rivista anarchica
anno 43 n. 377
febbraio 2013


racconto

Vietato ridere

di Angelo Gaccione
illustrazioni di Adamo Calabrese


Una storia scritta per le bambine e i bambini. Ma non solo per loro.



Nella città di Furfantopoli, regnava, ormai da molti anni, uno spietato dittatore di nome Dominius. Non gli andava mai bene niente, e non faceva altro che vietare, perseguire, imprigionare, condannare a morte. Insomma, gli abitanti erano costretti a vivere nella paura, nel terrore, e tutti avevano il cuore in gola perché nessuno si sentiva al sicuro, ed il castigo poteva capitare in qualsiasi momento a capriccio del dittatore.
A Furfantopoli governava l'arbitrio e i poveri sudditi conducevano un'esistenza amara, fatta di angoscia e di infelicità.
Più di tutto Dominius odiava i colori ed il riso: queste due cose così belle lui non poteva proprio sopportarle. Voi vi chiederete perché, ma quando sarete più grandicelli scoprirete da soli che gli uomini di potere sono grigi, funerei, mortuari e non ridono quasi mai. Amano la guerra, cioè la morte; esaltano le armi e vivono di intrighi. Si fanno scortare ovunque vanno perché hanno paura dei loro governati, e si nascondono dentro grosse macchine blu e con i vetri neri. Le loro azioni quasi sempre provocano dolore e pianto alla gente semplice: più perversi di così... giudicate voi stessi.
Dominius aveva fatto bandire un ordine in cui si diceva che a Furfantopoli era severamente vietato ridere, in casa e fuori, e chiunque fosse stato sorpreso a ridere sarebbe stato messo a morte. Furfantopoli era diventata dunque, la città più triste della terra.
Le mamme, per timore che i loro bambini potessero divertirsi per strada, li tenevano chiusi in casa. Voi sapete come sono fatti i bambini: sono spensierati, amano giocare e ogni occasione diventa per loro un divertimento, un sollazzo. I bambini sono gioiosi, è nella loro natura, e ridono, ridono tanto; perché se non ridono che razza di bambini sono? Sono loro che portano l'allegria negli adulti: perché sono buffi, fanno domande impertinenti e ne inventano una più del diavolo. Insomma, senza bambini la vita sarebbe un cimitero e non varrebbe la pena di vivere.
Da quando Dominius aveva vietato di ridere, per le strade non si vedeva più un bambino e nei giardinetti, nelle piazze, nei cortili, non si udiva più uno schiamazzo, un'esplosione di allegria, una bella risata che allargava il cuore. Insomma, una noia ma una noia... un silenzio tetro, un'atmosfera triste, una vita che non era vita e ben presto i giovani sposi smisero di mettere al mondo bambini, perché doleva il cuore vedere come fossero costretti a crescere, e dunque non ne valeva proprio la pena. In questo modo la popolazione di Furfantopoli cominciò ad invecchiare e si avviava lentamente verso la sua inesorabile fine.
Un tempo lontano non era stato così. La città aveva un nome bellissimo: era stata battezzata Libertariam dai suoi abitanti, perché non era vietato nulla. Non era consentito solo fare del male agli altri, ma per il resto non c'erano né gendarmi, né galere, né muri col filo spinato, né eserciti, né armi, né divise o giudici e si respirava un'atmosfera elettrizzante, un fervore, un'allegria... insomma, era l'aria salutare della libertà. I bambini, per esempio, potevano ridere a squarciagola e stare per le strade e nelle piazze a divertirsi senza che alcuno osasse dire a o ba.

I regolamenti da osservare erano pochissimi e comprensibili a tutti, infatti a Libertariam non esistevano avvocati e le rare liti (ma erano rare), venivano risolte in Assemblea, com'era nella tradizione della città; com'era sempre avvenuto a partire dalla sua fondazione.
Bisognava chiedere e non rubare, perché tutto era di tutti, tranne le cose più intime, quelle affettive e che non si potevano scambiare.
Non prendere più del necessario per non sottrarlo agli altri.
Rispettare il lavoro di ognuno, perché ogni lavoro è necessario.
Proteggere i beni più grandi della vita: la terra, l'acqua, l'aria, i boschi...
Non dimenticare che ogni albero è come una madre che genera un figlio, e se se ne taglia uno bisogna piantarne due, perché madre e figlio siano sempre uniti, perché possano sempre rigenerarsi.
Armi, guerra e denaro non erano solo considerati inutili, ma spaventosamente dannosi.
Con questi pochi, ma sani princìpi, Libertariam prosperava ed era una città solidale e pacifica.
Quando Dominius, a capo di un poderoso esercito di mercenari di ogni sorta l'aveva occupata e sottomessa, tutto era rapidamente cambiato. Quello che era di tutti era diventato di un solo dittatore e della sua spietata corte. E soprattutto era stata abolita la libertà, e perché più nessuno se ne ricordasse, era stato persino cancellato il nome originario e sostituito con Furfantopoli.
Non contento di avere abolito il riso, Dominius, che non ridendo mai era sempre di pessimo umore, un brutto giorno ordinò che tutte le case fossero pitturate di nero. Immaginatevi lo sconforto, lo scoramento dei poveri abitanti. Le belle, colorate facciate che avevano reso così gioiose, vive e gentili le case di Libertariam, si trasformarono in un'unica colata di notte e di buio. Sull'intera città calò una cappa cupa, funerea, ed il sole vi si adagiava solo per morirvi. Non risplendeva più un solo angolo e tutta la città pareva immersa in un lutto eterno.

Ma come presto anche voi imparerete, non si può tenere a lungo una città in schiavitù. Voi certamente sapete, miei cari piccoli lettori, che tutti gli imperi della storia sono crollati. Se non lo sapete, lo imparerete presto a scuola. E c'è sempre qualcuno che prima o poi dà il segnale della rivolta, della ribellione, della libertà.


Un uomo così esisterà sempre, in ogni tempo, in ogni luogo: è possibile che da grandi molti di voi saranno così e non sopporteranno un dittatore come Dominius. Soprattutto non sopporterete le guerre, i gendarmi, i divieti, e che ai vostri bambini sia proibito ridere. Insomma vi ribellerete e Dominius avrà paura di voi.
A Furfantopoli quest'uomo un bel giorno arrivò.
Come fosse riuscito ad entrare in città non si è mai saputo; come avesse potuto eludere il controllo delle guardie in una delle porte dei bastioni, è rimasto sempre un mistero.
Fatto sta che come un virus contagioso, il vento della libertà e della disubbidienza era penetrato fra le mura di Furfantopoli.
Ricordatevi che per abbattere un tiranno a volte basta poco e la fantasia è un'arma potentissima.
Il nostro generoso eroe era proprio quel che si dice un uomo dotato di una spiccata fantasia. A vederlo - peccato che voi non abbiate potuto conoscerlo - non aveva nulla di particolare. Aveva un'altezza normale, un fisico normale, una faccia normale. Era intelligente e altruista, questo sì, perché se non si è intelligenti e generosi, hai voglia a cavare un ragno dal buco. Con la sua intelligenza egli aveva creato una minuscola contagiosa macchina per far ridere, che stava comodamente in una tasca e che si poteva portare in giro senza dare nell'occhio. Bastava pigiare un pulsante e subito quella si metteva a ridere smodatamente e non si fermava più, e chiunque si trovava nelle vicinanze ne veniva contagiato come se gli stessero facendo il solletico, e iniziava a ridere anche lui a crepapelle fino a farsi venire le lacrime agli occhi, fino a non poter reggere più le budella. Lo spettacolo era di uno spasso incredibile e non c'era alcun rimedio, tant'è che la gente pareva invasata e si rotolava per terra fino a perdere i sensi, fino a morire dal ridere, a morire ridendo.
La prima volta che il giovane usò la sua allegra invenzione, fu durante una importante parata militare. Sulla Piazza d'Armi davanti al Castello le truppe del dittatore, vestite in alta uniforme, erano tutte rigidamente schierate e al suono delle trombe si apprestavano a rendere onore al loro capo Dominius che doveva passarle in rassegna. Avrebbe annunciato loro che presto un'altra città vicina sarebbe stata invasa, per essere sottomessa al suo volere. Un'altra sanguinosa guerra, dunque.

Il nostro inventore, che si era munito di un discreto numero di macchinette, azionò i pulsanti e le lanciò tra le gambe dei soldati.
Accadde il finimondo: appena le macchinette cominciarono a sghignazzare, i militi non si tennero più; come se avessero avuto una lucertola nelle mutande o una formica nel sedere, si scatenarono in un'orgia di risate saltando da un lato all'altro della piazza come se ballassero la tarantella. Le righe furono rotte scomponendo il geometrico disegno ordito dai superiori e il disordine prese il sopravvento. Si davano pacche sulle spalle a vicenda, colpi di spada sulla testa fino a fracassarsela e senza cessare un istante di smettere di ridere. Era un delirio in cui nessuno capiva più un accidente, mentre man mano che il tempo passava, si vedevano i primi mucchi di corpi afflosciati senza vita uno sull'altro. Ridevano e morivano; morivano dal ridere e facevano ridere altri che a loro volta si apprestavano a tirare le cuoia, dal tanto ridere.
Appena Dominius giunse sulla piazza scortato da un gruppo di arcieri, fu colpito da una risata nervosa, stizzosa, come se gli fosse andata di traverso una coscia intera di maiale. Gli arcieri gli davano colpi decisi sulla schiena con l'intento di soccorrerlo, ma non ci fu nulla da fare. Il dittatore che aveva tanto odiato ridere, fu strozzato da una risata a cui non era abituato. Schiattarono anche gli arcieri, sempre ridendo, e di tutta la corte di Dominius non rimase neppure un tacchino.
Detto senza offesa e con carità cristiana, fecero tutto sommato una bella morte. Di solito i tiranni finiscono impiccati, ma a Dominius e ai suoi scherani andò fin troppo bene.
Appresa la notizia, il popolo si riversò per le strade a festeggiare la fine della tirannia. Il giovane inventore fu portato in trionfo e in suo onore fu piantato un albero gigantesco nella piazza principale, detto l'albero della libertà. Da allora divenne una felice consuetudine.
Naturalmente tutti i divieti di Dominius vennero aboliti, distrutte le prigioni e tagliato il filo spinato. La città riprese l'antico nome di Libertariam e tornò ad essere un luogo solidale e pacifico. Si dice che i più validi pittori, dai quattro angoli della terra, furono chiamati per ridipingere con colori magnifici le facciate delle case. I monelli ne approfittarono per scorrazzare per le vie, fare scherzi ai passanti e divertirsi con...
No, per favore non chiedetemi altro, mentre scrivo qui fa un caldo boia, sono stanco e poi non è che mi senta così bene. Continuate voi la storia, immaginate: siete giovani e avete fantasia da vendere.

Angelo Gaccione