rivista anarchica
anno 43 n. 383
ottobre 2013


potere e movimenti

La lotta di classe
dei ricchi contro i poveri

di Antonio Senta


La politica dell'austerità dagli anni settanta ai giorni nostri e le “disuguaglianze insostenibili”.


Loro fanno la lotta di classe...
Edoardo Sanguineti


A metà anni settanta Samuel P. Huntington, insieme a Michel Crozier e Joji Watanuki, pubblicano The crisis of democracy. Esso diventa il programma per tutti quegli organismi internazionali di governo più o meno formali che vanno dal Fondo monetario internazionale ai vari G7, G8, G10, G20, dal Gruppo Bilderberg alla Banca mondiale, dalla Commissione trilaterale alla Banca centrale europa e all'Unione Europea. Due anni più tardi, nel 1977, Franco Angeli ne stampa un'edizione italiana, con introduzione di Gianni Agnelli. L'obiettivo di questa pubblicazione è quello di individuare i modi migliori per garantire la “governabilità”. Di cosa si tratta? Secondo Huntington: “la governabilità di una democrazia dipende dal rapporto tra l'autorità delle sue istituzioni di governo e la forza delle sue istituzioni di opposizione” (La crisi della democrazia, 1977, p. 91). Nell'introduzione all'edizione italiana Agnelli chiarisce che il fine della governabilità è trasformare la conflittualità in cooperazione, dal momento che la democrazia è minacciata dalla “cultura antagonista” (Ivi, 1977, p. 23).

La stangata, ovvero “la politica dei sacrifici”

All'inizio degli anni settanta si chiude il ciclo espansivo della ricostruzione post bellica con la fine del sistema monetario di Bretton Woods prima (1971) e l'esplosione della crisi petrolifera poi (1973). In tutto l'occidente si moltiplicano fenomeni di stagnazione e recessione e aumenta progressivamente il tasso di disoccupazione. In Italia la crisi è più forte che altrove con un'inflazione intorno al venti-venticinque per cento, il tasso più alto tra tutte le economie occidentali.
Questa politica dell'austerità tende a contrastare le conquiste operaie dell'autunno caldo (1969) da parte di un movimento che raggiunge il proprio apice nella primavera del 1973 con l'occupazione di Mirafiori (L'organizzazione diretta degli operai dentro la crisi, in “Collegamenti per l'Organizzazione Diretta di Classe”, marzo 1977) e che ottiene aumenti salariali di quasi il 50 per cento del valore iniziale e una significativa riduzione dell'orario di lavoro (da 45 a 38 ore) in una prospettiva di piena occupazione. Tutte questioni interne a una lotta più generale che nei suoi settori più avanzati ha anche come obiettivi il salario egualitario, l'autonomia proletaria, la riappropriazione materiale, nonché la ricerca di un “diverso modello di sviluppo” in grado di mettere in discussione il paradigma del modo di produzione capitalistico. È un ciclo di lotte che comporta una significativa ridistribuzione della ricchezza prodotta e una parziale riduzione dei ruoli di potere risultato di quella “cultura antagonista”, che è la nemica giurata di Gianni Agnelli.
Contro questa conflittualità operaia e sociale e per garantire a sé la “governabilità” (la gestione esclusiva del potere) le classi dirigenti reagiscono in diverse maniere, in primo luogo con la repressione militare: omicidi mirati, decine di migliaia di imprigionati, stragi di stato. Noi sappiamo tutto della strategia dello stragismo: che fu orchestrata dalla Cia, che fu avallata dagli organismi internazionali di governo, che fu attuata dalla struttura Gladio (Stay Behind) in supporto ai servizi segreti (non deviati) italiani, per scoraggiare ipotesi riformiste e “di sinistra”. È quello che afferma anche ormai un Presidente onorario aggiunto della Suprema Corte di Cassazione (Ferdinando Imposimato il 15 gennaio 2013 durante la presentazione napoletana del suo libro La repubblica delle stragi impunite).
The crisis of democracy analizza altre tecniche di rafforzamento della “governabilità” che si affiancano all'azione manu militari, e di cui gli autori possono scrivere più liberamente: rafforzare il potere esecutivo, ridurre l'indipendenza dei mass media, liberarsi dall'“eccesso di democrazia” favorendo l'apatia e il disimpegno tra i governati (La crisi della democrazia, cit., pp. 108-109). Come scrive Agnelli senza tanti fronzoli, il grado di democrazia e quello di governabilità sono inversamente proporzionali tra loro. Più un sistema è democratico meno è governabile. Se questi sono i desiderata delle élite transnazionali di governo, dei gruppi multinazionali e finanziari, essi collimano non a caso con il famoso piano di rinascita democratica della P2 di Gelli: concentrazione dei media, stravolgimento di partiti e sindacati, esecutivo forte; proprio quello che è avvenuto e sta avvenendo in Italia, last but not least la trasformazione in fieri del sistema politico e istituzionale italiano in repubblica presidenziale (cfr. Nico Macce, Quasi settant'anni di quasi democrazia. Anzi, per nulla, in carmillaonline.com, 2 agosto 2013).
In Italia come altrove il programma di governo è oggi ancora quello tracciato a metà dagli settanta da Huntington e compagnia e il concetto della governabilità è apertamente assunto come programma di governo globale. La nota banca Jp Morgan l'ha messo nero su bianco senza reticenze in un suo report del 28 maggio 2013: le cause della crisi non sono economiche, ma politiche: “le costituzioni” riflettono “la forza politica che i partiti di sinistra hanno guadagnato dopo la sconfitta del fascismo”, basti pensare al “diritto di protestare se i cambiamenti sono sgraditi” o al riconoscimento della “tutela costituzionale dei lavoratori”, tutte garanzie oggi non più tollerabili (cfr. Luca Pisapia, Ricetta Jp Morgan per Europa integrata: liberarsi delle costituzioni antifasciste, in “Il Fatto Quotidiano”, 19 giugno 2013).

Una spirale di inuguaglianze

La questione dei diritti è centrale e proprio la costituzione materiale è l'oggetto della odierna lotta di classe dei ricchi contro i poveri. Ovviamente, nel 1975 come oggi, non si tratta di “crisi della democrazia”, ma di crisi di consenso e autorità delle élites (Domenico Moro, Club Bilderberg, gli uomini che comandano il mondo, Aliberti, p. 127). Per ristabilire tale autorità, per vincere la propria battaglia le élite internazionali di governo scatenano una reazione che trova attuazione nei programmi neoliberisti degli ultimi trentacinque anni: centralità del mercato, privatizzazioni, flessibilità del mondo del lavoro, all'interno di una politica di austerità varata in nome della lotta all'inflazione e che viene fatta accettare attraverso una politica di concertazione neocorporativa con i sindacati.
Ecco perché il parlamento italiano, alla pari di quelli di altri paesi europei come la Francia, la Spagna, la Grecia e il Portogallo, ha introdotto in un batter d'occhio nella costituzione il vincolo di ridurre il debito sovrano dall'attuale 130 per cento al 60 per cento sul pil, da raggiungersi attraverso un'ulteriore dismissione del patrimonio pubblico, ulteriori privatizzazioni, liberalizzazioni (dal mercato dei capitali al mercato del lavoro, alle “utility”: acqua, elettricità, trasporti) e tagli alla spesa.
Una dopo l'altra si susseguono misure che sottraggono quote sempre crescenti del prodotto sociale, misure che hanno già posto le basi per lo scoppio dell'ultima crisi nel 2007. È allora che gli stati sono intervenuti in maniera massiccia in soccorso del settore privato, causando così una repentina, e ulteriore, espansione del rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo. Fatto ciò, siamo entrati nel mezzo di un'offensiva del settore privato e statale insieme, in cui l'austerità ha l'effetto della distruzione progressiva dei servizi sociali e di riduzione della spesa pubblica (mai di quella militare) – alimentando una spirale di ineguaglianze. (Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Sabini, Le disuguaglianze insostenibili, in “La Repubblica”, 9 luglio 2013).

Un eccesso di democrazia?

Austerità significa infatti lotta di classe dei ricchi contro i poveri, una “redistribuzione al contrario” per cui banche, fondi di investimento, le grandi imprese, lo stato drenano verso l'alto redditi da lavoro e risparmi delle famiglie. Cosa significhi tutto ciò lo dicono i dati, in Italia crudi più che altrove: disoccupazione giovanile al 50 per cento, 6 milioni quattrocentomila tra disoccupati, “inoccupati” e “sottoccupati”, otto milioni di pensionati ricevono una pensione inferiore a mille euro al mese, due milioni non arrivano a 500 euro, quasi tre milioni e mezzo di lavoratori precari, il cui reddito medio è di 927 euro mensili per gli uomini e 759 euro per le donne. Il 10 per cento delle famiglie più ricche possiede quasi il 45 per cento della ricchezza totale, il 50 per cento delle famiglie più povere non più del 10 per cento (Sergio Segio, a cura di, Rapporto sui diritti globali. Il mondo al tempo dell'austerity, Ediesse, 2013). L'Italia è il secondo paese europeo, dietro al Regno Unito, con la maggiore diseguaglianza nella distribuzione dei redditi. Ma è questa una dinamica in linea con quella di molti altri paesi, Stati Uniti su tutti, se è vero che negli ultimi trenta anni l'1 per cento della popolazione statunitense ha triplicato la sua ricchezza (Exclusive Interview: Joseph Stiglitz Sees Bleak Future for America If We Don't Reverse Inequality, in alternet.org, 24 giugno 2012) e se è vero che percentuali simili di disoccupazione ci sono in Spagna, Grecia e Portogallo.
Questa lotta di classe dei ricchi contro i poveri è dispiegata per mezzo degli stati, il cui ruolo risulta fondamentale. Un errore di parte del movimento noglobal è stato quello di minimizzare il ruolo degli stati nazionali, spesso contrapponendo questi ultimi alle corporations o multinazionali, o comunque scomponendo il problema nel rispetto del mantenimento delle istituzioni, dello stato. Alcuni ripropongono ancora la stessa analisi sostituendo alle “multinazionali” i “mercati”, la “finanza”, la cui dittatura comporterebbe uno stato d'eccezione (sovranazionale) rispetto alla normalità dello stato di diritto (nazionale) (a es.: Ida Dominijanni, Nello stato d'eccezione, in “Il Manifesto”, 19 novembre 2011, p. 14; Andrea Fumagalli, Collettivo di UniNomade, Il diritto alla bancarotta come contropotere finanziario, in “Il Manifesto”, 1 settembre 2011, p. 15).
Gli stati nazionali mettono in opera e difendono, tramite il monopolio dell'uso della forza, agende stabilite in maniera concorde a livello globale da una aristocrazia internazionale di governo. Dagli anni settanta a oggi gli stati nazionali, ancora una volta in nome della “governabilità”, hanno rafforzato le proprie funzioni di gendarmi e detentori legittimi della forza, delegando il proprio potere su questioni quali il bilancio, il debito e il deficit pubblico a entità sovranazionali come l'Unione Europea. Hanno svolto un ruolo di assoluto protagonismo nello smantellamento del proprio welfare e nella distruzione dei diritti dei lavoratori, sono stati artefici di quelle misure necessarie a contrastare “l'eccesso di democrazia” e a dare vita a una vera Restaurazione.

Se anche Habermas dice che...

Il capitalismo, scrive Braudel ne La dinamica del capitalismo, trionfa quando si identifica con lo stato, quando è lo stato (La dinamica del capitalismo, Il Mulino, 1981, p. 76). Il suo trionfo oggi coincide con quella “accumulazione tramite spoliazione” individuata da David Harvey (La guerra perpetua. Analisi del nuovo imperialismo, Il Saggiatore, 2007), in cui il capitale non si limita a “sussumere” il lavoro, ma – come sostengono Toni Negri e Michael Hardt in Comune. Oltre il privato e il pubblico (Rizzoli, 2010, p. 147), assorbe la vita umana in tutti i suoi aspetti. Lo vediamo con i nostri occhi: il capitale da una parte mette a valore territori e risorse naturali, dall'altra assoggetta la produzione umana, dentro e fuori l'orario di lavoro, dentro e fuori l'impresa capitalista.
A fronte di tutto ciò non è un caso se il grande moderato della filosofia Jürgen Habermas scrive oggi che i mercati hanno esautorato di fatto il suffragio universale e giudica necessaria una legittimazione popolare di quanto sta avvenendo. Non deve stupire d'altra parte che coloro che fino a pochi anni fa si facevano paladini del piùù spietato neoliberismo, arrivando a teorizzare il capitalismo come acme e fine della storia, ora discettano della necessità di arginare le disuguaglianze prodotte dalla crisi. È il caso di Francis Fukuyama, già corifeo del trionfo capitalista con il suo La fine della storia e l'ultimo uomo, Rizzoli, 2003, che oggi scrive della ribellione di una nuova classe media globale che chiede democrazia, diritti e una politica diversa (The Middle-Class Revolution, online.wsj.com, 28 giugno 2013).

Antonio Senta

Questo è il primo di una serie di scritti di Antonio Senta dal titolo Devrim imdi (La rivoluzione è adesso). Nei prossimi numeri saranno analizzate le rivolte e i nuovi movimenti che si sono affacciati recentemente sulla scena mondiale.