rivista anarchica
anno 43 n. 379
aprile 2013



Cento anni di canzoni – 2
Melodrammi portatili

a cura di Alessio Lega



Dormiva il cuore mio da più giornate
io lo vegliavo come un bimbo amato
ora la vostra voce l'ha destato,
il cuore ha pianto e voi me lo rubate.

Chi siete?
Io non lo so
ma so che gli occhi ardenti
hanno la forza di strapparmi il cuor.

Chi siete? è una canzone del 1917 – un anno destinato ad aggrapparsi alla memoria, l'anno della Rivoluzione d'ottobre russa – quando l'Italia e il mondo si trovavano ancora impastoiati nelle trincee della Grande guerra.
Passa la Storia dalle canzoni? Forse non direttamente e non singolarmente, ma se esaminiamo un periodo e un gruppo di testi, se non proprio gli avvenimenti passano i fermenti, le mode, le ossessioni.
Le canzoni sulle quali ci soffermiamo in queste righe sono le canzoni dei primordi del '900 – che sarà il secolo della canzone –, canzoni nelle quali è ancora fortissima la ricerca di un linguaggio, canzoni sospese e dilaniate da mille conflitti e tentazioni estetiche. Il melodramma, il modernismo, uno stantio carduccianesimo, qualche folgorazione futurista.
Sono canzoni “di” autori – spesso ottimi autori – ma non ancora “canzoni d'autore”: non hanno ancora trovato quella strada che lega indissolubilmente la poetica dell'autore a quella del cantante, che a partire dagli anni '60 del '900, sarà il più delle volte la stessa persona.
Per ora queste canzoni cercano un interprete, magari più d'uno, uomo o donna che sia, e così la loro poetica è più generica, anche quando la fattura risulta buona, i versi ben cesellati, la melodia ricca, l'atmosfera intrisa di poesia. Tanto è vero che i casi in cui poi autore e cantante effettivamente coincidono, è appunto “un caso”, una bizzarra possibilità, che poco o nulla sposta. Forse è solo per il senno di poi che siamo colpiti da quegli autori che, come Armando Gill – al secolo Michele Testa – erano anche cantanti.
Armando Gill era un fantasista napoletano, un attore brillante, verseggiatore rapido nell'improvvisare, tanto è vero che l'aneddotica ce lo tramanda come un signore compito ed elegante che usava scherzare con leggerezza, snocciolando sempre nuovi versi – concludeva gli spettacoli con ...E allora, canzone “aperta” della quale improvvisava i successivi passaggi seguendo i suggerimenti del pubblico – non solo per lavoro ma anche sul tram, nei negozi, finendo per corteggiare in rima la ragazza che sarebbe divenuta sua moglie direttamente dal palco. La tensione poetica del suo repertorio in napoletano è senz'altro meno incandescente di quello dei coevi Di Giacomo e Bovio, e le sue macchiette impallidiscono a confronto della furia iconoclasta di quelle di Ettore Petrolini. Di lui però ci resta la grazia di Come pioveva, canzone in italiano, in puro stile “piccolo melodramma di una donna perduta”, un topos dell'epoca, che però resta commovente, proprio perché la sobrietà dei versi e l'abile uso del parlato, la tiene sul filo di un patetico quotidiano, e non la fa sprofondare nella sceneggiata. Questa canzone – successo immenso – fu lanciata da un'abile campagna pubblicitaria: comparvero parecchi manifesti che raffiguravano semplicemente un ombrello, in seguito il manifesto riapparve con la scritta “Come pioveva”.

Da sinistra a destra: Anna Fougez, Armando Gill,
E. A. Mario, Gino Franzi

C'eravamo tanto amati per un anno e forse più,
c'eravamo poi lasciati, non ricordo come fu
ma una sera c'incontrammo per fatal combinazion,
perché insieme riparammo, per la pioggia, in un porton! [...]
Ed io pensavo ad un sogno lontano
a una stanzetta d'un ultimo piano,
quando d'inverno al mio cor si stringeva...
Come pioveva... come pioveva!
«Come stai?» Le chiesi a un tratto «Bene, grazie, disse, e tu?».
«Non c'è male» e poi distratto «guarda che acqua viene giù!».
«Che m'importa se mi bagno, tanto a casa debbo andar»
«Ho l'ombrello, t'accompagno» «Grazie, non ti disturbar...»
Passa a tempo una vettura io la chiamo, le fa «no»
dico «Oh via, senza paura, su montiamo», e lei montò.
Ma il ricordo del passato fu per lei il più gran dolore,
perché al mondo aveva dato la bellezza ed il candor...
così quando al suo portone un sorriso mi abbozzò
nei begli occhi di passione una lagrima spuntò.
Io non l'ho più riveduta se e' felice chi lo sa
ma se ricca, o se perduta, ella ognor rimpiangerà...
Quando una sera in un sogno lontano
nella vettura io le presi la mano
quando salvare ella ancor si poteva
Come pioveva... così piangeva.

Vipere o mamme

Decisamente meno contenuti sul piano retorico sono i versi di E. A. Mario, altro autore partenepeo di celeberrime canzoni, anche in lingua italiana.
Balocchi e profumi (“Mamma... mormora la bambina”), ma soprattutto Vipera, una risciacquatura di piatti dannunziani, un grottesco canto nel quale una serie di luoghi comuni decadenti “ella portava un braccialetto strano/una vipera d'oro attorcigliata/che viscida parea sotto la mano/viscida e viva quando l'ho toccata” dipinge a fosche tinte un'irresistibile dark lady nostrana, contrapponendola alla sacra figura materna “mamma che quando sogna sogna il vero/ha sognato di me la notte scorsa/salivo per un ripido sentiero/presso una mala vipera ed è accorsa”, prorompendo in una sorta di ritornello/anatema: “Vipera! Vipera dal braccio di colei/oggi ha distrutto tutti i sogni miei/tu eri il simbolo, l'atroce simbolo/della sua malvagità”.
Anche in tempi più recenti la canzone d'amore, quand'è concepita da un uomo, è spesso intrisa di misoginia, anche ai migliori livelli – basti pensare alle donne insensibili o alle pantere divoratrici del sommo poeta Jacques Brel – e l'aspirazione alla libertà femminile è spesso stigmatizzata con amarezza “ti senti sola/con la tua libertà” canterà un rancoroso Bruno Lauzi “ed è per questo che tu ritornerai” che nell'enfasi roca della sua splendida voce e nell'incalzare terzinato del ritmo – come la rullata che accompagna il condannato al patibolo – mi è sempre parsa sottilmente minacciosa (“tornerai per assistere alla mia vendetta” la canzone non lo dice, ma a me lo suggerisce “tornerai quando a me non fregherà più niente”).
La Vipera di E. A. Mario è un'antesignana, persin simpatica nella sua bizzarria liberty, di tutte queste donne fosche. Quanto è però più bello, più vero, più moderno, più vitale quell'addio cantato dalle mondariso del vercellese, quanto più la poesia illetterata di queste lavoratrici con le gambe nell'acqua ci assomiglia, ci diverte, ci appassiona... e quanto sono più dolci le “caramelle” e il “vino bianco” di quest'elegia sottoproletaria.

Addio morettin, ti lascio, finita è la mondata
tengo un altro amante a casa, più bellino assai di te.
Più bellino, più carino, più sincero a far l'amore
ci ho donato la vita e il cuore, per sempre l'amerò.
Tu credevi ch'io ti amassi mentre invece t'ho ingannato,
caramelle tu m'hai pagato e vino bianco abbiam bevù.
T'ho amato per quaranta giorni solo per passare un'ora
e adesso ch'è giunta l'ora ti lascio in libertà.
E la libertà l'è quella di non più lavorare,
casa vogliamo andare, ma in cima del vapor.

Purtroppo, ancora per lungo tempo, il mondo della canzonetta sarà dominato da gli E. A. Mario, e ci metteremo decenni a scoprire la nobiltà della nostra produzione popolare – contrariamente a ciò che avveniva negli Stati Uniti, dove, sotto l'impulso della famiglia di ricercatori Lomax, la Biblioteca del Congresso intraprendeva dagli anni '30 una campagna di registrazioni sul campo.
Sarà proprio il mescolarsi, contrapporsi e contaminarsi di queste due straordinarie eredità – musica popolare e canzone di autori – e l'influenza di tradizioni culturali diverse – la canzone francese e quella americana – a determinare la ricchezza e la maturità della canzone d'autore degli anni '60 e '70.
Anna Fougez (pseudonimo francesizzante della tarantina Anna Pappacena) fu una delle interpreti principali di quel mondo. I suoi spettacoli richiamavano un immaginario – ricco di traviate imbibite d'alcool e cocaina – che la Fougez costruiva con geometrica attenzione e un perfezionismo che arrivava a disegnare i propri abiti, i gioielli, le acconciature, le scene, le coreografie.
Il torinese Gino Franzi, con eguale perfezionismo e col suo bel timbro baritonale, fu un altro interprete leggendario: vestito in frac scuro, con gli occhi cerchiati a matita, cantava canzoni vagamente espressioniste e romanticamente esistenziali, come Scettico Blu (o Scettico Blues, secondo una meno autarchica dizione).

Quando tutto tace vo lontan dalla città
solo nella notte il mio cuor scrutando va
e nel mister lungi va il pensier,
quando nel mondo c'è ancor chi si illude d'amor
e l'ingenuo non sa che c'è il fango quaggiù
in finzion di virtù.
Cosa m'importa se il mondo mi rese glacial
se di ogni cosa nel fondo non trovo che il mal
quando il mio primo amore mi sconvolse la vita...
Senza lusinghe pel mondo ramingo
io vo e me ne rido beffando il destino così.
Nel mio sogno errante mi sentivo trasportar
scettico e perverso m'hanno fatto diventar
un cencio e qui c'era il cuore un dì
passa la gioie e il dolor
sento il soffio del mal
sento il soffio del ben [...]

Qui par che aleggi la stessa ispirazione dei versi di Dino Campana “Me ne vado per le strade/strette oscure e misteriose/ [...] /La stradina è solitaria/non c'è un cane; qualche stella/nella notte sopra i tetti:/e la notte mi par bella./E cammino poveretto/nella notte fantasiosa/pur mi sento nella bocca/la saliva disgustosa.”

Addio Tabarin

La canzone forse più audace del repertorio di Franzi è Addio Tabarin, un piccolo “film” in tre episodi, che raccoglie molti luoghi comuni e rilancia con un inaspettato finale sociale. Il Tabarin – il locale notturno per antonomasia, il night si sarebbe detto dopo – catalizza vite e destini: quella degli studenti che vi hanno sperperato giovinezza e risorse:

A sera un gruppo di studenti, ormai dottori ma scontenti
cantando «addio città» verso la stazion se ne va.
Ma presso ad una gran vetrata da mille luci arabescata
S'indugian tutti ancora un po'... a ricordar si scende, ohibo!
«Addio tabarin paradiso di voluttà
Che inghiottivi nel ventre dorato i soldi di papà.
Tabarin: jazz e tango, shimmy e foxtrot, danzatrici e cocottes
è passato il tempo folle ormai, tu mai più ci vedrai
fra i tuoi rossi abat-jours laggiù mai più».

C'è poi il destino della consueta “Capinera perduta” che muore tisica:

Minata da un terribil male
Nel bianco letto d' ospedale
Sen muor la belle Helène, étoile dei bal-tabarin [...]
«Addio tabarin: mie reggie smaglianti d'or,
gai e folli mercati d'ebbrezza e di fugaci amor...
Tabarin: quanto oblio mi desti tu
da quel di che laggiù la carezza d' un tango mi chiamò
e a scordar mi aiutò che dovevo finir un dì così».

Questa canzone ci fa misurare anche la celebrità del cantante che, dal '22 agli anni '30 inoltrati, poté eseguire indisturbatamente questo brano, il cui ultimo, misterioso personaggio adombra un socialista o un anarchico, in atto di invocare la palingenesi rivoluzionaria:

Nell'alta notte desolata l'insegna sfolgora sfacciata [...]
Quand'ecco s'apre la portiera e dall'interno un'ombra nera
s'affaccia in atto di fuggir e leva il pugno a maledir...
«Addio tabarin beffa atroce all'uman dolor
vituperio alla povera gente che di miseria muor.
Bada a te: se il cancan del tuo carneval
Spegne il grido che sal, fatalmente verrà la ribellion,
freme ormai la legion di chi incerto è d'aver un pan doman.
Bada a te tabarin!

Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it