rivista anarchica
anno 43 n. 381
giugno 2013




Il coraggio del passero

di Nicoletta Vallorani


La morte si merita rispetto. Sempre. Anche quando è un atto deliberato, una forma di resistenza. Poi, chi resiste non dovrebbe sentirsi insultato. Me la volto e rivolto nella testa, la faccenda dei tre suicidi a Civitanova Marche. Non c'è niente da capire, in realtà. Triplice suicidio per difficoltà economiche, sottrazione di dignità, vergogna di essere talmente poveri da non poter neanche considerare di sopravvivere. Faccio l'insegnante. L'intellettuale. La scrittrice, con il disagio di chi scrive in un paese strampalato, dove la cultura è vergogna. Considero una scena vista infinite volte. Non è la storia a ripetersi, sono gli uomini. Ci vorrebbe un necrologio non dico capace di garantire un passo avanti, ma almeno di evitare una vertiginosa corsa all'indietro.
Ora, il mio problema è: cosa dire di nuovo? Cosa andare a raccontare ai ragazzi? Quale futuro? Come si educa alla libertà? Che vuol dire responsabilità? Alla fine il punto è: cosa racconto ai miei studenti, ai miei figli, quando provo a immaginare un futuro? Che cosa intendiamo quando parliamo di domani? Ce n'è abbastanza per macellare la speranza, quella personcina esigua la cui aspettativa di vita è, oggi, inesistente.
Poi succede che la figlia ventenne di un mio amico amatissimo che se n'è andato da poco e che era un grandissimo pittore mi chiede un consiglio su una lettera che lei e un suo compagno hanno scritto all'assessore alla cultura. Con un piglio rabbioso ma deciso, con parole dirette e senza nascondersi dietro una retorica ormai inutile, nella lettera denunciano una situazione culturale allo sfascio, una politica artistica insensata e ostaggio delle esigenze di marketing e l'assenza assoluta di prospettive promozionali. Succede che questa lettera, colma di ingenuità ma appassionata e determinata, mi restituisca il pezzo che mi mancava: l'idea che forse un futuro possa esserci. E succede che mi metto ad adattare la lettera alla retorica dell'interazione tra grandi, smussando gli angoli e adattando le asperità. Poi faccio un passo indietro. Dieci passi indietro. E restituisco la lettera com'è, dicendo ai ragazzi che il futuro è loro e che non devono arrendersi. Noi siamo il passato. Occorre rispetto per la rabbia dei giovani.
Succede anche che incontro in metrò un mio ex-studente. I visi si dimenticano con facilità, le parole restano. Il ragazzo mi riconosce e mi racconta di come abbia trovato un lavoro e ne sia fiero: è una piccola cosa, ma è quello per cui ha studiato e che ha intensamente voluto. Certo, ha dovuto reagire ai primi fallimenti, incassare colpi pesanti. Mi riconosce il merito improbabile di avergli insegnato, appunto, che non ci si arrende. Non io, in realtà: la cultura, quelle piccole pillole di resistenza quotidiana che innumerevoli insegnanti infilano nella loro quotidianità.
Succede infine che l'uomo della mia vita torni a casa e mi racconti di come l'autogestione nella scuola di cui è responsabile, una struttura povera e disastrata, dimenticata dalle amministrazioni pubbliche ma ben presente nel quartiere dissipato in cui è incastonata, si sia trasformata in una entusiasmante jam session multietnica di studenti e insegnanti: produzione artistica popolare a improvvisazione libera, e una straordinaria carica di ottimismo.
La risata è sempre liberatoria. Anni fa, al funerale del suo padre amatissimo, la mia amica Barbara ha letto un racconto di Stefano Benni. Era una funzione laica e strapiena. Renzo era molto amato, un po' come Carlo Oliva. Insomma, la mia amica, ridendo e piangendo, ha letto il racconto di Benni, perchè Renzo lo adorava. Lentamente e inesorabilmente, nel commiato umido e piangente, si è insinuato il virus di una ilarità irresistibile. Di una potenza devastante, uno tsunami capace di restituire alla vita chi poi non se ne sarebbe mai andato.
Non so: credo che anche Renzo se la stesse ridendo, e fosse del tutto consenziente a questo insolito rituale di lutto. In seguito, quando l'assemblea si è progressivamente sciolta, ancora tra lacrime ridacchianti, qualcuno ha salutato la famiglia con un improbabile “alla prossima”: vagamente blasfemo, ma esilarante.
Ecco. Perciò torno a dire. La morte merita rispetto, e pertanto guai al politico che osa andare a commemorare un suicidio del quale è responsabile per il fatto stesso di essere un politico. La responsabilità si accetta, non si espia cospargendosi inutilmente il capo di cenere. La libertà è un dono, e consiste anche e primariamente nella possibilità di mantenersi col proprio lavoro. È molto semplice. Elementare. Perché certa gente non riesce a capirlo?

Nicoletta Vallorani