rivista anarchica
anno 43 n. 382
estate 2013




È possibile vivere senza stato

intervista a Jordi López
di Andrea Staid


Tra il 13 e il 15 dicembre 2012 ho avuto il piacere di partecipare con una relazione su le società contro lo stato all'università di Alicante, dove si è tenuto un laboratorio esplorativo sull'antropologia politica delle organizzazioni sociali non statali. Tra i relatori erano presenti alcuni antropologi molto interessanti tra i quali l'autore di Dominio e arte della resistenza James C. Scott, professore all'Università di Yale.
In quei tre giorni, analizzando il potere, abbiamo capito l'importanza della non separazione tra corpo sociale e corpo politico, abbiamo compreso che dobbiamo creare delle norme per evitare la nascita e la riproduzione dei rapporti di potere coercitivo, e che solo attraverso una ridistribuzione del potere a tutti, la società può riformarsi su basi egualitarie.
Il momento storico che stiamo vivendo ci offre una grande fortuna: quella di assistere al collasso del sistema capitalista; ma non possiamo stare a guardare, dobbiamo ripensarci, confrontare il nostro vissuto con quello praticato altrove – o sperimentato in passato – studiare chi prima di noi ha vissuto in modo più libero, provare ad attuare giorno per giorno la decostruzione dei rapporti di dominio, ribellarci allo stato e all'oligarchia che lo mantiene per costruire una nuova società di liberi e uguali. In questo numero di A ho deciso di riportare qualche domanda che è stata fatta su Rojo y negro di marzo 2013 a uno degli organizzatori del laboratorio esplorativo, l'archeologo libertario Jordi López.

Alicante, dicembre 2012. Il poster del laboratorio
sull'antropologia politica delle organizzazioni
sociali non statali

In primo luogo, che cos'è l'antropologia politica delle organizzazioni sociali non statali e a cosa serve?
«Stiamo parlando essenzialmente di una forma di conoscenza e di un oggetto; di applicare gli strumenti dell'antropologia o, in senso ampio, dello studio dei gruppi umani nelle loro società, nelle loro culture e nella loro storia, agli ordinamenti sociali che sono privi di stato. Tradizionalmente, in un effetto di etnocentrismo in gran parte comune, l'antropologia politica si è limitata ad avere come oggetto di studio lo stato, concentrando le sue ricerche ai suoi processi di formazione, e storpiando così, secondo noi, una realtà umana molto più complessa. Non solo le organizzazioni sociali non statali sono state considerate una sorta di infanzia dell'umanità, ma normalmente sono state applicate ai soli gruppi che sono privi di stato, dimenticando che nelle nostre stesse società esistono un'infinità di istituzioni che strutturano la vita sociale senza ricorrere ai meccanismi dello stato, cosa che presuppone una latenza e una potenzialità che non possono essere trascurate.
Un'organizzazione sociale non statale non è per forza un gruppo tupí-guaraní o machiguenga nell'Amazzonia del XVII secolo, lo è anche una Confederazione anarcosindacalista in Spagna, una comunità contadina nelle montagne della Zomia asiatica o un gruppo parentale Bubi nell'isola di Bioko dei giorni d'oggi. E quindi serve, tanto per iniziare, per capire la realtà in un modo più olistico; per cambiare i nostri punti di vista su come è il nostro mondo.
Non dobbiamo sottovalutare queste cose soprattutto in un momento come questo, in cui vogliono farci credere che la realtà non è solo univoca e incontestabile, oggettivamente costruita, ma anche che un governo può farsi scudo dietro a essa per ipotecare il futuro della nazione.
Non è che la realtà non esiste, tutto il contrario: è che la realtà è più complessa e per affrontarla abbiamo bisogno di strumenti più seri del “senso comune” della nostra cultura politica.»

Cosa hanno capito o cosa volevate che capissero per i diversi ambiti: accademia, anarchia, eccetera?
«L'accademia, intesa come la costruzione della conoscenza attraverso i mezzi accademici, ha bisogno dell'anarchia. Diciamo che il punto chiave di questa frammentazione della conoscenza nello studio dei gruppi umani avviene, precisamente, perché siamo arrivati all'idea che la realtà è più complessa di quanto avevano ipotizzato le diverse scuole accademiche della prima metà del XX secolo, soprattutto nel caso della sinistra, molto condizionata dal discorso marxista.
Di fronte a questa critica a proposito dell'interpretazione dei gruppi umani, la conoscenza accademica ha intrapreso sostanzialmente due strade: da un lato c'è chi nega che sia successo qualcosa, e continuano quindi a rifarsi ai modelli esplicativi semplici; dall'altro c'è chi porta la “critica contestuale” al punto del narrativismo kantiano, il classico “tutto è valido” che impedisce qualsiasi costruzione generale di conoscenza. In realtà ci sono altre possibilità postmoderniste che ri-articolano l'interpretazione sociale, culturale e storica, assumendo le puntualizzazioni fondamentali di quella critica. Una delle più riuscite è quella che, fondandosi proprio sulle tradizioni intellettuali libertarie, situa l'individuo nel suo contesto culturale e dispone una “pratica” dialogica, rizomatica, tra questi due concetti.
Noi riteniamo invece che l'anarchismo, in generale, né può né deve essere estraneo alla conoscenza accademica; soprattutto per non perdere di vista la realtà e, con questa, la sua capacità di incidere in quello che viviamo o che vivremo.»

Dobbiamo sforzarci per farle trovare un suo spazio? E perché?
«Sì, assolutamente, per quello che dicevamo prima. In ogni caso sembra che stia già accadendo: a livello internazionale c'è un bel gruppo di autori che lavora su questa linea. Comunque, per tornare a quanto stavamo dicendo, ricorderei ora l'idea anarcosindacalista di portare la nostra forma di pensare nei luoghi in cui interagiamo. In questo senso è inevitabile che noi anarchici che ci dedichiamo allo studio dei gruppi umani dall'università affrontiamo il nostro lavoro con le sfumature della nostra posizione ideologica; non è poi così strano, né nuovo, né cattivo, né buono in termini assoluti. Semplicemente non ci sono stati troppi anarchici nelle università.»

Nel manifesto delle giornate vediamo persone che sembrano dei coloni maltrattare degli indigeni, con il congresso dei deputati come sfondo. Cosa volevate dire con questa immagine?
«Abbiamo voluto introdurre una piccola strizzatina d'occhio. Abbiamo estrapolato l'immagine da un'incisione di Theodore de Bry sulla conquista dell'America nel XVI secolo, e abbiamo eliminato il paesaggio per ubicare la scena di fronte al Congresso di Madrid. L'idea era esattamente quella di cui parlavamo, con le organizzazioni sociali non statali, un tipo di fenomeni umani ricorrenti. Come dicevamo, l'antropologia politica dell'assenza di stato ha finito per concentrarsi, forse per gli studi classici di Pierre Clastres, sulle società amerindie o su ogni altra società considerata “primitiva”; ma le cariche degli antisommossa del 25-S rispondono a una situazione che può essere spiegata attraverso meccanismi abbastanza simili, o almeno dentro quello stesso campo della conoscenza delle organizzazioni sociali che non ricorrono allo stato, che non fanno appello a un sistema di potere coercitivo come base della pace sociale.»

A quanto pare i contenuti delle giornate non sono stati solo di tipo libertario, o vicini all'anarchismo, ma si è anche discusso di sviluppo, di metodologia, ecc…
«Be', questo risponde anche un po' all'esigenza di sperimentare l'ampiezza dell'aggettivo “esplorativo”. Abbiamo suddiviso il laboratorio in tre tipi di tavoli di lavoro: da una parte i dibattiti, programmati con un ampio spazio dedicato alle domande; da un'altra i laboratori del pomeriggio, nei quali ci dividevamo tutti in gruppi più ridotti, di una decina di persone, per dibattere in base a una traccia di lavoro; e infine uno spazio finale di messa in comune, o di (in)conclusioni. La nostra intenzione era, da una parte, rompere la dinamica classica degli eventi accademici, in cui una persona parla agli altri e non c'è concretamente uno spazio per dibattere: se si trattava di esplorare il tema, avevamo bisogno che ciò avvenisse da uno scambio di opinioni. Dall'altra parte volevamo anche vedere un po' cosa succedeva, organizzare una sorta di “etnografia” del laboratorio in cui abbiamo potuto, forse a volte meno di quanto avremmo dovuto fare, riflettere sul comportamento che teniamo in queste situazioni. È stato molto interessante vedere le dinamiche che si sono generate nei diversi gruppi e nelle messe in comune; è sicuramente un approccio, una linea di lavoro, che crediamo che possa dare risultati molto buoni se continuiamo a percorrerla.»

Brasile, foresta tropicale, gruppo di indigeni

Un nuovo scenario

Si parla di un aumento o di un auge d'interesse per l'anarchismo, che si sta concretizzando nella crescente quantità di lavori accademici e non. Da cosa credete che dipenda?
«Alcuni anni fa, precisamente sulla rivista Rojo y negro, scriveva Fernández Paniagua, editore di Germinal, che l'anarchismo ha vinto la battaglia morale. In realtà, si potrebbe far risalire al periodo 1989-1994, rispettivamente con il collasso del blocco sovietico e con la nascita pubblica della guerriglia di stampo magonista Ezln; è il periodo del “ritorno del pendolo” socialista. Il socialismo autoritario, di stato, ha perduto tutte le sue battaglie in buona parte a causa della sua ostinazione su alcuni modelli interpretativi della realtà assolutamente rigidi. Diciamo che si è soliti affermare che il discorso marxista è sfasato; be', per noi è sfasato non tanto per le forme, non perché fa continuamente appello alla classe operaia e invita alla rivolta contro il potere borghese, ma per i contenuti, perché non ha assimilato la “critica contestuale”, la “pratica dialogica”, ecc. e ha ricostruito la sua comprensione della realtà su questi concetti. In questo senso l'anarchismo si trova in una posizione di vantaggio che non dovrebbe sprecare. Infine, dopo la crisi iniziata nel 2008, capiamo che si verifica un processo generalizzato di allontanamento tra la legittimità e la legalità; a questo ci riferiamo quando parliamo di crisi dello spazio politico. Ora, abbiamo una maggioranza della popolazione che inizia a dubitare molto seriamente della legittimità della legalità, e che né si sente né si può sentire identificata con il socialismo autoritario come alternativa; la cosa strana, pertanto, sarebbe stata che non si fosse nemmeno messa in pratica l'organizzazione assembleare nel 15-M. Detto questo, indubbiamente, ci si dipana un nuovo scenario, e a partire da questo momento capiamo che si tratta di collegare questa vittoria morale con una vittoria ideologica, una vittoria programmatica e una vittoria organica. Questa è un'altra storia, ma senza dubbio in tutto questo è indispensabile capire meglio i meccanismi dell'organizzazione sociale “esseri umani”.»

Eppure il 15-M ha perso molta forza...
«Sì e no. Ritengo che sia assolutamente necessario qui fare uno sforzo di precisione, e chiedersi esattamente quale realtà di quelle che si inglobano dentro alle allusioni più o meno diffuse rispetto al 15-M ha perso molta forza. Sicuramente i 15-M organici, come istituzioni, non hanno perso molta forza, ma moltissima; indubbiamente, questa perdita di forza credo che sia meno percepita, che sia meno inaspettata o trascendente ora rispetto a quanto è avvenuto nel periodo compreso tra il 15 maggio 2012 e i due o tre mesi immediatamente successivi. Mi spiego: quando prima dicevo che sarebbe stato strano se il 15-M non avesse tentato l'assemblearismo mi riferivo a che, nella congiuntura socio-culturale dell'ultimo decennio, era più o meno prevedibile che una esplosione di indignazione popolare si esprimesse in un rifiuto della politica istituzionale e in uno spirito “orizzontalista”, anti-autoritario, libertario, ecc.
Per me, pertanto, bisogna fare una grande distinzione nelle nostre analisi tra il 15-M come fenomeno sociale, circoscritto a un paio di mesi come non può essere altrimenti in questi momenti di contestazione sociale generalizzata e aperta, e il 15-M come istituzione sorta da questo fenomeno. Nel senso di fenomeno sociale, ovviamente la gente non è più in strada a migliaia, ma sì, si è aperta un nuovo scenario politico in cui sono obbligati a partecipare tutti gli agenti pubblici. E bisogna distinguerli proprio con l'obiettivo di concretizzare quello a cui ci riferivamo quando parlavamo di collegare la vittoria morale del rifiuto della politica istituzionale secondo un certo spirito libertario con una vittoria ideologica, programmatica e organica che cambi effettivamente la nostra situazione politica. Immagino che a partire da ora inizi il terreno delle opinioni; personalmente ritengo che noi anarchici organizzati dovremmo riflettere molto sulla questione dell'intervento sociale, e farci attenzione, in un momento in cui c'è sempre più gente che ci ascolta e che ci presta attenzione.»
Porto Seguro (Brasile), Indios Pataxós

Lo stato è, in qualcuna delle sue forme, un'alternativa?
«Certamente. Di fatto un'antropologia del non stato deve iniziare capendo lo stato, e lo stesso avviene con un'ideologia come l'anarchismo, anche se spesso ce lo dimentichiamo. In linea generale, lo stato è un sottoprodotto derivato dalla necessità di articolare socialmente gruppi umani più numerosi; di modo che prima sorge quella necessità demografica di integrazione, poi i meccanismi per gestirla, e infine la cattiva gestione o il fallimento delle risorse di sicurezza “democratica”, per dirlo in un modo, fanno sì che la “frattura sociale” che fino a quel momento era rimasta in stato fluido, si ossifichi. Una parte della popolazione s'impossessa del potere coercitivo e dei meccanismi di stabilizzazione sociale, della violenza legittima. In questo senso, non bisogna dimenticare che lo stato è efficace e, fino a un certo punto, auspicabile, e questo è ciò che fa sì che in un momento determinato il resto della popolazione semplicemente si astenga dall'opporsi attivamente allo stato; è molto probabile, perfino, che fino a un certo punto il passaggio verso questo tipo di organizzazione sia difficilmente percettibile fino a quando non ha preso molta forza.
Lo stato è essenzialmente una soluzione politica a dei bisogni concreti di integrazione, e in questo senso è funzionale; per questo sorge in molti momenti della storia, e sempre per questo scompare in molti altri. Un'altra questione è se c'è un'alternativa auspicabile, o se ci sono altre alternative.»

È possibile vivere senza stato?
«Certamente. La maggior parte dell'umanità nel nostro divenire storico ha vissuto senza stato e, aggiungerebbe Clastres, con tutte le ragioni del mondo, contro lo stato. Come dicevamo, lo stato è una soluzione politica a dei bisogni sociali determinati in gran parte dall'aumento della pressione demografica; in questi contesti noi esseri umani abbiamo bisogno di stabilizzare l'integrazione oltre alla nostra comunità immediata e generiamo risorse di concentrazione del potere. Il potere esiste in tutte le società umane, con o senza stato, e l'importante è vedere di quale tipo di potere si tratta; il problema è che nello stato si esercita un potere coercitivo che si sorregge in primo luogo sulla legittimità, ma infine sulla gestione della violenza.
La domanda, pertanto, sarebbe piuttosto in quali circostanze si può vivere senza stato. Questa è la vera questione, secondo me. L'anarchismo organizzato corre un enorme rischio se non parte da questa domanda, perché deve contestualizzare le risposte che diamo e far sì che non solo possano risultare effettive in qualche luogo, ma che siano anche serie e convincenti. Ad esempio, potremmo rispondere che un gruppo di cacciatori di una ventina o trentina di persone disperse in un territorio enorme e con un livello tecnologico basicamente paleolitico può vivere senza stato, come anche un villaggio di un centinaio di persone che praticano un'agricoltura di sussistenza e che sono permanentemente in guerra con il villaggio vicino. Ebbene, potremmo vivere tutti noi spagnoli come cacciatori o in eco-villaggi? Ovviamente no. Il nostro compito è pertanto costruire un'alternativa allo stato che sia allo stesso tempo valida per quello a cui è servito lo stato a suo tempo: stabilizzare l'integrazione di milioni di persone. Si tratta di porre la questione in tutta la sua ampiezza, e non di concentrarsi solo su alternative individuali o estrapolate dal contesto: correnti come il primitivismo, il movimento della decrescita, determinati ecologismi, eccetera, ovviano a fattori fondamentali dell'equazione sociale. È davvero paradossale e quasi preoccupante che istituzioni come le Confederazioni anarcosindacaliste non si siano pronunciante organicamente discutendo queste posizioni, quanto piuttosto appoggiandole, proprio quando l'assemblearismo confederale, l'organizzazione della società in assemblee di produttori e consumatori confederate, rappresenta, a nostro modo di vedere, probabilmente l'alternativa più sensata al problema della sostituzione dello stato senza tornare alle condizioni di vita dell'età del bronzo europea. È un dibattito aperto.»

A cosa ti riferisci quando dici che il primitivismo, la decrescita o determinati ecologismi ovviano a fattori fondamentali dell'equazione sociale? Sono posizioni che rivendicano temi molto coerenti...
«Forse la prima cosa per iniziare a rispondere è indicare che la coerenza discorsiva, la logica, non corrisponde necessariamente alla realtà. Uno può sbagliarsi ed essere perfettamente logico e coerente. Ad esempio, e limitandomi alla tua domanda, chiunque a cui piaccia la campagna e vada con una relativa frequenza in montagna sa perfettamente quale era il confine delle coltivazioni uno o due secoli fa, e pertanto, che in Spagna oggi c'è più bosco e terreno non coltivato di allora. Questo, in generale, è una manifestazione in più di un dato che si tende a ovviare in questi discorsi: siamo la cultura la cui tecnologia, per individuo, genera il minor impatto sul medio ambiente; ma siamo molti individui. Indipendentemente dal livello di vita, che è una costruzione culturale, ogni attività che pianifichi una decrescita tecnologica dovrebbe essere sufficientemente sincera da riconoscere che per il suo modello c'è troppa gente.
A oggi semplicemente non si può mantenere tutta la popolazione, ad esempio, di una città come Alicante, senza agricoltura industriale e senza un'integrazione economica a livello internazionale. Questo, ovviamente, non vuol dire che non ci sia un problema ecologico, ma semplicemente che abbiamo più possibilità di risolverlo completamente pianificando modelli di autogestione economica in cui, scomparso lo stato e le corporazioni economiche, siano le stesse assemblee di produttori e consumatori confederate a razionalizzare la produzione. Questo, inoltre, si collega a quello che dicevamo di un anarchismo di integrazione sociale, in cui il discorso non si percepisce come un'aggressione agli interessi della maggioranza della popolazione ma come un'alternativa reale, tangibile, per coordinare questi interessi. Ma questo è tuttora in corso di dibattito.»

Andrea Staid
andreastaid@gmail.com

traduzione di Arianna Fiore e Carmela Oliviero