rivista anarchica
anno 43 n. 381
giugno 2013




Anna e Mélanie
Una riflessione politica sulla comprensione del testo

a cura di Felice Accame


1.
Nel 1961, Susan Sontag pubblicò un saggio intitolato Contro l'interpretazione. Nonostante questo titolo (cui difficilmente, prendendolo alla lettera, si attribuirebbe un senso compiuto), le ambizioni della scrittrice erano più circoscritte. “La nostra”, diceva la Sontag, “è una di quelle epoche in cui l'idea dell'interpretazione è generalmente reazionaria e soffocante. Come le esalazioni dell'automobile e dell'industria pesante inquinano l'atmosfera, così le emanazioni delle interpretazioni artistiche avvelenano oggi le nostre sensibilità. In una cultura dove il problema ormai endemico è l'ipertrofia dell'intelletto a scapito dell'energia e della capacità sessuale, l'interpretazione è la vendetta dell'intelletto sull'arte”. La critica dei prodotti estetici – poesia, letteratura, pittura, musica –, insomma, costituiva un “impoverimento” dei prodotti estetici stessi e dunque, ad essa dovremmo rinunciare per tornare “a fare un'esperienza più immediata di ciò che abbiamo”. Lo scopo di qualsiasi commento relativo al prodotto estetico – questa era la sua conclusione – “dovrebbe essere oggi quello di rendere le opere d'arte – e per analogia la nostra stessa esperienza – più reali, e non meno reali, per noi. Funzione della critica dovrebbe essere quella di mostrare come mai è quello che è, o anche che è quello che è, e non che cosa significa”. Non avremmo bisogno, pertanto, di un'ermeneutica, ma di una “erotica dell'arte”.
Ora, se di questa presa di posizione posso comprenderne le ragioni – una funzione sociale più e meno parassitaria e più e meno mercantile della critica, la miseria dei suoi apparati metodologici e la difficoltà intrinseca del suo compito –, purtroppo, ho anche la netta impressione che i termini con cui venne formulata questa denuncia non erano i più adatti allo scopo e, anzi, credo fossero più adatti a ottenere l'effetto contrario.
Mi spiego. Innanzitutto, ritengo molto discutibile la dicotomia di base – da una parte l'intelletto, dall'altro il prodotto artistico –, come se una sorta di genialità indipendente possa bypassare allegramente il cervello dell'artista. Poi, ritengo senza speranza la pretesa di conferire uno statuto di maggiore “realtà” alle opere d'arte – come se fosse possibile “oggettivarle” alla sola condizione di ridurre al silenzio il critico. In terzo luogo, non posso esimermi dal rilevare come la predicazione della Sontag sia ben'altra cosa dal suo razzolamento: laddove si sofferma su “certi film di Bergman” – faccio un unico esempio – afferma che “benché infarciti di zoppicanti messaggi sullo spirito moderno, tali da provocare interpretazioni – riescono ugualmente a trionfare delle intenzioni pretenziose del regista”. Sarà anche “contro le interpretazioni”, ma, a quanto parrebbe, la Sontag è contro le interpretazioni altrui – non contro tutte le interpretazioni.

2.
Onde evitare lo straparlare della critica nei confronti del prodotto estetico consiglio prioritariamente di dichiarare i propri criteri di indagine, di classificazione e di giudizio. È una decisione che, da un lato, mantiene aperta la relazione con l'altro – perché se un'opinione vien fatta discendere dall'applicazione di un criterio, ben diversamente dalla circostanza in cui si dichiara giudizi assoluti, è sempre possibile confrontarsi con il proprio interlocutore -; mentre, dall'altro, non può che promuovere la consapevolezza del proprio operare mentale e la scoperta delle proprie matrici culturali. In altre parole, suggerisco che l'attenzione di chi parla dell'opera d'arte si rivolga anche e soprattutto alle modalità con cui la guarda, senza pretendere di mettere in luce i tratti costitutivi dell'opera imponendoli all'interlocutore come i soli, fondamentali, oggettivi, indiscutibili, elementi dell'opera in se stessa – come se fosse possibile a qualcuno restituirla agli altri tale e quale indipendente da chi ne sta parlando. In gioco – eccone il nodo politico – c'è la scelta tra autorità e partecipazione, tra imposizione e confronto aperto.

3.
Di Valentino Ronchi poeta, nel 2006, ho avuto l'occasione di leggere ed analizzare Canzoni della bella vita e, già in quella circostanza notai la preponderanza della struttura narrativa rispetto ad altre soluzioni poetiche. Voglio dire che, nella poesia di Ronchi, il racconto – lo sviluppo nel tempo di relazioni umane e vicende – è spesso palese – diversamente da quanto accade nell'espressione di altri poeti, dove la parola – ritmata, versificata – ricondensa gli eventi, arricchendoli magari di riflessione ma lasciandoli impliciti. All'epoca, misi innanzitutto in rilievo come l'unità narrativa fosse costituita attorno ad un io narrante, a personaggi ricorrenti, e, soprattutto, alla permanenza di una situazione-contesto all'interno della quale si dipanava una molteplicità di sviluppi. In secondo luogo, misi in rilievo la sintassi utilizzata da Ronchi – una sintassi che favorisce i toni bassi, da parlato, da parlato di una tipologia sociale particolare come può esserla quella dei giovani scolarizzati, ma senza le grandi pretese di intellettualità dominante.
Facevo anche notare che, proprio a partire da questa sintassi – e non solo dalle altre forme della scrittura poetica (versificazione, cesure, qualche raro momento di condensazione delle tante particolarità in una sola generalità) – che mi sembra si crei quell'opportunità del respiro poetico classico – quello in cui ci si confronta con i grandi valori della vita o con quanto ci è spacciato per tale...
In altre circostanze successive – a proposito di altre sue poesie disperse qua e là –, ho avuto occasione di soffermarmi più a lungo sulla forma del suo versificare e sull'insieme di elementi espressivi che ne costituiscono il suo specifico linguaggio complessivo. Non ci tornerò a proposito di un incantevole poemetto costruito con saggezza e bel gusto dell'architettura narrativa intorno alle due figure femminili di Anna e Mélanie. Dove – non per la prima volta – riemerge il tema culturale della dislocazione geopolitica nella binarietà di Italia e di Francia. Anche queste mie, beninteso, sono interpretazioni, ma, come tali, non credo affatto che possano “impoverire” il testo cui si riferiscono.
A proposito di questo nuovo libro di Ronchi, munito di un solo criterio – rispondere ad una domanda tutta mia che scaturisce, però, da qualcosa che, irrimediabilmente, non può che essere anche suo – mi dedicherò ad alcune frettolose indagini nel suo atlante ideologico.

4.
Gli elementi della struttura narrativa di Anna e Mélanie li riassumerei così: a) Anna e Mélanie nascono nel 1976 – lo stesso anno in cui nasce Valentino Ronchi. L'una occorre immaginarsela a Milano (qualche vacanza nelle Marche) e l'altra in Francia (soprattutto in Normandia, Villers, e a Pontoise, qualche gita a Parigi). Un io a ciascuna, raccontano di sé: infanzia e adolescenza; b) Nel 1992, tuttavia, s'intrufola un altro io, maschile – un maschio che scrive cartoline ad Anna e che, in Normandia, vede Mélanie; c) poi, riprende l'io di Anna – che non riceve più cartoline, che rimane incinta, che ha una figlia cui dà il nome di Francesca; mentre, all'epoca, Mèlanie – é sempre il suo io a raccontarlo – trova un impiego presso uno studio notarile e, en passant, l'amore di una sera; d) nel 2008, al bistrot della stazione Termini di Roma, l'io maschile, da spettatore, assiste all'unica fase di compresenza spaziotemporale di Anna e Mélanie – che non si incontrano, non perdendo né guadagnando alcunché.
La struttura narrativa la farei tutta qui. Ma chi vuole può arricchirla. Sotto la forma letteraria delle “appendici”, ciascun io femminile si porta dietro un corredo: per Anna ci sono i ricordi di alcune chiese alla periferia di Milano; per Mèlanie ci sono i ricordi di un periodo in cui è ospite dell'amica Isa a Kreuzberg, un quartiere di Berlino.

5.
Tra il tanto di parcellizzato, nel brodo di cultura dei tre protagonisti ci si può individuare alcuni ingredienti ancora riconoscibili. In Anna, c'è il dizionario di greco di Lorenzo Rocci – un'espansione organica del “buon” liceale –, c'è Steinbeck e Saroyan a rappresentare le letture preferite, Froebel e Minkowski a rappresentare la psicopedagogia e perfino Trotsky trascinatoci per i capelli (fuor di metafora: si parla di qualcuno che portava i capelli “à la Trotsky”). In Mèlanie c'è Hemingway (Fiesta – Il sole sorgerà ancora, che è del 1926), Valery Larbaud, Emile-Auguste Chartier detto Alain (per i Cento e un ragionamenti), la Jean Seberg di A but de souffle di Jean Luc Godard (che è del 1960) e il più aggiornato Houellebecq. Nell'io maschile, infine, c'è l'Amanda Langlet che, nel 1982, interpreta la Pauline à la plage di Rohmer.
Di Pauline, parliamone. Un'estate da quindicenne, in attesa dell'amore, e messa a dura prova dai fallimenti degli amori altrui, di chi – più adulto –, ciascuno a suo modo, vuole insegnarle qualcosa. Di lei ricordo la goffaggine e l'inermità del corpo – pur desiderabilissimo e desiderato – di Amanda Langlet; il suo caschetto di capelli castani, il mento un attimo prima del broncio che si appoggia sulle mani intrecciate, la sua andatura sgraziata, la sua canottiera, il suo costume intero a rigoni bianchi e celesti, il suo bikini chiaro; le sue ossa che ne escono come in un'articolazione ancora incerta; la sua carne non ancora modellata dal mercato dell'ideologia. Tutto ciò fa parte dei miei ricordi di spettatore cinematografico. E Ronchi – voglio dire – tutto questo l'ha visto. Anche lui – nonostante la differenza di età.

6.
L'andirivieni tra l'Italia e la Francia mi è familiare. E il cinema, in questo processo, non ha avuto un ruolo di poco conto. Educato alla commozione amorosa de Les enfants du paradis di Carné, cresciuto nel mito della Nouvelle Revue Française, ansiosamente in cerca di avanguardie che logorassero il perbenismo borghese – trovata e amata la mia Zazie nel metro sia nelle parole di Queneau che nel montaggio cinematografico di Malle – mi sono poi riequilibrato nella lettura di Proust e di Anatole France – alla faccia dell'iconoclastia surrealista che li avrebbe voluti cancellare dalla memoria collettiva. Mi rendo conto che dico banalità quando dico che certi film li si può ideare e produrre solo in Francia, ma, alla finfine penso che in queste banalità qualcosa di vero ci sia. L'avremmo mai potuto produrre noi L'anno a scorso a Marienbad di Resnais? No. E ho l'impressione che Ronchi – che sa guardare “sotto i tetti di Parigi” (è il titolo di un film di René Clair) e le ragazze che vi si sbrigano – anche questo lo sappia.

7.
La poesia di Ronchi mi risulta così partecipabile, allora, così nutrita di un patrimonio di esperienza apparentemente condiviso, che uno come me – lettore renitente, testimone riottoso – è fin disposto ad accettare come lettera scrupolosamente esatta il refuso di pagina 40. È disposto a non considerarlo tale – è disposto a misurarcisi: “la mia bellezza sono i capelli/ o almeno così mi pare, né biondi né scuri/ ne predi un po' fra le dita e non sai neanche/ descriverne il colore”. Ovviamente, “predi” sta per “prendi”, ma – nonostante sappia bene quanto l'uso del verbo “predare” esuli dalla gomma semantica masticata da Ronchi – sono ben disposto riguardo ad entrambe le soluzioni – perché l'una mi arricchisce l'altra.
Posso poi anche perdonargli quello che considero un errore vero e proprio. Nel suo preambolo, allorché riconduce il personaggio di Mèlanie a quella sorta di prototipo che è Amanda Langlet, chiede al suo lettore se “per caso” ha visto Pauline à la plage “in qualche sperduto cineforum”. Mi chiedo cosa ci sia, invece, di più “sperduta” di una multisala cinematografica (dove, lì sì, ci si sente sperduti, mentre nel cineforum è più probabile che, proustianamente, si ritrovi qualche brandello di tempo perduto) – e mi dico che, ben di rado, per fortuna, anche Ronchi può cader vittima della dozzinalità del frasario.

8.
Mi chiedo, allora, come la lievità, declinata nel tempo, si traduca in strazio transitando da chi scrive a chi legge. Perché la domanda cui cerco di rispondere, sfrugugliando nel suo atlante ideologico, è proprio questa: perché mi parla questo poeta, perché parlando dice cose che comprendo, perché queste sue cose – lievi, delicate, questo suo annotare da antropologo del garbo, dell'educato, del leggero, del piccolo, del minuscolo, del deciduo – mi commuovono profondamente? Perché pur segnati da età diverse – avendo vissuto esperienze diverse – condividiamo ugualmente tanto? Rispondermi – come sempre quando si tratta di spiegare un'attenzione o una disattenzione verso l'altro – non è facile. Non so bene il perché, ma è come se quel che ho visto io – e non solo visto, ma categorizzato –, in virtù di chissà quali studi – di chissà quali attenzioni verso il mondo e verso gli umani che lo animano –, in virtù della sua capacità-disponibilità di immergersi in storia in apparenza non propria, l'avesse visto anche lui. Visto e categorizzato allo stesso modo. Incasellato sotto gli stessi nomi, rintuzzato nelle sue implicazioni di angoscia con le stesse tecniche.
Perché mi coinvolge e mi si traduce ben presto in pena dolorosa? Perché la tentazione – come quando ci si capisce, una volta tanto – è quella di dire che, allora, ci si può capire tutti. Ci si può capire, ma, perlopiù, la fatica relativa viene evitata. A tutto scapito del senso della relazione umana.
Come quando quell'io maschile – quello di Valentino Ronchi, ma anche il mio – vede la possibilità dell'incontro tra due altre persone e non può che lasciarla svanire. Può solo tornare ad alambiccarsi sulle vite altrui, a ricreare i propri ricordi e a trascriverli – “fino a che un giorno il tempo sarà/ passato del tutto – e non così a piccoli tratti –/ e tutto sarà per allora di colpo semplice/ semplice e facile da capire”.

Felice Accame

Note
Contro l'interpretazione di Susan Sontag è stato pubblicato da Mondadori, nel 1967. Le due raccolte poetiche di Valentino Ronchi sono pubblicate da Lampi di Stampa, a Milano. Di suo è stato pubblicato di recente anche un romanzo Vecchi libri per quest'epoca incerta (Foschi editore, Forlì).