rivista anarchica
anno 43 n. 383
ottobre 2013


rivolte

Cambiare il mondo
(senza prendere il potere)

di Andrea Papi


È difficile comprendere appieno e trarre insegnamenti dalle recenti rivolte che hanno attraversato e attraversano il mondo.
Un nostro collaboratore fornisce alcuni elementi di riflessione.


Le ultime rivolte (Iran, Turchia, Brasile, Egitto) danno l'idea di voler far esplodere gli stati in cui sono avvenute.
In Egitto in particolare la sollevazione popolare ha subito con tragica evidenza un giro di vite deflagrante, una vera mutazione oscurantista. L'immagine di un'illusoria “primavera araba” dei primi momenti, fin dalla destituzione di Mubarak circa due anni fa poi nelle recenti manifestazioni contro il premier eletto Morsi, era stata di una ribellione radicale contro il potere, percepita come una specie di rivolta laica, quasi libertaria, che sembrava suggerire un'aspirazione a una società liberata e non più sottomessa. Quando poi i militari hanno preso in mano le redini, la situazione si è trasfigurata in una tragicissima orgia sabbatica di potere e morte. Ogni maschera è caduta e tutto si è trasformato in una lotta all'ultimo sangue tra due obsolete forze reazionarie, esercito contro fratelli musulmani, per l'esercizio di uno spietato dominio gretto e sanguinario.
Ultimi “casi” in ordine di tempo di una diffusa ribellione globale che cova in ogni angolo della terra in attesa delle occasioni per poter deflagrare. Il mondo sembra aver sempre più voglia di rivoltarsi contro la condizione sociale ed esistenziale che nei millenni ha contribuito a mettere in auge. Anche se un'enorme quantità di persone appoggia ancora l'esistente e vi si riconosce, le condizioni generalizzate di vita sono di fatto sempre più inaccettabili, insopportabili e detestabili. Invariabilmente e spudoratamente sul pianeta terra tutto sta convergendo verso un aumento spropositato di ricchezze iperboliche per i privilegiati del “mondo dei ricchi”, a detrimento e in palese contrasto con l'immensa galassia di persone, progressivamente pauperizzate e sottomesse, che sulla propria pelle ne subisce potenza e accumulo. Si ha l'impressione di una completa impotenza e si aspetta che le rivolte spontanee in agguato sconquassino di volta in volta l'esistente plutocratico che ci sovrasta.
Senza voler figurare o propormi “facile profeta”, ritengo non azzardato presupporre che per molti anni ancora assisteremo all'insorgere di rivolte popolari, più o meno estese e più o meno intense, facilmente cruente e a grossa partecipazione di massa. L'esplosione ribelle sembra sempre più parte integrante di un sistema talmente ingiusto da essere in tendenza intrinsecamente sempre più ingiusto. La rivolta di massa appare ormai parte endemica insopprimibile del divenire della complessità in atto. Una specie di contrappeso: le masse in rivolta come contraltare endemico di bilanciamento nell'andamento delle cose, per un riequilibrio funzionale al persistere del dominio vigente.
Roberto Esposito (la Repubblica, 22 luglio 2013) vi vede un annullarsi del conflitto, una specie di sfogo collettivo globale che esprime una continua reversibilità caratterizzata da “indeterminazione politica”, che ogni volta si spegne perché inidoneo acostruire istituzioni stabili”. Per Esposito si tratta di sovversioni “costitutivamente fragili e contraddittorie, destinate a bruciare nella stessa fiammata che accendono. Ciò che adesso manca, rispetto agli anni sessanta e settanta”, prosegue, “è la dimensione collettiva, l'intensità progettuale, l'opzione ideologica… Più che a un'istanza costituente fanno pensare a un'istanza destituente, come se il futuro fosse risucchiato dal presente.”
Un'analisi veritiera che identifica la qualità di queste rivolte, ma di cui non condivido il giudizio perentorio che le liquida attraverso un filtro ideologico, che risulta chiaro dal paragone con gli anni sessanta e settanta. Il criterio di giudizio di Esposito sembra rifarsi a una presunta superiorità dell'ideologia perché darebbe, com'egli afferma, intensità progettuale. Ciò che dimentica, o non vuole vedere, è che è stata proprio la graniticità ideologica in passato a far scaturire progettualità nei migliori casi semplicemente sbagliate, nell'insieme delle esperienze del tutto disastrose. Sembra nostalgia per i progetti stabiliti a priori, secondo criteri ideologici appunto, intrinsecamente autoritari perché per loro natura richiedono di essere applicati/imposti sulla realtà che li deve sperimentare, non potendo quindi che generare irreparabili danni.

Un movimento molteplice

Personalmente vedo perciò con favore la presunta fragilità delle attuali ribellioni. Nei fatti ripudiano la logica dei modelli precostituiti che, essendo predeterminati e rigidi, quasi inevitabilmente si sgretolano più o meno velocemente nell'impatto con la realtà. La spinta spontanea di queste rivolte si pone al contrario all'interno di una dimensione euristica, di ricerca attraverso la sperimentazione. Non devono né vogliono rendere “prassi” una costruzione teorica a priori, perché innanzitutto non c'è più, fortunatamente, nessun “prefabbricato teorico” da edificare. Ci sono invece da rendere operanti dei valori, dei bisogni profondi sedimentatisi nel tempo, come la libertà (individuale e collettiva), la solidarietà, la condivisione sociale, la reciprocità, le decisioni comuni, il ripudio dei privilegi e dei poteri prevaricanti. Con grande spontaneità, fatica e umiltà si mettono perciò in piedi situazioni che, contrapponendosi in modo deciso ai poteri costituiti, si propongono di cominciare a rendere effettuali quei presupposti motivazionali che, senza inseguire nessun modello aprioristico, trovano realizzazione sperimentando e correggendo.
Lo si è visto per esempio con gli indignati, con Occupy Wall street, in Grecia durante le varie fasi della rivolta sociale. Sono anche affiorate nelle cosiddette “primavere arabe” nonostante i limiti notevoli ingenerati dalle condizioni di fortissima repressione.
Certamente, come sostiene Esposito, non hanno partorito nuove istituzioni, come invece successe con la rivoluzione francese che generò il parlamento democratico o durante la rivoluzione russa con la creazione dei soviet. Si ha l'impressione che oggi non le si voglia più neppure creare, dal momento che a suo tempo parlamento e soviet furono in breve cristallizzati divenendo i luoghi della nuova oppressione. Finalmente sembrano passati i tempi del “dover” creare nuove rigide istituzioni. In qualche modo, più o meno consapevole, forse si sta cominciando a imparare la lezione: le rivoluzioni che abbiamo alle spalle hanno dimostrato che quando si immobilizza istituendo si tende a cristallizzare forme di potere che in quanto tali tradiscono e travalicano senso e valori per cui erano sorte.
Le attuali rivolte, ognuna con proprie specifiche originalità, stanno mettendo in moto processi differenziati tendenti a generare cambiamenti radicali. L'insieme di queste esperienze sta dando vita a un movimento molteplice non ancora definito né definibile, che in potenza sta ricercando nuove modalità di realizzazioni dal basso. Per le ragioni sopraddette non vogliono creare nuove istituzioni permanenti, bensì luoghi di scambio, di sperimentazione, di confronto, di solidarietà senza riprodurre nuove forme di dominanza. Una tendenza rivoluzionaria completamente differente da quelle che abbiamo fin qui conosciuto. Come direbbe Holloway, si sta generalizzando una tensione che vorrebbe “cambiare il mondo senza prendere il potere”.
Forse stiamo vivendo un passaggio d'epoca. Assistiamo a un'inversione di flusso indotta dalla insopportabilità crescente nei confronti dei vigenti sistemi di potere, che nel suo insieme non ha ancora consapevolezza di sé e neppure sa bene quale nuova coerente visione del mondo è in grado di produrre. Spesso è contraddittoria e ingenua, ma comincia a sentire fortemente il bisogno di una metamorfosi sociale capace di esprimere tutta la propria intrinseca radicalità. Un flusso che spontaneamente rifiuta le chiusure identitarie, quindi intrinsecamente meticcio, non sessista, non razzista, non centralizzatore, cui non interessa definirsi o cristallizzarsi perché desidera respirare l'aria rigenerante dell'apertura e della libertà, dell'accoglienza, della reciproca solidarietà.
A tutti gli effetti un movimento potenziale, che con facilità arranca e fatica a esprimersi e riconoscersi, ma che nonostante tutto continua generosamente a mettersi sempre più in gioco. Purtroppo con facilità appare ancora invischiato e a tratti incapsulato in tendenze meramente contrappositive e spinte insurrezionaliste, indotte in particolare da frange militanti portatrici di tensioni para-ideologiche, la cui persistenza rischia di intrappolarne le potenzialità, perché ogni volta energie e lotte si trovano convogliate soprattutto in infinite inesauribili battaglie e battagline contro i poteri costituiti. Se non vorrà soccombere o estinguersi a poco a poco in un'estenuante lotta senza prospettive, prima o poi se ne dovrà liberare, per diventare finalmente consapevole di doversi e potersi dedicare innanzitutto alla costruzione e sperimentazione del nuovo alternativo capace di superare l'esistente, sempre inaccettabile e insopportabile, fino a soppiantarlo.

Né scontro militare né Palazzo d'Inverno

Sarebbe grave errore sottovalutare e subire questo problema perché non se ne riesce a capire la reale portata. L'elemento problematico non risiede tanto nello scontro o nei momenti insurrezionali in sé. Questi sono parte ineliminabile del patrimonio di lotta resistente contro i poteri e possono sempre succedere spontaneamente quando ci sono tensioni sociali. Diventa invece un problema che contamina le lotte quando la logica insurrezionale viene posta e vissuta come prevalente. Quando, in modo ideologico e aprioristico, l'insurrezione viene religiosamente elevata a unico mezzo per combattere, denigrando e delegittimando tutto il resto, sostenendo in modo dogmatico che soltanto con l'attacco insurrezionale si può abbattere il potere e cambiare definitivamente lo stato delle cose. Un insurrezionalismo vittima di un'astrazione teorica che pretenderebbe di trasformare un mezzo in fine unico da perseguire.
Una chiara incongruenza teorica, che non può che condurre a un'inconsistenza di prospettiva. Per esser coerenti ogni strumento e ogni mezzo dovrebbero essere visti e vagliati considerando la relatività insita in ogni scelta, che non può non tener conto delle contingenze.
Se nell'ottocento e nella prima parte del novecento poteva infatti avere un senso illudersi di abbattere il potere attraverso la “rivoluzione insurrezionale” (come veniva definita), perché era ancora identificabile un centro di comando oppressore e lo stato era veramente il luogo dell'acme del potere, di fronte alle trasformazioni di fondo che contraddistinguono il divenire delle forme e dei metodi vigenti del dominio questa prospettiva oggi perde di consistenza.
Attualmente c'è un insieme di sistemi in sinergia, a volte in concorrenza fra loro, per conquistare egemonie legate a situazioni specifiche. Non c'è più una struttura di classe sovrastante, in grado di esercitare il dominio su tutto, che decide la politica economica e impone le sue scelte. Al contrario è egemone una specie di oligarchia finanziaria, non assimilabile a nessuna struttura di classe, come si supponeva per la borghesia, ma a un magma fluido, anonimo e non strutturato, che si muove in continuazione tra le fluttuazioni finanziarie al di là della concretezza cartacea del denaro e che, senza comandare direttamente, s'impone influenzando ricattando e costringendo.
Tutta la mitologia e la narrazione tradizionale dell'immaginario rivoluzionario-insurrezionale non sono più pragmaticamente proponibili né possibili sostanzialmente per due motivi. Primo perché pone lo scontro militare come elemento privilegiato, pensato e vissuto come vero e proprio conflitto bellico, quando la guerra in tutto e per tutto è terreno favorevole al dominio, che l'ha creata la conosce perfettamente e l'aggiorna in continuazione. Secondo perché non c'è più nessun “Palazzo d'Inverno” da conquistare, nessun luogo di comando centrale o centro verticale da cui promana ogni potere e da cui dipende ogni autorità coattiva. Esiste viceversa un intreccio di poteri, tanti luoghi di comando con grande capacità d'influire e indurre, non assimilabile però a nessuna “crazia” autocratica cui tutto è demandato e da cui tutto dipende.
S'impone allora un cambiamento di prospettiva. Bisogna cominciare a pensare, oltre a sperimentare fino in fondo, che è possibile battere la fluidità attuale del dominio sottraendosi alla sua influenza, annullandone gli effetti con la costruzione determinata e inesorabile di una “società nella società” che sovverta l'esistente autogestendosi sempre di più.

Andrea Papi