rivista anarchica
anno 43 n. 377
febbraio 2013


ex Jugoslavia

Alle radici dell'odio etnico

di Lorenzo Sacerdoti
foto AFA - Archivi Fotografici Autogestiti


La guerra nei Balcani vista da una nuova prospettiva: lingua, tradizioni, costumi... cosa divide e cosa unisce serbi, bosniaci e croati? E soprattutto, come trasformare i fratelli di ieri nei nemici di oggi?



Le guerre sono forse la prova più inequivocabile dello straordinario potere persuasivo delle narrazioni. Convincere gli esseri umani a massacrarsi tra loro, per motivi ad uno sguardo attento e critico del tutto illogici, non può che essere frutto di una manipolazione più o meno sapiente. Perché se è vero che tante volte la storia, la letteratura, le arti visive ci hanno tramandato le testimonianze e le storie di uomini e donne costretti a combattere o a subire le conseguenze più terribili dei conflitti (Soldati di Ungaretti, i crudi ritratti della vita di trincea di Otto Dix, I Disastri della guerra di Goya...), è altrettanto vero che, in molte altre occasioni, ufficiali, soldati semplici e persino civili sono stati uniti dalla totale e cieca adesione alla causa assassina del proprio esercito, della propria fazione, del proprio gruppo.
Le guerre civili e le narrazioni da cui esse scaturiscono hanno un carattere del tutto particolare: mettere fratello contro fratello può sembrare, a prima vista, un'impresa ardua. Coloro che sono a noi più vicini non sono stranieri, barbaroi da guardare con sdegno. Non proviamo verso di loro quella paura del diverso che è alla base di tante conflittualità plurisecolari (mondo musulmano-mondo cristiano, oriente-occidente, bianchi-neri). Tuttavia i nostri prossimi sono anche coloro con cui più facilmente entriamo in competizione, dal momento che costituiscono il metro di paragone più facilmente utilizzabile. È più facile confrontare il proprio insuccesso con la fortuna, vera o presunta, del dirimpettaio che con quella di qualcuno che vive dall'altra parte dell'oceano. E anche ammettendo che la competizione sia con quest'ultimo, risulta in ogni caso più agevole sfogare l'umiliazione e la relativa frustrazione su qualcosa o qualcuno di vicino, magari addirittura un famigliare. È per questo che, là dove faccia comodo a qualcuno, non è poi così difficile creare conflitto tra persone, nazioni, etnie, gruppi politici tra loro prossimi, a patto, come sempre, che si racconti la storia giusta.
Se si considera il caso di guerre civili aventi una certa dimensione e rilevanza storica, la domanda sorge spontanea: chi possiamo considerare un vicino, un fratello, un prossimo? In altre parole: che tipo di avversario fa sì che una guerra si possa definire “civile”? A sentire i cattolici dell'Ulster, infatti, i protestanti che vivono a pochi passi di distanza sono colonizzatori scozzesi inviati nell'Isola di smeraldo dalla corona inglese per creare un equilibrio etnico fittizio tra le due compagini religiose. Questo sebbene le famiglie unioniste ed anglicane per tradizione risiedano in Irlanda del nord da secoli. Un'accusa simile potrebbe muovere uno zulu o un bantu agli afrikaners (i bianchi sudafricani di origine olandese), sebbene questi ultimi siano stati riconosciuti nientemeno che da Jacob Zuma (non proprio un amico dei boeri), presidente della repubblica arcobaleno, come “unica tribù bianca dell'Africa”. E che dire dei francofoni del Quebec, colonizzatori ed usurpatori di territori indiani fino a ieri, e oggi nazionalisti a tal punto da contestare l'esito del referendum del 1995 sull'indipendenza perché, a loro dire, avrebbero dovuto votare solamente i francofoni e non i residenti in Quebec di madrelingua inglese (circa l'8%)? Sia ben chiaro: a volere essere pignoli, in tutte queste affermazioni vi è una parte di ragione. Questo gioco dell'esclusione, però, oltre che essere molto pericoloso, fa capire come sia tutt'altro che semplice attribuire l'etichetta di “guerra civile“ ad un conflitto i cui partecipanti spesso non si sentono affatto parte dello stesso contesto. Si combatte sempre contro un “altro”, un “diverso”, a sentire una delle due parti. E anche se questo diverso era uguale fino a ieri, in fondo basta vedere la cosa da un'altra prospettiva, leggermente più laterale. Raccontare, insomma, una storia diversa quanto basta per creare un conflitto.

Fratelli separati alla nascita

Quello della ex-Jugoslavia è un caso particolare fra i casi già peculiari delle guerre civili. Perché, se è vero che i protestanti dell'Ulster tra loro non parlano in gaelico e gli afrikaners sono bianchi e non neri, sfido chiunque a trovare differenze sostanziali tra un serbo, un croato, un bosniaco e un montenegrino (gli sloveni sono sempre stati un popolo a parte, linguisticamente e culturalmente, stesso discorso per i macedoni e per le minoranze ungheresi, albanesi, ceche, slovacche e romene della federazione jugoslava). Proprio a partire dalla consapevolezza di essere popoli fratelli separati dalla nascita venne partorito, perlopiù all'interno del milieu intellettuale, il progetto di riunire tutti gli slavi del sud (tranne i bulgari, che sembrano stare antipatici un po' a tutti) in un unico stato, sogno che è passato attraverso la creazione del “Regno dei serbi dei croati e degli sloveni” (1918-1929), del “Regno di Jugoslavia” della dinastia Karageorgevic (1929-1941) ed è arrivato fino alla federazione socialista (1945-1991).
In questi anni ho viaggiato attraverso quasi tutta la ex-Jugoslavia, e di fronte alla mia richiesta, talvolta un po' insistente, di illustrarmi la differenza tra i popoli che la compongono (“avrete combattuto per l'indipendenza per qualcosa, no?”), i più hanno tentennato. Certo, esistono le tre diverse religioni dei Balcani: la cattolica (perlopiù in Croazia), l'ortodossa (perlopiù in Serbia) e la musulmana (perlopiù in Bosnia). Ma a parte (si fa per dire) quello?
Qualche temerario ha provato ad accennare a presunte differenze genetiche, di aspetto esteriore, quasi di “razza”. I bosgnacchi (bosniaci musulmani) si sarebbero incrociati, secoli or sono, con i turchi e sarebbero quindi più scuri, più fisicamente simili ai conquistatori ottomani. I dalmati e gli istriani con gli italiani, perdendo un po' della proverbiale durezza di tratti dei popoli slavi, durezza che si è invece amplificata nei purger (soprannome degli abitanti di Zagabria) che hanno sempre avuto un debole per i tedeschi. I serbi, invece, se la fanno con i russi e quindi sono più biondi, più quadrati. Vagli a spiegare, agli aspiranti Lombroso balcanici, che ho sorseggiato tazze di caffè turco nei bar di Belgrado con ragazze serbo-ortodosse nere come la pece e ho fatto amicizia, sugli scomodissimi treni notturni Venezia-Zagabria-Budapest, con muratori bosniaci musulmani dai tratti che più ariani non si può. La scusa dei geni non regge: tutti si sono incrociati con tutti in quella zona d'Europa. Non per niente lì, mi perdoneranno le italiche lettrici, ci sono le donne più belle del mondo.
Qualcun altro sostiene che è la lingua ad essere diversa. Se ancora oggi sugli scaffali polverosi delle biblioteche o di quei vecchi capannoni di libri da Festa dell'Unità si può trovare “Il serbo-croato senza sforzo”, guai oggi a proferire una simile bestemmia. A Zagabria si parla hrvatski (croato), a Belgrado srpski (serbo), a Sarajevo bosanski (bosniaco)... e a Podgorica? Crnogorski. Eh sì, esiste persino il montenegrino. Anche qui c'è da rimanere quantomeno perplessi. Al di là della scelta dell'alfabeto (latino o cirillico) e di alcune trascurabili differenze grammaticali, la lingua è sostanzialmente la stessa, ce lo confermano coloro che queste cose le studiano. Esistono sì modi leggermente diversi di pronunciare il serbo-croato, quelli che noi italiani chiameremmo “accenti”, ma queste differenze esistono anche all'interno dei singoli stati. Un croato di Zagabria saprebbe riconoscere dall'accento un serbo, ma anche un suo connazionale istriano o dalmata, e la differenza percepita rispetto al proprio standard di pronuncia non sarebbe molto minore. Per quanto riguarda le differenze di lessico presenti tra serbo e croato (e le relative varianti nazionali) siamo di fronte ad un fenomeno comune in qualsiasi lingua, compresa la nostra. Quante volte abbiamo sorriso a causa del modo in cui un italiano di un'altra regione o addirittura di un'altra città vicina alla nostra chiama una certa cosa che noi siamo soliti definire con un sostantivo differente?



Questioni onomastiche

Dopo la guerra civile degli anni novanta, sono state create artificialmente differenze di idioma tra gli ex-compatrioti jugoslavi: in croato sono stati modificati a tavolino i nomi dei mesi dell'anno, un po' come nella Francia della rivoluzione giacobina, e in montenegrino sono state coniate dal nulla nuove lettere dell'alfabeto, per meglio tradurre in segni convenzionali la pronuncia tipica di quella zona, impervia e meravigliosa, dei Balcani. E, da turista, chiedere indicazioni per la farmacia più vicina avendo a disposizione solo quel “serbo-croato senza sforzo”, anacronistico baluardo di una koinè linguistica brutalmente assassinata, potrebbe diventare un problema: all'apotheka a prendere l'aspirina ci vanno i serbi; i croati, se hanno la febbre, vanno alla lijekarna, brillante neologismo ricavato dalla parola lijeka (cura). Déjà vu: il bar diventa il “quisibeve”, tanto per dirne una... E se il farmaco che dobbiamo acquistare costa mille kune (un po' caruccio, ma è per non ammazzare l'analogia), in croato è tisuca e non hiljada, come in Serbia. A dimostrazione dell'artificiosità della maggior parte di questi cambiamenti, basti osservare il fatto che spesso le persone di mezza età, nate e vissute nella Jugoslavia unita, utilizzano ancora oggi termini serbo-croati che già i figli, cresciuti dopo la guerra, non utilizzano più perché educati ed abituati (a scuola, dai media) a non farlo. Giocare a Monopoli, dove si parla spesso di migliaia, con una famiglia croata composta da rappresentanti di diverse generazioni può essere tutt'altro che facile (parlo per esperienza personale).
Qualcuno sostiene che una differenza sostanziale tra i popoli jugoslavi risieda nell'onomastica. Esistono nomi e cognomi serbi, croati e musulmani, si dice, ma anche questa è una verità parziale e discutibile. Nel caso dei nomi propri, riguardo ai quali i genitori hanno libertà di scelta, vi sono, in effetti, delle differenze. Sebbene la maggior parte dei nomi, maschili e femminili, sia “pan-jugoslava”, alcuni sono tipicamente legati ai singoli paesi, per due motivi principali: una diversa grafia dovuta all'accento (lo Stefan serbo diventa Stjepan, Stipe o Stipan in croato) e la tradizione culturale o religiosa locale (Sanin e Vedad – derivati dall'arabo – sono nomi tipicamente musulmani, Nemanja – nome di un antico re serbo venerato come santo – è solo ortodosso, Nino, Mario, Luciano – mutuati dall'italiano – sono perlopiù croati). Per quanto riguarda i cognomi le cose cambiano decisamente; se è vero che esistono specificità in questo ambito, è altrettanto vero che associare un cognome all'appartenenza etnica e, ancor di più, religiosa, è rischioso e non solo nel caso dei paesi balcanici.
I cognomi jugoslavi, come quelli di altri paesi del mondo slavo e non solo, sono perlopiù patronimici: Ivanovic (figlio di Ivan), Juric (figlio di Jure), Petric (figlio di Petar) ecc. Quindi, se mi chiamo Mohamedovic, un mio antenato più o meno lontano si chiamava Mohamed. Presumibilmente quindi, sono di origine bosniaco-musulmana (quale coppia cristiana chiamerebbe il proprio figlio Mohamed?). Se questo discorso può essere valido, a fatica, nell'ambito dell'appartenenza etnica, quando si parla di appartenenza religiosa le cose si complicano ulteriormente. È come voler riconoscere un ebreo (osservante) dal cognome. Esistono i matrimoni misti, tanto per cominciare. Un “Levi” o un “Coen” potrebbero avere un bisnonno paterno ebreo ma non essere ebrei per l'halakhah (la legge orale ebraica), che prevede la trasmissione dell'ebraicità per via matrilineare. Esistono poi ebrei italiani che si chiamano Rossi, Orefici o Conforte (cognomi comunissimi tra i cristiani), ebrei ungheresi che si chiamano Kovacs (il cognome più diffuso nel paese magiaro), ebrei aschenaziti che portano i cognomi statisticamente più diffusi nei paesi germanofoni (Kraus, König, Kaufmann...). E così, in terra jugoslava, capita che un Novakovic, serbo secondo l'onomastica classica per la presenza della particella “ov” nel cognome, sia croato e che un Karamehmedovic (cognome tipicamente musulmano) non sappia nemmeno cosa sia La Mecca. Più difficilmente sarà serbo, quanto all'etnia, chi porta un cognome tipicamente croato non terminante in “ic” o “ovic”: Štokovac (tipico istriano), Botica (dalmata), Polanc¨ec ecc. Su questa falsariga si è anche sostenuto che i pravi hrvati (veri croati) siano solo quelli contraddistinti da cognomi non etnicamente equivocabili. Tutti gli altri con il cognome in “ic“ o, ancor peggio, in “ovic“ sono serbi croatizzati o croati serbizzati. Sarà. Ma anche qui un criterio univoco di distinzione è ben lungi dal delinearsi.

Il potere delle narrazioni

Mentre le differenze faticano ad emergere, risultano invece evidenti ai più, dopo pochi giorni di permanenza in terra ex-jugoslava, le analogie fra i diversi componenti di questo popolo uno e trino: la stessa concezione della famiglia e della vita sociale, il profondo valore dato alle amicizie vere, semplici, la passione sviscerata per il rito del caffè turco (guai a prenderlo in piedi o di fretta!), l'attaccamento alla propria terra e alle proprie radici, un certo gusto alimentare, lo stesso modo di fare umorismo (sentirete spesso parlare, dai più anziani, di jugoslovenski humor, humor jugoslavo, equivalente, in salsa agrodolce balcanica, del british humor), l'amore per la musica tradizionale e per il canto.
Cos'è allora che ha diviso i serbi, i croati, i montenegrini e i bosniaci? Cosa li ha spinti a farsi la guerra, ad odiarsi, a massacrarsi senza pietà? Risposta: una serie di perniciose e fasulle narrazioni create da elementi interni ed esterni alla compagine jugoslava, che hanno fatto leva sul tutt'altro che sconosciuto sentimento nazionalista dei popoli slavi del sud, ma soprattutto sul brutale vantaggio immediato. Da questo punto di vista il caso balcanico non è certo un unicum. Raramente nelle dispute territoriali viene messa al primo posto solamente l'appartenenza etnica, culturale o religiosa. Non è un caso che le armi dell'Irish Republican Army (IRA) irlandese siano state utilizzate da alcuni suoi membri per rapine a puro scopo di lucro personale. O che alcuni componenti del Fronte di Liberazione Naziunale Corsu (FLNC) della Corsica si comportino più da capi del crimine organizzato che da leaders di un movimento indipendentista, estorcendo denaro con la scusa del finanziamento alla lotta armata e controllando con metodi mafiosi il mercato edilizio dell'isola francese nascondendosi dietro la salvaguardia dell'ambiente. Per non parlare delle motivazioni economiche alla base dell'indipendentismo catalano e quebecchese. Il “noi da soli” (traduzione italiana di Sinn Féin, nome del partito nazionalista irlandese) sottintende spesso un “noi coi nostri soldi da soli” o “noi con le nostre possibilità economiche da soli”. Perché se c'è chi ha (giustamente) a cuore la sopravvivenza di una lingua, di una cultura o la libertà di un popolo è altrettanto vero che tanti altri cavalcano i fenomeni speratisti per altri motivi, di certo meno nobili. Per rimanere in Europa dell'est, casi particolarmente interessanti sono quelli del Kosovo, diventanto terra franca per criminali di ogni sorta, della Transnistria, regione de facto indipendente ma contesa tra Russia e Moldavia, buco nero d'Europa per il traffico d'armi e del Montenegro, che dopo l'indipendenza dalla federazione jugoslava (leggasi: Serbia) nel 2006 non ha ancora una legge chiara sulla naturalizzazione dei cittadini stranieri ed offre un programma di acquisto della cittadinanza tramite investimenti di una certa rilevanza nel paese (il Montenegro non concede l'estradizione e la sua cittadinanza potrebbe fare gola a molti).
In effetti, non è molto credibile l'idea che gli abitanti di Knin, Vukovar, Dubrovnik o Sarajevo volessero vedere i propri vicini morti solo perché pronunciavano diversamente le parole, o perché avevano un “h” di troppo nel proprio cognome o un modo diverso di farsi il segno della croce. Ha molto più senso che qualcuno avesse messo gli occhi sul televisore di qualcun altro, sul suo pezzo di terra, sulla sua casa, sulle sue figlie procaci. Perché in Jugoslavia c'è chi grazie alla guerra si è arricchito, e anche parecchio. Spesso sono stati proprio coloro che oggi vengono venerati come eroi da quei giovani che, pur non avendo vissuto direttamente la guerra, crescendo in paesi socialmente ed economicamente dissestati e alla disperata ricerca di un'identità, sono diventati più nazionalisti dei propri padri, magari resi invalidi dallo scoppio di una mina nella Repubblica serba di Croazia (Republika Srpska Krajina). Zeljko “Arkan” Raznatovic, gangster come tanti altri nella Jugoslavia degli anni settanta e ottanta, è diventato un eroe di guerra e uno degli uomini più importanti (e ricchi) della Serbia grazie ai saccheggi e alle devastazioni compiute dalla sua milizia, le famigerate “Tigri“. Marko Perkovic detto “Thompson“, giovanotto coi capelli lunghi della Dalmazia interna (Dalmatinska Zagora), una delle zone più povere e meno sviluppate della Croazia, ha fatto carriera con una voce stonata e una canzonetta composta sul fronte come inno della propria brigata: “Bojna cavoglave“. Oggi è il cantante croato più ricco e celebre dopo Severina Vuc¨kovic, star del pop balcanico.

Hate thy neighbour

Chi ci credeva, alle favole del nazionalismo, alle bubbole cariche d'odio seminate da politici folli o al soldo di potenze straniere che avevano ogni interesse a smembrare uno stato federale il cui processo di democratizzazione ed il cui affacciarsi in Europa creavano non pochi grattacapi, c'era. Forse erano addirittura molti, come del resto erano molti i tedeschi che credevano ad Hitler e pensavano che gli ebrei volessero dominare il mondo. Ma queste convinzioni che, a chi si trovava appena fuori da quel contesto sociale, storico e politico, parevano giustamente deliranti, anche là dove fossero realmente radicate, poggiavano sempre su un humus di malcontento di altro genere.
Nella Jugoslavia lontana dagli anni del boom economico titino, priva dell'URSS, nemico sulla carta ma di fatto ufficioso punto di riferimento, il malumore covava, aspettando di esplodere grazie a quella che, da sempre, è la scusa (leggasi: narrazione) migliore per fare la guerra: l'orgoglio nazionale, l'odio per il prossimo, uguale a noi eppure diverso. Hate thy neighbour. È cosi che i musulmani di Bosnia diventano i traditori del popolo serbo in combutta coi turchi, i croati nazisti filo-tedeschi e i serbi tornano ad essere cetnici ammazzabambini. Nasce la favola, perché di favola si tratta, della Velika Srbija-Grande Serbia, che si estenderebbe da Vukovar a Pristina e, anche se si tende spesso a dimenticarlo nell'atmosfera generalmente pregiudiziale nei confronti dei serbi, quella della Velika Hrvatska-Grande Croazia di ustashiana memoria, o del nuovo Impero Ottomano, tanto bramato da certi musulmani bosniaci, kosovari ed albanesi. Più questi deliri di onnipotenza sono grandi più si rivelano come tragici sintomi della sindrome post-traumatica che affligge i popoli balcanici, tante, troppe volte conquistati, schiavizzati e massacrati dallo straniero e, in virtù di questo, più soggetti di altri alle narrazioni bellicose che solleticano l'orgoglio campanilista, vengano esse dai satrapi di turno o dall'esterno. Nei Balcani, del resto, si è degni di rispetto solo quando si combatte e si muore. Lo dimostra una delle più celebri canzoni “cetniche”, in cui la Serbia è descritta come grande proprio per il fatto di avere più volte (tre, si dice) fatto guerra all'invasore, all'usurpatore: “Ko to kaze, ko to laze, Srbija je mala. Nije mala, nije mala, triput ratovala!
“Chi osa dirlo, chi osa mentire: la Serbia è piccola. Non è piccola, non è piccola, per tre volte ha combattuto!”.

Il guaio è che i popoli balcanici sono abituati alla guerra. In particolare i serbi, da sempre noti come popolo di formidabili combattenti. Non è un caso che la popolazione serba della Krajina croata, che tanto filo da torcere darà al neonato stato di Tudjman negli anni novanta, sia discendente diretta dei guerrieri che gli austriaci insediarono in quella zona secoli or sono per tenere a bada le scorribande turche.
I discorsi di Milosevic, Izetbegovic e Tudjman delineano profili di nazioni e popoli mai esistiti (perlomeno non con quelle caratteristiche), narrano menzogne i cui frutti sono costati carissimi a tutti i membri di quello che era ed è un solo popolo, diviso dallo sciagurato interesse di pochi. E non consola che molti serbi, croati e bosniaci, anziani o di mezza età, memori dei disastri della guerra e del nazionalismo, abbiano rivolto il proprio cuore verso una narrazione diversa, ma non meno fallace (come tutti i “si stava meglio quando si stava peggio”): la cosiddetta “Jugonostalgia”, la nostalgia della Jugoslavia socialista, dipinta come un'arcadia di benessere e uguaglianza in una sorta di delirio vintage oggi sempre più al centro dell'interesse di sociologi e studiosi della questione balcanica.
I più giovani, invece, sembrano non potersi sottrarre ad un bipolarismo estremo che vede da una parte l'adesione ad un nazionalismo neo-nazista xenofobo e violento e dall'altra un più o meno celato disprezzo per il proprio paese, visto come retrogrado rispetto ai liberali ed opulenti stati dell'Europa centrale e settentrionale, che nella mente di questi giovani jugoslavi divengono teatro di sogni che si traducono nella realtà di un'immigrazione ancora molto sostenuta, specie verso i paesi germanofoni.
Solo sviluppando un senso critico in grado di mettere in discussione il secolare affastellarsi di menzognere narrazioni storiche, culturali e religiose che grava sui Balcani, i popoli di questa terra potranno veramente emanciparsi dalle gravose catene che fino ad ora hanno loro impedito di aprire le ali e di farsi forti delle loro affinità invece che delle loro differenze. E aprire le ali è possibile solo se si guarda al futuro e non al passato, con la consapevole leggerezza che nel 1988, in una Jugoslavia che non si immaginava ancora l'abisso in cui di lì a poco sarebbe sprofondata, avevano cercato di descrivere gli Elektrini Orgazam, i Talking Heads di Belgrado:

Pokupimo boje koje padaju sa neba
Raccogliamo i colori che cadono dal cielo,
dovoljan je dodir, samo to nam treba
un tocco è sufficiente, ci serve solo questo.
zaboravi na juce, hajde pogledaj u sutra
dimenticati di ieri, guarda al domani
Vide es da zelis, videces da moces.
vedrai che vorrai, vedrai che potrai.
Odgovori koje trazis nisu bas daleko
Le risposte che cerchi non sono così lontane:
pogledaj u sebe, pogledaj u sebe
guardati dentro, guardati dentro.
neka tvoja glava bude samo tvoja briga
Che la tua mente sia la tua sola preoccupazione
ne daj da joj govore
non lasciare che la gente ti dica cosa fare
neka sama otkrije
pensa con la tua testa!
Igra rokenrol cela Jugoslavija...
Balla il rock'n'roll tutta quanta la Jugoslavia...

Lorenzo Sacerdoti
artbandolo@gmail.com