rivista anarchica
anno 44 n. 388
aprile 2014


 


Utopie, comunità
e vita vera

Israele: storia di una contraddizione
Cosa possono avere in comune Israele e il sionismo, da una parte, l'anarchia con la sua “esagerata idea di libertà”, dall'altra, e una radicale richiesta di pace in un mondo sempre più in guerra? Il recente saggio di Donatella Di Cesare (Israele. Terra, ritorno, anarchia, Bollati Boringhieri, Torino 2014) riannoda in modo originale i fili a cui questi temi rimandano. Se sfogliamo l'indice notiamo che il libro, a sua volta, si articola in tre momenti: il primo ripercorre le dinamiche interne al movimento sionista, lungo le tappe significative della sua storia; nel secondo vediamo emergere i motivi di una originale sensibilità libertaria all'interno del pensiero ebraico moderno; l'ultimo propone una riflessione, quanto mai partecipata, sull'attualità della nozione di pace/shalom. Vediamoli più da vicino.
Che cosa si debba intendere per sionismo è oggi un buon esercizio didattico, anche presso il popolo di sinistra che spesso si dichiara, apertis verbis, antisionista senza sapere bene cosa significa tale espressione. Potremmo dire che il sionismo sta ad Israele, grosso modo, come il risorgimento sta all'Italia. Ma il paragone appare insufficiente. Nelle sue linee generali questa corrente è nata con l'obiettivo di edificare uno stato-nazione per il disperso e perseguitato popolo ebraico. Il testo mostra bene come si sia verificato uno slittamento, in primo luogo semantico, che partendo da Sion – nome che indica una collina di Gerusalemme e, per estensione, Gerusalemme stessa – giunge alla nozione, tutta politica, di ricondurre il popolo ebraico all'idea di nazione e infine – poiché, in omaggio alla modernità, non si dà nazione senza stato – alla prospettiva di un ordinamento statuale, con tanto di ordinamento giuridico, confini territoriali su cui esercitare il monopolio della violenza e così via. Tali slittamenti progressivi – pur partendo da antecedenti storici molto antichi, risalibili al profondo legame che unisce il popolo mosaico alla terra promessa – giungono all'idea di uno stato-nazione, rischiando di perdere lungo il cammino l'afflato originario, suscitando alla fine perplessità all'interno dello stesso ebraismo. Tutto ciò nel libro lo vediamo condensato nel “grande interrogativo”, esplicitato da Joseph Roth, se gli ebrei non fossero “qualcosa di più che una ‘nazione'” descrivibile secondo parametri giuridico-politici.
Il sionismo, quindi, è stato un movimento tutt'altro che granitico; al suo interno, ad esempio, operava la corrente del sionismo culturale a cui aderiva anche Martin Buber, il quale reputava riduttivo riportare il concetto di Sion all'idea di stato-nazione. Buber, lo sappiamo, si farà portavoce della costruzione non di uno stato israeliano, ma di una “comunità di comunità” che alla fine avrebbe vanificato ogni nozione di potere statuale (ricordiamo che Di Cesare ha anche curato la più recente edizione italiana di Sentieri in utopia di Buber: cfr. “A” 351, marzo 2010). Proprio oggi, mentre stiamo assistendo, per opera del capitale globale, al declino inesorabile degli stati-nazione (di cui si può ben affermare ciò che fino a ieri si diceva dei monarchi costituzionali: regnano ma non governano), la prospettiva buberiana appare meno fantasiosa di quanto i critici un tempo le imputavano. Assai meno fantasiosa di chi propugnava “l'evoluzione del socialismo dall'utopia alla scienza”, del “socialismo in un solo paese”, o di chi si ostinava – e si ostina tuttora – a parlare di un'“autonomia del politico”, di una classe sfruttata che decide di farsi stato (mentre, ahimè, la stessa forma-stato si va disfacendo di fronte ai poteri sovranazionali e il politico diviene una categoria ancillare rispetto al capitale finanziario).

Teocrazia anarchica
Soprattutto a Buber, e al suo amico e mentore Gustav Landauer, è infatti dedicato il capitolo centrale, su “comunità anarchica e potere planetario”. Con Buber la comunità prende definitivamente congedo dallo stato. Comunità dialogica, fondata sulla relazione io-tu, senza potere, dunque costitutivamente an-archica. E anarchica anche perché profondamente religiosa, “perché non esiste sfera politica all'infuori di quella teopolitica”. Ma qui, sia chiaro, siamo agli antipodi di Schmitt e della sua teologia politica, quando questi dichiara di aver trasferito il modello teologico cristiano al campo del diritto: il sovrano altro non sarebbe che una secolarizzazione del Dio biblico. Così come Dio crea il mondo ex nihilo, il sovrano crea dal nulla l'ordine giuridico (il “Dio onnipotente che è divenuto l'onnipotente legislatore”). Israele, dirà invece Buber, dovrà essere una teocrazia anarchica. Teo-crazia diretta, per nulla metaforica: il potere, la terra e tutto il resto sono di Dio e non degli uomini. Nessuno si può dichiarare re, sovrano o capo di qualcosa. Teo-crazia contro iero-crazia, vale a dire contro il potere divenuto monopolio di una casta sacerdotale che pretende di rappresentare la volontà divina.
L'ultima parte del volume è invece una riflessione, per nulla scontata, sul desiderio di pace in un mondo in guerra. È possibile, si chiede l'autrice, una pace non fondata sulla guerra e sugli eserciti, una pace fondata su sé stessa e non sul terrore e sulla minaccia? Partendo dal riconoscimento della letale relazione sempre esistita fra filosofia e guerra – da Eraclito (“la guerra è padre di tutte le cose”) fino ai moderni – Di Cesare giunge ad affermare, con Lévinas, che “della pace si può avere solo un'escatologia”, poiché la vera pace si situa non dopo, bensì prima, oltre e al di là di ogni logica di guerra. È la pace anarchica, non deducibile dalla guerra, non il risultato di calcoli o di compromessi; al contrario, è l'istante di una trasformazione completa, senza mediazioni, la cifra dell'avvento improvviso di un mondo assolutamente altro.

Vita vera e vita falsa
Alcuni dei temi trattati da Donatella Di Cesare possono rinviare a un piccolo libro di Judith Butler apparso la primavera scorsa (A chi spetta una buona vita?, Nottetempo, Roma 2013). Quali vite sono degne d'essere vissute e a chi spetta una buona vita, si domanda Butler? E, ribaltando la questione: quali morti meritano d'essere pianti e compianti, meritevoli di lutto? E ancora: “come condurre una vita buona in una vita cattiva?”. L'autrice si è posta questi interrogativi, fornendo alcune sollecitazioni, in occasione del conferimento del Premio Adorno (le sue domande provengono proprio da una frase dei Minima Moralia: “Non si dà vera vita nella falsa”), ricevuto nel 2012 a Francoforte e preceduto da accese polemiche per l'impegno della filosofa americana contro l'occupazione israeliana della Palestina.
L'autrice esemplifica il suo discorso citando le condizioni di chi vive in stato di guerra o in situazione di occupazione; di chi è recluso, in attesa di processo; dei precari, dei migranti, dei clandestini e dei profughi delle società postindustriali, vittime di un sistema che consolida, amplifica e amministra la disuguaglianza e la violenza, “forme diverse di morte sociale”. Implicito è il richiamo alla questione palestinese. La domanda sollevata da Adorno viene da Butler rovesciata e articolata sul piano biopolitico (luogo reale del conflitto contemporaneo), su quell'insieme di procedure, tecniche e logiche di governo della vita umana: “Se la resistenza equivale a mettere in atto i principi di democrazia per cui combatte, allora dev'essere plurale e incarnata nei corpi”.
Di Cesare nel suo saggio menziona Butler, pur non condividendo sempre le sue opinioni, come una filosofa che contribuisce a sviluppare una discussione, “né apologetica, né scontata”, su Israele. E, infatti, il secondo testo presente nel libriccino di Butler è dedicato proprio alla questione palestinese, in cui motiva le ragioni per cui un'ebrea (americana) come lei, regolarmente iscritta alla sinagoga, può dichiararsi, senza rinnegare la propria origine, contraria alla violenza dello stato israeliano e schierarsi in difesa del popolo palestinese.

Federico Battistutta



Gli oppositori?
In manicomio

“Per tenere a mente Carol Lobravico e Francesco Mastrogiovanni persone libere”. A queste due vittime delle violenze della psichiatria Marco Rossi dedica il suo ultimo libro Capaci di intendere e volere. La detenzione in manicomio degli oppositori al fascismo (edizioni Zero in Condotta, Milano 2013, pp. 96, Ä 10,00).
Del tema “psichiatria e fascismo” si sono occupati, negli anni, autorevoli scrittori, ricercatori, giornalisti che hanno analizzato sopratutto le relazioni intercorse fra le politiche razziste, eugenetiche e biopolitiche, messe in atto dal regime. In gran parte delle opere pubblicate fino a oggi si riscontra una minimizzazione del ruolo e della funzione nefasta che il manicomio e altre strutture sanitarie, ritenute civili, hanno svolto nella repressione del dissenso politico e sociale in Italia.
Marco Rossi, al contrario, ci fornisce, in questo rigoroso quanto meticoloso lavoro sugli archivi, i dati documentali e gli elementi necessari per una nuova riflessione sulla reale portata, non solo in termini statistici, della segregazione manicomiale degli oppositori politici nel ventennio fascista. L'autore ha analizzato i fascicoli del Casellario politico centrale di circa un centinaio di antifascisti, di alcuni “senza partito” e di “donne degeneri” e ha raccolto le tracce di vita di alcuni internati raggruppandole in “categorie” politiche: anarchici, comunisti, socialisti, repubblicani ecc.
Nella prefazione al libro, Luigi Balsamini sottolinea la necessità, da parte di tutti i poteri, di utilizzare la psichiatria là dove la detenzione comune non riesce a raggiungere il risultato sperato. La nota espressione di Lombroso: “I martiri sono venerati, dei matti si ride: ed un uomo ridicolo non è mai pericoloso”, ripresa da Balsamini, racchiude in sé il folle progetto che, purtroppo, è stato applicato a ovest come a est, di screditare le opposizioni politiche esibendole come devianti, irrazionali e quindi folli.
La conferma che la psichiatrizzazione di individui scomodi viene ancora oggi utilizzata associando ad essa comportamenti ritenuti violenti, la ritroviamo, a distanza di quasi settanta anni dalla Liberazione, nelle testimonianze degli operatori sanitari e di coloro che intervennero sulla spiaggia del villaggio turistico, dove Franco Mastrogiovanni trascorreva le ferie, per la nota mega-operazione di cattura in stile hollywoodiano.
Libri come questo servono, come si legge nella dedica, per “tenere a mente”, per non dimenticare. E allora è il caso di ricordare che, dopo l'ultima ascesa del governo Berlusconi, in poco meno di un anno, sono stati presentati ben cinque disegni di legge per la modifica della legge 180 del 13 maggio 1978, meglio conosciuta come legge Basaglia. Il più preoccupante è quello che porta la firma dello psichiatra e parlamentare Carlo Ciccioli (Pdl), ex-dirigente del Msi-Dn, che parla del contratto terapeutico vincolante per il proseguimento delle cure che ben si configura con la denominazione di “contratto di Ulisse”. Come vediamo c'è ancora chi sogna, nel terzo millennio, l'internamento a vita per motivi psichiatrici e la trasformazione di strutture sanitarie in carceri a gestione privatistica.
La speciale qualità di questo lavoro sta proprio nella sua capacità di stimolare il lettore alla riflessione sul passato, sul presente e a prepararci a non avere paura per il futuro, ma a essere consapevoli e a vigilare affinché tutto ciò non accada. Consiglio vivamente la lettura di questo libro con la speranza che in tanti lettori induca, come è avvenuto in me, una partecipazione emotiva straordinaria e un rinnovato impegno politico.

Angelo Pagliaro
angelopagliaro@hotmail.com



Un rendez vous catalano
tra amore e anarchia

Joan Isaac è senza dubbio una delle voci più intense della canzone d'autore catalana. In Italia lo si è conosciuto piuttosto recentemente, verso la fine degli anni novanta, per le sue partecipazioni al Premio Tenco e per l'amicizia che lo lega a Sergio Secondiano Sacchi. Ma il primo singolo di Joan Isaac, Rèquiem, è del 1973. E quasi fosse per festeggiare i quarant'anni di carriera di Joan Isaac è stata pubblicata questa ben documentata biografia (Joan Isaac. Bandera negra al cor, prologo di Joan Manuel Serrat, Editorial Milenio, Lleida 2013, pp. 256, € 21,00), opera del poeta e scrittore gaditano Luis García Gil, che già si era dedicato a raccontare le vite di altri referenti della canzone d'autore spagnola e internazionale come Joan Manuel Serrat, Javier Ruibal, Atahualpa Yupanqui e Jacques Brel.
Barcellona, febbraio 2013. Festival Cose di Amilcare.
Joan Isaac durante il concerto di Eugenio Finardi

Grazie a una ricerca appassionata ed appassionante, García Gil ricostruisce la vita e la traiettoria artistica di Joan Vilaplana i Comín, in arte Joan Isaac, dagli anni dell'infanzia a Esplugues, poco fuori Barcellona, fino al suo ultimo disco, Piano, piano, uscito nel 2012. E nel mezzo, oltre ad un'utilissima appendice con la discografia completa e con fotografie provenienti dall'archivio privato di Joan Isaac, c'è tutta la poesia, le emozioni, le lotte, i sogni, le delusioni, l'impegno di un cantautore controcorrente che García Gil definisce come un epigono della Nova Canço catalana. Secondo lo scrittore gaditano, per capire Joan Isaac è imprescindibile difatti conoscere quella straordinaria esperienza che rivoluzionò la canzone e la cultura catalana e i suoi compagni di viaggio. Artisti come Maria del Mar Bonet, Quico Pi de la Serra e Lluis Llach, tra gli altri. E anche una figura imprescindibile per quanto molto criticata dai puristi negli anni Settanta: Joan Manuel Serrat.
Ma, come spiega García Gil, per contestualizzare la raffinata poesia di Joan Isaac e la sua scelta di scrivere e cantare in catalano bisogna ritornare agli ultimi anni della dittatura franchista e alla lenta transizione alla democrazia. È in tutto questo che nasce una canzone che rimane ancora oggi un simbolo, A Margalida, dedicata alla compagna di Salvador Puig Antich, l'ultima persona ad essere giustiziata dal regime franchista con la barbara tecnica della garrota nel marzo del 1974. E proprio questo 2 di marzo, per ricordare Puig Antich ai quarant'anni esatti dal suo assassinio, Joan Isaac dedica uno spettacolo, organizzato insieme agli amici di Cose di Amilcare e del BarnaSants, intitolato non a caso Cançons d'amor i d'anarquia. Uno spettacolo che approderà anche a Sanremo il prossimo 3 maggio.
È questa capacità di unire amore e anarchia, ci spiega García Gil, la chiave per capire la poesia che si fa canzone di Joan Isaac, sia nel primo intenso decennio, segnato da dischi pregevoli come És tard (1975), Viure (1977) e Barcelona, ciutat gris (1980), sia negli ultimi quindici anni – dopo una lunga pausa tra il 1985 e il 1998 in cui il cantautore di Esplugues si è ritirato dalle scene e si è dedicato alla professione di farmacista – con dischi superbi come Joies robades (2002), Duets (2007) e Auteclàssic. Joan Isaac & Luis Eduardo Aute (2009). Dischi dove un Joan Isaac maturo intervalla con garbo ed esperienza nuove canzoni con versioni in catalano di classici in altre lingue, tra cui è doveroso ricordare lo spagnolo Aute e i nostri Roberto Vecchioni e Paolo Conte.
Un rendez vous, quello tra amore e anarchia ed un legame, quello con la cultura e la canzone italiana, che continuerà anche nei prossimi anni come il nuovo disco che uscirà a breve, Vuit joies italianes i altres maravelles, con versioni in catalano di Capossela, Dalla, Battiato, Giorgio Conte e De Gregori, tra gli altri, fa presagire.
Un bel libro, insomma, questo di García Gil, la cui lettura è consigliata a chi si vuole avvicinare alla canzone d'autore catalana e, più concretamente, alla poesia/canzone di Joan Isaac.

Steven Forti



Documentari/
(r)esistenze cilene

C'è la terra, ma non c'è l'acqua. Cosa può fare una persona in quel posto, senza acqua? Serve l'acqua per lavorare (...) Come si fa a non sentirsi male per tutto questo?
Voi non vi sentite male?”
Berta, donna mapuche.

Già da diversi anni capita di sentire la sentenza: “Le guerre del futuro verranno combattute per l'acqua”. Se fino a tempi relativamente recenti una guerra per l'acqua sarebbe sembrata tanto assurda quanto una guerra per l'aria (in stile Spaceballs), oggi a ben vedere ci si può accorgere che quelle assurde guerre sono già iniziate.
Il caso della Patagonia cilena non è l'unico, ma forse il più eclatante. A combattere questa guerra non ci sono due eserciti contrapposti ma multinazionali da una parte, e villaggi, comitati, semplici cittadini dall'altra. Lo Stato cileno, nelle vesti di politici corrotti e carabineros, fa da arbitro cercando di rendere ancora più impari il conflitto, difendendo con la legge l'arroganza delle multinazionali e reprimendo con la violenza la triste rabbia del popolo.
Con il documentario Lucciole per lanterne (Italia 2013, 42 minuti), Stefano e Mario Martone raccontano con poetica lucidità questa “guerra” che si sta combattendo in Cile, in cui anche l'Italia (purtroppo) gioca un suo ruolo. Infatti è la “nostra” Enel (società al 33% di partecipazione pubblica) a controllare il gruppo Endesa Chile, responsabile del progetto HydroAysén. Un folle progetto che prevede la costruzione di ben cinque mega-dighe nella Patagonia cilena, per produrre energia elettrica, portarla nelle zone industriali di Santiago, e venderla. Tutto ciò per il solo scopo di ricavarne profitto.
A far da sfondo al documentario vi è anche il “nostro” Pier Paolo Pasolini, non solo per la citazione iniziale (“Io, ancorché multinazionale, darei l'intera Montedison per una lucciola”), ma soprattutto per la fondamentale distinzione tra sviluppo e progresso fatta da Pasolini. Perché, come suggerisce il finale del documentario, la soluzione per sconfiggere un assurdo modello di sviluppo non arriverà dai meeting sullo sviluppo sostenibile che si tengono tra i grattacieli delle megalopoli contemporanee, ma potrà arrivare soltanto dalle persone che combattono ogni giorno per “proteggere le foreste, le montagne, i fiumi; perché sanno che le foreste, le montagne e i fiumi proteggono loro”.
Giustamente uno spazio importante del documentario viene riservato ai volti dei mapuche, il popolo originario della Patagonia, “custodi del nostro passato” ma anche “guide per il nostro futuro”, perché non ci sarà mai né acqua né energia a sufficienza finché il mondo non si guadagnerà un nuovo “spazio filosofico” che contenga idee di progresso, e non di sviluppo.
Un documentario girato dall'altra parte del mondo ma che ci tocca personalmente, non solo per il coinvolgimento di Enel, non solo perché di privatizzazioni se ne parla molto anche da noi, ma soprattutto perché se queste “guerre” non ci toccano gli scontri saranno sempre più impari. Il senso di tristezza che trasmette il documentario è lo stesso senso di tristezza che sente il nostro pianeta difronte a questi dolorosi e inumani mega-progetti; ma questo senso di tristezza è anche un buon punto di ritrovo da cui possiamo muoverci tutti insieme per costruire non più delle dighe ma uno “spazio filosofico” che contenga una nuova “idea di felicità e di appagamento”. Questo non sarà possibile senza riconoscere l'importanza delle moltitudini di piccoli “spazi fisici” che vengono costruiti ogni giorno dalle persone che sanno di non potere (e non volere) vivere senza l'acqua limpida dei loro fiumi.

Michele Salsi



Dalle Ande
agli Appennini

Pasaporte n° 00031, Milan 2 de mayo de 1978. Firma del titular: Vicente Taquias V. È questo il passaporto cileno, con la “elle” della malasorte stampata sopra, di Vicente Taquias Vargas, Urbano per i compagni. Un passaporto marchiato, per sovversivi indesiderati. Segno distintivo della strategia dell'Operazione Condor per l'individuazione, cattura, eliminazione degli oppositori di Pinochet all'estero. Nella lettera “L” tracciata con il pennarello rosso, il destino già segnato di molti desaparecidos.
L'autore Alessandro Alessandria, nel suo contributo (Dal Cile all'Italia. Cinquant'anni di militanza internazionalista, Sensibili alle foglie, 2013, pp. 304, euro 18,00), ricostruisce la vicenda personale, intensa, umana e politica di Urbano, ma anche quella collettiva e sofferta del popolo cileno. Attraverso documenti e fonti orali offre l'opportunità di accostarsi alla storia non solo del Cile. Una storia che ci riguarda, divulgata da un'appassionata prospettiva non ufficiale.
Urbano, cileno di Santiago, classe 1945. Uno tra le migliaia di esuli ancora oggi sparsi per il mondo, arriva in Italia dopo il golpe dell'11 settembre 1973. Il padre calzolaio e anarchico. Fondatore e dirigente di un'organizzazione sindacale dei lavoratori del legno, durante la dittatura di Videla verrà iscritto nell'elenco nero e perderà il lavoro in fabbrica. “Mio padre si portava dietro, con sé, due scatoloni enormi, due bauli che erano pieni di libri. Pieni di libri! Libri sociali, No?” La morte del padre, avvenuta nel '79, segnerà per Urbano la perdita di un importante punto di riferimento, ideale e affettivo.
La madre un'attivista contro la “falange” fascista, militante, rivoluzionaria. Agli inizi degli anni Cinquanta, andranno a vivere in un'immensa baraccopoli di “mattoni fatti da noi con la paglia”, la Legua Nueva, un affollato quartiere operaio, di famiglie numerose e di confinati. Tutti si portavano dietro storie di militanza. Prenderà presto forma un vivace laboratorio di politica dal basso, vitale per la sua formazione che influenzerà l'agire nelle battaglie future, anche quelle lontano dal Cile. Lì c'erano i suoi veri maestri, i saggi del quartiere, “quelli che riuscivano a spiegarti le cose”.
In casa aiuta il padre a lavorare su commissione, insieme agli altri fratelli, nove vivi. Dopo la scuola, tutti intorno a un banco a fare le scarpe, ascoltare l'unica vecchia radio che informava sui fatti del Cile, e le riunioni clandestine dei dirigenti e militanti sindacali. Così fin “da piccoli abbiamo dovuto cercare di capire e spiare agli angoli delle strade che non arrivasse la polizia”. Ma senza mezzi non era possibile studiare. Urbano si ferma alla quarta elementare. Solo anni dopo, in Italia conseguirà la maturità artistica.
A dodici anni in fabbrica, presto diventa un dirigente del sindacato di base dei lavoratori del cuoio fondato dal padre. Conoscerà il valore della solidarietà nel sostegno alle lotte dei baraccati: “A volte perdevi lo sciopero perché ti prendevano per fame”. Suscita tenerezza la determinazione di quel ragazzetto smilzo di forse quindici anni già impegnato nella lotta per l'occupazione della terra: “L'avevamo disegnato nella nostra mente, sui fogli e quando si riusciva a rimanere, e di solito ci riuscivamo a rimanere, si tracciava il terreno dove si sarebbero fatte le scuole, l'ospedale, il campo sportivo (...) sono nati così i quartieri a Santiago”. Seguiranno altre lotte per l'elettricità, l'occupazione delle corriere per aumentare il numero delle fermate, allungare il percorso di due o tre chilometri, e poter andare a lavorare.
In seguito al golpe, Urbano racconta l'arresto a causa della sua militanza politica e l'internamento nello stadio nazionale insieme a migliaia di persone. Quindici giorni di bastonate, torture con scosse trasmesse da fili elettrici. Rilasciato, se ne guarderà bene dal passare a mettere la sua firma presso una caserma di polizia. Scampa così alla deportazione in campi di concentramento. I carabineros invece spareranno al fratello, freddandolo mentre aspettava l'autobus.
Vicende temerarie lo catapultano dall'altra parte del mondo. Approdato in Italia con due figlie e la moglie ancora in attesa, la meta dell'esilio sarà Massa Carrara. La mitica Carrara dei racconti del padre e dei compagni più anziani. La Carrara anarchica, antifascista e poi partigiana. Per tutti sarà Urbano, fedele al nome di battaglia in Cile. Espressione di intima volontà di militanza futura, anche in terra straniera. Ai piedi delle Apuane, che forse sentiva un po' come un prolungamento della sua terra, trova un terreno fertile per continuare la sua vocazione. Per i cani sciolti come Urbano, esuli dissidenti e sospettati non sarà facile ottenere l'asilo politico e il diritto a un libretto di lavoro.
Prima occupazione: addetto alle pulizie in un campeggio. Il proprietario è un ex comandante partigiano della Garibaldi. Inizia ad appassionarsi alla Resistenza italiana e alla situazione politica. Poi un lavoro nel cantiere navale “Apuania”. Diventa un saldatore specializzato. Dopo il fallimento degli scioperi di Mirafiori, quando decide di licenziarsi dirà: “Potevo andare dove volevo.(...) non dovevo chiedere un posto di lavoro né a partiti, né a sindacati o al collocamento. Il mestiere me lo ero creato così come avevo fatto in Cile, osservando e praticando”.
Nel '76 darà vita al Comitato dei lavoratori cileni in esilio. L'attività di sostegno alla peculiare resistenza popolare cilena viene ribadita insieme ai principi internazionalisti di autonomia politica, per un'autentica democrazia popolare. Autogestione, azione diretta, controllo dal basso, auto-conquista delle condizioni minime di esistenza. Solo così “si può dare al termine libertario tutta la ricchezza dei suoi significati; con la resistenza popolare in Cile cresce anche un modo nuovo di essere libertari”. Sarà il contributo che Urbano trasferirà pure nell'esilio.
Non si riesce a pensare Urbano disgiunto dalla passione per la lotta politica e l'azione. Il libertario audace, l'interventista energico, quando nel 1988 una nube tossica fuoriesce dallo stabilimento della Montedison, accorre impavido e insieme ai suoi compagni dà l'avvio alla mobilitazione di cavatori, operai dei cantieri navali e tanti giovani: “C'era troppa gente per una città così piccola come Massa”. Per quarantacinque giorni, Comune, ferrovie e il palazzo dell'Associazione degli industriali verranno occupati. Appoggerà altresì la popolazione della Valle Bormida contro l'inquinamento chimico dell'Acna di Cengio.
Mai sopito, il legame viscerale con la sua terra e la sua gente si intensifica intorno alla metà degli anni Ottanta, quando il Comitato ristabilisce i contatti con i barrios, i quartieri popolari di Santiago: “Non era ammissibile che mentre in Cile si stava massacrando il popolo, noi non facessimo nulla”. Chi ha conosciuto Urbano lo ricorda girare per la Toscana a denunciare la violenza e la repressione del regime di Pinochet e raccogliere aiuti a favore del popolo cileno. Non mancheranno fondi per comprare macchine da cucire per le donne. È noto l'appoggio al Comitato da parte delle cooperative dei lavoratori portuali di Carrara, in nome della solidarietà al popolo cileno che faticava a racimolare cibo o altri prodotti da scambiare. Sequestrate nel porto, per due mesi, tre navi con bandiera cilena cariche di derrate alimentari.
Le lotte di Urbano per il popolo cileno si intersecano, solidarizzano e puntano i riflettori su un'Italia che non conosce ancora la cultura dell'accoglienza. Alla fine degli anni Ottanta, l'internazionalista combattivo affianca gli immigrati nelle loro battaglie. Sarà il primo a portarli in piazza, ad Alessandria, in una manifestazione per soli stranieri. Il saggio maestro cileno entra in conflitto con l'ambiente sindacale: “Noi non è che facessimo assistenza agli immigrati. Noi gli insegnavamo come dovevano fare per acquisire i propri diritti senza andare dal funzionario dell'assistenza del sindacato o del volontariato, ma imparare da soli. Come avevamo insegnato agli operai in Cile, no? Usavamo la stessa pratica, la stessa politica”.
Lucida l'analisi sull'impossibilità per il volontariato di risolvere i problemi, ne rallenterebbe addirittura la presa di coscienza: “Se hai fame, ti va bene che qualcuno ti dia un piatto di minestra, ma la soluzione di tutti i problemi non sta né nella coperta né nella minestra, perché domani avrai ancora freddo e ancora fame (...) perché la propria liberazione non può essere delegata a nessuno e nessuno che non sia protagonista della propria liberazione riuscirà a diventare effettivamente libero”. Sostegno e solidarietà anche ai profughi della ex Jugoslavia e alle minoranze etniche e sociali oggetto di atteggiamenti razzistici e discriminatori, come la comunità rom accampata lungo il Lavello vicino a una discarica abusiva inquinata dagli scarichi della Montedison.
Urbano è il primo cileno a presentare presso un tribunale italiano una denuncia contro l'ex generale Pinochet Augusto Ugarte, per i reati di omicidio, tortura, lesioni gravissime, sequestro di persona. La risposta: minacce di morte. Sarà un brindisi amaro, quando alla morte dell'ex dittatore, Urbano stapperà la bottiglia regalatagli dal fratello e rimasta più di vent'anni nel sottoscala. Un'euforia spezzata perché Pinochet non essendo mai stato processato morirà da innocente. Urbano porterà avanti anche una battaglia personale per far valere il suo legale diritto alla cittadinanza. Pur avendone i requisiti, gli viene negata per motivi ostativi fondati su calunnie, insinuazioni in un clima di caccia all'anarchico pericoloso, sospettato di aver avuto contatti con “individui seguaci della lotta armata”. Perquisito nella sua abitazione durante la sua assenza per cercare documentazione ritenuta sospetta. Intimidazioni per aver appoggiato le battaglie ambientaliste. Accusato da certa stampa di fomentare riunioni di anarchici insurrezionalisti in occasione del primo anniversario del G8 a Genova. Invece l'incontro incriminato serviva per raccogliere fondi per il giornale anarchico “Umanità Nova”. Diventa un caso politico e giuridico nazionale. La rivista “A”, che anche in passato aveva dedicato spazio alle vicende di Urbano, ne parlerà a più riprese. Se ne occuperà pure la stampa moderata con articoli polemici contro le istituzioni. Essere anarchico può precludere il diritto alla cittadinanza. L'anarchico cileno la otterrà solo nel 2007.
Urbano ha maturato una disposizione naturale all'immedesimazione umana di chi condivide la sorte di essere uno straniero del sud del mondo. Oggi, il militante internazionalista insieme alla sorella Ana, esiliata da anni a Londra, sostiene il progetto Ecomemoria, un albero per ogni desaparecido o assassinato dalla dittatura di Pinochet. Memoria storica ed ecologica anche in appoggio solidale alla resistenza dei mapuche, nativi americani che difendono la loro terra sacra dall'ecocidio e dagli espropri delle multinazionali. Confesserà in un'intervista: “Il Cile è il luogo della mia giovinezza, della lotta della prima parte della mia vita. Oggi, dopo 28 anni di vita da esiliato, il mio terreno di lotta, da anarchico e internazionalista è qui dove vivo, dove la 'democrazia reale' non si mostra meno dura verso chi le si oppone, cercando di costruire una società libera e solidale”.

Claudia Piccinelli