rivista anarchica
anno 44 n. 387
marzo 2014


società

Partecipazione pubblica ed eguaglianza

di Marvi Maggio


Non si può parlare di partecipazione pubblica senza parlare di uguaglianza, di giustizia sociale e di libertà.
E la questione determinante è trovare metodi di decisione e dibattito capaci di coinvolgere chi solitamente non ha voce in capitolo.


La domanda e l'offerta di partecipazione pubblica nei processi decisionali relativi alle trasformazioni territoriali sono entrambe in crescita: la questione centrale è l'indagine su quali siano le condizioni per dare davvero voce alle persone e ai gruppi sociali, alle classi che sono escluse marginalizzate oppure ridotte a credere di partecipare mentre il loro punto di vista non conta perfino quando si tratta di decidere le trasformazioni dei territori in cui vivono o che attraversano. La questione è chi debba promuovere la partecipazione e secondo quali modalità, quando l'obiettivo è una maggiore giustizia sociale e ambientale.
La partecipazione pubblica nasconde in sé delle ambiguità. Quando è proposta dall'alto, per esempio dai governi locali, emerge forte il timore che sia di facciata, che serva per attutire i conflitti senza affrontarli e risolverli, che prenda posizione a favore del più forte. Quando nasce dal basso è più simile a un movimento sociale e a una azione politica che a un processo strutturato a cui i metodi e strumenti partecipativi ci stanno abituando.
Fra questi due estremi si situa una questione cruciale per qualsiasi movimento che voglia essere inclusivo e creda nella possibilità di generare ed esprimere intelligenza collettiva; per qualsiasi governo che voglia essere democratico, trasformativo e capace di lottare contro le tante ineguaglianze che connotano le nostre società, fra cui emerge quella di potere.
La questione cruciale è quella di trovare metodi di decisione e di dibattito capaci di dare spazio a tutti quelli che di spazio non ne hanno, e capace di far crescere la consapevolezza delle persone e la conoscenza dei processi di trasformazione territoriale: conoscere per cambiare la realtà, in una direzione di maggiore giustizia sociale ed ambientale.
Vale la pena quindi di ragionare di potere, di comunicazione, di mancanza o sperequazione di risorse, di rapporti sociali, di discriminazioni, di libertà, di diritti, di eguaglianza. E vale la pena di inventare e sperimentare, con mente libera e aperta, metodi e strumenti che facilitino la comunicazione e lo scambio. E che siano capaci di contrastare le sperequazioni di potere e le ineguaglianze. Ci troviamo a trattare di partecipazione pubblica perché manca e la dobbiamo attivare, perché non è prassi comune ma va ogni volta conquistata. E questo è un problema solo per le classi subalterne. I potenti, le classi al potere hanno sempre voce in capitolo, dispongono di lobby, hanno l'influenza che nasce dal disporre di tutte le risorse che rendono efficace e pesante il loro punto di vista. Per questo la partecipazione pubblica è un problema e una conquista per le classi, i soggetti e i gruppi che sono esclusi, a cui è sottratto o sminuito il potere decisionale.
Per questo la partecipazione pubblica è una questione di eguaglianza, perché chiama in causa le diseguaglianze e le vuole guardare in faccia, per demolirle pezzo per pezzo. Ovviamente si tratta di una lotta che non si gioca solo con i metodi partecipativi, ma con tutti i mezzi necessari.
Dobbiamo costruire nuovi rapporti sociali, nuovi modi di decidere, nuovi progetti, nuovi mondi. E dobbiamo farlo a partire da qui e ora: decidere insieme da subito in modo corretto, inclusivo, creativo, collettivo e comune è uno dei frammenti del nostro progetto di un mondo più giusto.

Quale partecipazione, di chi e per cosa?

Ma di quale partecipazione stiamo parlando e di chi, con quali mezzi e strumenti, con quali obiettivi e a partire da quali contesti politici, sociali e territoriali?
La risposta non può essere univoca perché esistono motivazioni, scopi, metodi divergenti e opposti che vanno proprio in direzioni differenti. Agli estremi, possono essere individuati due insiemi opposti di teorie e pratiche di partecipazione: quelle di “mantenimento del sistema”, che pongono in essere forme di interazione sociale finalizzate al mantenimento della società e della città esistenti e a una maggiore efficienza e consenso; e quelle di “trasformazione del sistema”, che comprendono le forme di coinvolgimento degli abitanti che puntano a modificare la distribuzione esistente del potere, della ricchezza e della felicità.
Queste due tipologie utilizzano la partecipazione per ragioni opposte. Le prime intendono rispondere a possibili o a esistenti fronti di opposizione e di conflitto, le seconde riconoscono che nelle nostre società gli interessi e le domande delle classi subalterne non sono rappresentati e vanno invece trovate delle risposte. Le prime vorranno decostruire il conflitto per ricomporlo a vantaggio delle classi al potere; le seconde vogliono contribuire a modificare la situazione esistente in una direzione di maggiore giustizia sociale e ambientale.
Questa dicotomia fra tipologie mostra tutta la complessità del tema e le poste in gioco in termini di democrazia reale e concreta e di giustizia sociale. Questa complessità determina la centralità del contesto sociale e politico, economico e territoriale nella comprensione dell'entità di cui stiamo parlando quando trattiamo la partecipazione pubblica. Non possiamo parlare di potere e rapporti di potere in astratto senza sapere in cosa si sostanziano in ogni specifico luogo. In altri termini, abbiamo bisogno di mediazione fra teorie e realtà.

Wupatki pueblo è un insediamento dei nativi americani
costruito dai Sinagua nel 1100 dC e abitato fino al 1225.
Si trova a Flagstaff, Arizona (USA) ed è un sito
archeologico di grande importanza.

Lo spazio circolare è lo spazio comunitario di autogoverno

Le ragioni della domanda e dell'offerta di partecipazione

Prima di tutto da cosa deriva la crescente domanda e offerta di partecipazione pubblica ai processi decisionali che riguardano le trasformazioni territoriali e urbane?
Una risposta riguarda il prevalere generalizzato delle logiche di rendita urbana e profitto immobiliare nel dare forma alle trasformazioni urbane, come se le altre logiche si fossero indebolite. John Friedmann parla di scontro fra razionalità economica e razionalità sociale e sembra che nelle nostre società proprio la razionalità sociale abbia perso forza e sostegno.
Il discorso sulla competizione fra le città, l'idea dell'imprenditorialismo urbano sul modello delle coalizioni di crescita americane sono diventate il discorso egemone delle élite del governo urbano. E nuovi movimenti sociali urbani, nuovi comitati e nuove proteste nascono proprio per opporsi ai progetti urbani pensati per promuovere l'immagine della città, dimenticando i bisogni legati alla vita quotidiana delle classi subalterne.
Sembra verificarsi una relazione fra il ruolo giocato dallo Stato e la lotta per il potere da parte di coalizioni di governo delle diverse città. Secondo Le Galès “la competizione fra città è espressione del declino della regolazione di Stato e del fatto che le città (nel senso delle coalizioni che le governano) stanno cercando di posizionarsi, per come meglio possono, nel contesto di questa competizione… e questo vale soprattutto per le città più importanti”.
Le coalizioni che governano le città lottano per conquistarsi un ruolo nel contesto della divisione internazionale dei compiti, utilizzando relazioni sociali e l'organizzazione della pianificazione del territorio; lottano per affermare la loro città come centro di consumo, accrescendone status e prestigio; lottano per entrare nella competizione perché le proprie città diventino sede di compagnie transnazionali, di uffici pubblici di prestigio, o di altre forme di investimento pubblico e privato: “la competizione ha a che fare con il controllo di risorse limitate: classi medie, consumatori e imprese. La competizione tra le città ha portato a una rapida reazione di imitazione/distinzione tra le autorità locali urbane. Le seguenti azioni, per esempio, hanno avuto inizio in molte città: grossi progetti, sviluppo di piani strategici, creazione di parchi scientifici, investimenti in eventi prestigiosi da un punto di vista culturale e in spettacoli, politiche di marketing, sistemi di trasporto pubblico più moderni (metro o tramvie), progetti di particolare rilievo firmati da architetti di fama internazionale, nuovi centri di uffici di alta tecnologia, nuove costruzioni pubbliche quali stazioni dei treni, centri di ricerca, teatri e sale da concerto, musei…”.
Questa omologazione che deriva dalla competizione è molto importante ai fini di un dibattito sulla questione della partecipazione pubblica perché è una delle ragioni implicite o esplicite, occulte o palesi, delle proteste da parte degli abitanti e della crescente domanda di partecipazione alle scelte relative alle trasformazioni urbane e territoriali. Le élite urbane decidono in base ai loro interessi e le ragioni degli esclusi dal mercato per questione di reddito (laddove è la retorica del lusso a predominare) o di valori (domanda di spazio pubblico e comune e di valori d'uso fuori, oltre e malgrado il mercato), non trovano espressione, a meno che non si ottenga il diritto “speciale” di partecipare.
Vi è poi una ragione che riguarda la politica. Nella letteratura nazionale e internazionale vengono discusse le ragioni che si ritengono alla base dell'emergere di una domanda e di una offerta di partecipazione che è in stretta relazione con lo stato della politica e dei partiti che la rappresentano.
Le ragioni possono essere tracciate attraverso le lettura di due traiettorie storiche: le competizioni elettorali fra coalizioni politiche che sono sempre più simili nei propositi e che non rappresentano interessi di classe contrapposti, ma il neoliberismo e il pensiero unico, in modo tale da lasciare una vasta compagine sociale priva di rappresentanza, dimostrata dall'astensionismo dilagante, e l'emergere con sempre maggiore chiarezza di una corruzione strutturale delle élite e delle classi dirigenti sempre più pervasiva, se possibile ancora più estesa di quella scoperta con tangentopoli nei primi anni '90, che restituisce un sistema di disuguaglianze e ingiustizie senza pari che emerge dai dati: su ricchezza e povertà, sull'estensione della evasione fiscale da parte dei più ricchi, sull'estensione dell'economia criminale, dove il confine fra legale e illegale è offuscato. La partecipazione pubblica in questo contesto è un tentativo istituzionale di recuperare terreno mentre tutto frana. E per i movimenti di base un modo per chiedere giustizia, non in astratto ma nelle sue varie concretizzazioni.

Lisbona, 2013. Centro sociale Espaço RDA: incontro dell'INURA
(Rete Internazionale per la Ricerca e l'Azione Urbana)

Dialogo e rapporti di forza

Gli strumenti e le tecniche partecipative possono essere collocate in due grandi classi.
Una prima classe comprende gli strumenti volti a favorire il dialogo, la creatività collettiva, nei casi estremi a creare comunità dove prima c'era divisione e conflitto, come descritto da Podziba. Questo tipo di tecniche affrontano la questione dei linguaggi, degli atteggiamenti, degli stili di argomentazione, della contrapposizione fra emotività e razionalità; propongono il dibattito in piccoli gruppi, mettono in rapporto il sapere esperto e il sapere contestuale, vogliono far emergere il sapere contestuale; ritengono di poter mettere fra parentesi i rapporti di potere operando opportunamente sul contesto del dialogo e della discussione (cfr. Habermas).
Una seconda classe comprende gli strumenti che affrontano i rapporti di forza, non tentando di metterli fra parentesi, ma cercando di far ottenere maggiore potere a chi ne ha meno, per equilibrare la situazione. Presuppongono di scoprire e rendere trasparenti gli elementi costitutivi e caratterizzanti del potere: la mancata leggibilità e l'oscurità dei processi può essere contrastata con la conoscenza, il re nudo ha meno prestigio; i network di relazione e di potere delle élite, vanno resi noti ed espliciti, mostrando i legami privilegiati fra specifiche imprese, politici, investitori e, spesso, troppo spesso, criminalità più o meno legale; l'accumulazione di ricchezza per pochi si contrasta rendendo trasparenti i conti economici che mostrano a vantaggio di chi avviene la distribuzione di profitti e rendite e più in generale la re-distribuzione di quanto viene collettivamente prodotto; individuazione di chi guadagna e chi perde, in termini economici, in termini ambientali, in termini di opportunità; accesso socialmente differenziato al sapere legale, pianificatorio, economico; accesso differenziato ai network; accesso differenziato all'amministrazione pubblica come risorsa. In sintesi il potere è fatto di disponibilità di risorse economiche, di prestigio, di accesso al processo decisionale, di potere di decisione, di accesso a network, accesso al sapere esperto, accesso ai centri decisionali amministrativi. La soluzione sta nell'offrire queste risorse a chi non le ha (cfr. Michel Foucault).
Nick Wates, autore di uno dei più noti e interessanti manuali di partecipazione intitolato Community Planning, individua quattro livelli di coinvolgimento della comunità: informazione (flusso di informazioni unidirezionali); consultazione (le autorità chiedono l'opinione della comunità); partnership (lavoro e processo decisionale condiviso); self help (controllo della comunità). Il rapporto è fra le autorità pubbliche e la comunità.
Non va dimenticato che molti strumenti e metodi di partecipazione non sono nati al chiuso di studi di professionisti o accademici o funzionari pubblici, ma nelle lotte sociali, nei movimenti sociali, in quelli che sono da sempre i produttori di ciò che è significativo, che conta, che cambia davvero lo stato delle cose. Molti degli strumenti partecipativi oggi utilizzati anche in campo istituzionale sono nati nelle lotte per la casa, per il diritto alla città, contro la costruzione di autostrade o di quartieri di lusso, di infrastrutture dannose. Nelle lotte sono nati il bilancio partecipativo brasiliano e la società autogestionaria degli zapatisti (EZLN) nel Chiapas, che tanto interesse hanno suscitato in tutto il mondo. L'autogoverno praticato dagli zapatisti può fornirci utile ispirazione per i nostri processi decisionali. E ci aiuta a chiarire anche il rapporto fra forma di governo e partecipazione pubblica: parliamo di partecipazione pubblica come supplemento della democrazia rappresentativa ma in realtà avremmo solo bisogno di un diverso tipo di (auto)governo, ben più democratico ed inclusivo di quelli attuali, che si definiscono democratici, ma non lo sono neppure formalmente.

Messico, 21 dicembre 2012. La marcia degli zapatisti

Partecipazione e giustizia sociale

Rimettere i processi decisionali nelle mani della collettività. E in primo luogo dei soggetti e gruppi che ne sono esclusi, dei bisogni e delle rivendicazioni che puntano alla produzione e riproduzione dei beni comuni, del valore d'uso contrapposto al valore di scambio, della razionalità sociale contrapposta a quella economica. Si tratta di un ribaltamento della situazione attuale che vede oggi il prevalere degli interessi e delle logiche del mercato finanziario e immobiliare e dei desiderata delle classi dominanti.
La partecipazione fa parte del bagaglio di molti movimenti urbani e sociali, ne è uno dei fondamenti: come si decide se non c'è un governo, uno stato, delle istituzioni ma liberi individui uniti da un progetto comune? Nuovi modi di operare e nuove istituzioni prendono forma nel concreto dell'azione. Eppure oggi sono molti i casi in cui le amministrazioni pubbliche mettono in atto processi partecipativi, spesso in collaborazione con aziende preposte allo scopo. Il loro obiettivo è nella maggior parte dei casi guadagnare popolarità e consenso, in un momento di crisi della (loro) politica, e attutire i conflitti territoriali senza tuttavia affrontarli e risolverli. In particolare il rischio è che nei conflitti queste stesse amministrazioni invece di scegliere di difendere i beni comuni scelgano di sostenere gli interessi economici, spesso significativamente immobiliari e finanziari, che promettono posti di lavoro, senza nemmeno offrirli davvero, in cambio della privatizzazione oppure della devastazione del territorio. Gli interventi che nascono dalla ricerca di profitto immobiliare e finanziario sono sempre più significativamente differenti da quelli che potrebbero rispondere ai bisogni sociali e culturali della maggioranza della popolazione. In un momento di crisi poi si tende a predisporre progetti finalizzati a rispondere alla domanda di lusso, a quelle classi che si stanno arricchendo proprio grazie, e non solo malgrado, la crisi.
La sfida è creare gli strumenti per rendere efficace la partecipazione delle classi subalterne.
Classi subalterne è un termine forse desueto ma che rappresenta lo stato in cui ci stanno riducendo. Non è un destino ineluttabile, ma vanno intraprese contromisure. Sono tanti i gruppi e i soggetti che ne fanno parte e non sono omogenei, ma molto differenziati. Nessuno può pensare a punti di vista comuni oppure bisogni comuni e speranze condivise. Ma di certo esiste uno stato dei fatti condiviso, sebbene vissuto in modi differenti e diversi: uno stato di deprivazione e di mancanza e riduzione dei diritti fondamentali, diritti umani e sociali. Un motivo in più per rivolgersi a chi si è posto i problemi dei conflitti, delle difficoltà di esprimere i propri pensieri, di comunicare e di discutere collettivamente sulle trasformazioni dei territori. Lo scopo è di porre le questioni e le condizioni perché la partecipazione pubblica si diffonda come modalità decisionale e migliori la sua inclusività e la capacità di trattare i conflitti in modo equo, ricordando che ci sono diritti inderogabili (autodeterminazione) e pretese inaccettabili (non si possono avere diritti su altri esseri umani).
Per favorire e facilitare le discussioni e le prese di decisione collettive, comuni e motivate, è necessario conoscere i problemi che ostacolano il lavoro comune, che impediscono la fiducia e quelli che provocano conflitto; per questo le ineguaglianze e le ingiustizie giocano un ruolo cruciale, perché caratterizzano e pesano sulle nostre società, sulle nostre vite quotidiane, sulle trasformazioni che incessantemente danno forma ai nostri luoghi di vita, quelli vicini e quelli lontani, quelli areali e quelli a rete: segregazioni, confini, esclusione, squilibri, espulsione, saccheggio dei beni comuni e loro privatizzazione. Quindi si tratta di andare verso decisioni condivise e trasparenti, fondate sui diritti: l'opposto di quelle a cui ci hanno abituato clientelismo e nepotismo, con i vantaggi occultati, le tangenti e i favori ottenuti dai potenti in cambio della cessione di beni e fondi pubblici che apparterrebbero a tutti noi.
Non si può parlare di partecipazione pubblica senza parlare di uguaglianza, di giustizia sociale e ambientale, di libertà, di felicità. Si tratta di decidere di sé e della propria vita per conto proprio e di decidere collettivamente di quel territorio, materiale e immateriale, reale e metaforico, che abbiamo in comune con tutti gli altri, dal locale al mondo intero. La partecipazione pubblica non deve essere ridotta a strumento di politica locale, perché si pone in modo sempre più pressante la necessità di scambio e confronto di livello internazionale, come ben avevano compreso i social forum lanciati all'inizio degli anni 2000 e prima di loro gli incontri internazionali proposti dagli zapatisti nel 1994. Esistono numerose sperimentazioni di interscambio che vanno in questo senso.
La partecipazione pubblica nella sua versione più valida e utile, è politica, nel suo significato migliore, e il suo soggetto deve essere tutta la collettività. Decidere è una questione troppo importante per lasciarla alle élite e alle istituzioni statali esistenti.

Marvi Maggio
(International Network for Urban Research and Action)

Bibliografia
Friedmann, John, (1987) Planning in the public Domain. From Knowledge to Action, Princeton University Press, Princeton, Ney Jersey, 1987.
Le Galès, Patrick, (2002), “Government e governante urbana nelle città europee: argomenti per la discussione”, Foedus, n.4.
Maggio, Marvi, (2005a), “Movimenti urbani a Firenze: una mappa sociale dello spazio conteso”, Archivio di Studi Urbani e Regionali, n.83, pagg.131-140.
Maggio, Marvi, (2005b), “Movimenti urbani e partecipazione”, Archivio di Studi Urbani e Regionali, n.82.
Wates, Nick, (2000), The Community Planning handbook. How people can shape their cities, towns & villages in any part of the world, Earthscan, London.
Podziba, Susan L., (1998), Social Capital Formation, Public-building and public mediation: the Chelsea Charter consensus process, An occasional paper of the Kettering Foundation, Publisher Edward J. Arnone.