulla del genere. Ma quando lo spettacolo venne portato nella cittadina di Oruro il pubblico urbano reagì in modo molto negativo e nessuno riconobbe il valore di questo lavoro. Per ricreare un'intima connessione con gli spettatori si decise di distribuire all'inizio foglie di coca e praticare insieme il rito di akullicar, masticare la coca, ma quando gli attori più anziani cominciarono la distribuzione il pubblico si sentì offeso. Il disprezzo verso tutto ciò che rappresenta il mondo indigeno è una sorta di autovergogna delle origini della Bolivia e impaurisce chi in queste origini non vuole riconoscersi. I cittadini, legati a una forma di pregiudizio e di discriminazione razziale, rimproverarono ai registi di aver portato sul palcoscenico una Bolivia che non volevano vedere: per tutti loro vedere miserabili indigeni che mangiavano i loro pidocchi significò mettere in scena la parte peggiore di questa terra. La ricezione dell'opera fu freddissima, le critiche del pubblico negative e l'ambiente teatrale si mostrò sfiduciato e dubbioso rispetto alla direzione che la ricerca del Kollasuyo stava prendendo. Inoltre il rettore Garret, che tanto li aveva sostenuti, lasciò l'università occupata da studenti e professori comunisti-trotskisti. L'ambiente universitario di sinistra considerava poco prestigioso l'interessamento al teatro indigeno per cui chiese ai registi di considerare una ricerca indirizzata più verso il teatro operaista e dei minatori, ma Gabriel e Verónica rifiutarono: “distrussero il nostro contratto e non si fece più teatro, né operaista né minerario”. Ulteriori difficoltà al Teatro Kollasuyo furono create anche dal rifiuto ricevuto direttamente dal mondo indigenista: li accusò di essere stranieri meticci che 'usano gli indigeni' sfruttandoli. Idea molto mitizzata anche oggi. Impossibilitati a continuare il lavoro, Gabriel e Verónica si allontanarono in maniera traumatica e dolorosa dal teatro e da ogni sua manifestazione.
L'esperienza dei Martínez fu molto importante, diedero la parola alla cultura indigena, dimostrarono che era capace di dire qualcosa di vero e inquietante, ne valorizzarono il processo creativo, diedero dignità alla sua lingua e alla sua estetica. Per la prima volta, insomma, gli indigeni furono soggetti teatrali, autori di una drammaturgia che li rappresentava e fornitori di soluzioni sceniche. In molti sensi fu anche anticipatrice, sia per la Bolivia sia per il teatro internazionale sia per le ricerche delle avanguardie che contemporaneamente muovevano i primi passi da questa parte del mondo, anche se in pochi purtroppo ne riconobbero i meriti. Loro lavoravano sui miti e su una forma di scambio tra popoli proprio mentre in Europa cominciava a diffondersi il teatro sperimentale legato a un movimento di ricerca che avrebbe cambiato radicalmente le scene teatrali: il centro interetnico di Peter Brook, la relazione tra “teatro” e “rito” che Grotowski si proponeva di approfondire, il baratto interetnico che Barba teorizzò con le popolazioni marginali del mondo americano e asiatico sarebbero stati elementi straordinari che avrebbero aperto nuove visioni alle avanguardie europee.

El tata Gabriel

Ma l'esperienza con gli indigeni di Lunlaya li segnò al punto che Gabriel e Verónica non rinunciarono a sviluppare un percorso di lavoro e collaborazione con le popolazioni native e senza distogliere lo sguardo da quel mondo che li aveva tanto colpiti ripartirono con un nuovo ed entusiasmante progetto di vita. Dopo aver entrambi intrapreso studi di antropologia si stabilirono a vivere nella cittadina di Sucre dove fondarono ASUR, Antropólogos del Sur Andino, un museo che ha recuperato e protetto la tradizione tessile delle comunità di Jalca e di Tarabuco destinata altrimenti all'estinzione. Da allora il museo ha sviluppato un'impresa contadina efficiente dal punto di vista della qualità e della produzione: i campesinos tessili, infatti, riuniti in cooperative gestiscono imprese autonome capaci di dar vita ad un processo creativo all'interno delle singole culture, nel rispetto dei mezzi da loro applicati per la lavorazione e la colorazione dei tessuti. I loro preziosi lavori non vengono più scambiati con tessuti industriali, né sono più acquistabili a pochi pesos nelle strade delle città, come accadeva prima. Ogni lavoro è dotato di un'etichetta con il nome e la provenienza di chi l'ha realizzato, una certificazione nominativa del lavoro manuale svolto nel rispetto delle più antiche tradizioni tessili locali. Verónica continua ad occuparsi di ASUR, Gabriel è morto nel 2000 durante il mio ultimo anno di permanenza in Bolivia. La camera ardente i suoi campesinos l'hanno voluta allestire proprio all'interno del museo. In quell'occasione il portavoce dei suoi compagni, i lavoratori e le lavoratrici indigene delle comunità tessili di Tarabuco e Jalca, ci ha comunicato ufficialmente che el tata Gabriel, così lo chiamavano, abita ora una montagna come divinità. Appartiene talmente al loro immaginario collettivo che ogni giorno lo salutano e parlano a colui che, dopo la sua morte, è pietra delle Ande che ancora li protegge.

Federica Rigliani

Note

  1. Lupe Cajías, De Concepción a Lunlaya, 'El tonto del Pueblo, Revista de artes escenicas' N. 0/Agosto 1995, pag. 91.
  2. Ibidem: pag. 91.
  3. Intervista a Gabriel Martínez, Sucre, Maggio 1997.
  4. Lupe Cajías, De Concepción a Lunlaya, op. Cit. pag 93.

Il teatro sulle Ande
Con questa seconda puntata prosegue la serie di quattro scritti curati da Federica Rigliani e dedicati ad alcune significative esperienze teatrali nella Bolivia della seconda metà del '900. Il primo contributo, dedicato a Liber Forti e al Conjunto Teatral Nuevos Horizontes, è stato pubblicato sullo scorso numero di “A” (376, dicembre 2012-gennaio 2013), introdotto dalla premessa In viaggio col teatro sulle Ande.