rivista anarchica
anno 44 n. 389
maggio 2014


pedagogia

Il vento sulla pista

di Gianni Milano


Da un ex maestro piemontese, proposte e riflessioni per un approccio pedagogico alternativo, antidogmatico e antiautoritario: una tribù, delle storie e una strada da percorrere...


Poiché soli si nasce ma molti si diventa è importante che ci si metta in strada quanto prima, con un buon bastone da viaggio e una guida. La vita, infatti, non è meccanica evoluzione, ma rivoluzione continua, un permanente uscire ed entrare in situazioni e consapevolezze diverse. “In qualche punto lungo il tragitto mi sarebbe stata donata la perla”, ricorda Jack Kerouac. Per questo è inevitabile che si abbandoni la condizione di dipendenza per conquistare l'autonomia, che è consapevolezza, capacità di scelta, creatività. La 'quête' (il viaggio iniziatico) dei protagonisti nelle fiabe antiche non è in alcun modo rinviabile. Nel nostro destino è scritto che dobbiamo scoprire chi veramente siamo, al di là e al di fuori del burocratico nome e cognome che ci sigla all'anagrafe. La certezza è che occorre cambiare per poter cambiare. Poi tutto è alla vista.

Da 'figlio di' a compagno di viaggio...

Spontaneamente i bambini s'avviano alla ricognizione del mondo di cui sono parte: ampio, complesso, multidimensionale. Il loro approccio è caratterizzato dalle braccia tese, fidenti, dalle mani che mirano ad afferrare. La realtà viene letta tramite l'inglobamento, come cibo, come anima. A nessun piccolo passa per la testa l'idea che ciò che lo circonda sia 'altro'. Dovrà sentirsi solo, balbettante tentativi di dialogo, prima di scoprire la 'relazione', il reciproco concedersi. A quel punto, però, prevarrà la percezione di sé quale ordinatore del cosmo, si sentirà novello Adamo intento a codificare la realtà, a farla vivere attraverso i nomi che le imporrà. Come Nembrod, sarà preso dall'euforia, costruirà la sua torre, l'Io concentrato su se stesso, sulle sue logiche: e si allontanerà dalla vera comprensione. La crisi, benefica, lo coglierà quando si accorgerà di non riuscire più a comunicare, come avvenne, giustappunto, sulla Torre di Babele. Dovrà cercare nuovi percorsi, fiutare nuove tracce, ricorrere a nuovi maestri. Inizierà la tappa della discesa tra le creature, il pellegrinaggio nella 'selva oscura', al fine d'essere accolto tra i molti, in pace e in armonia. Riceverà la perla di cui parlava Kerouac, vedrà il Campo della Stella di S. Giacomo in Galizia, oppure percepirà l'estasiante 'mistero' della vita, che non tollera catalogazioni, imbrogli concettuali, dogmatiche certezze.
Perciò i bambini escono di casa e vanno. A volte si sentono non accolti dalla famiglia, un di troppo capitato tra capo e collo, come avvenne a Pollicino; in altre occasioni seguono un richiamo oscuro, che i genitori non odono, perché troppo irrigiditi in ruoli e bisogni, come successe ai piccoli che un Flautista condusse lontano. Gibran ricorda che “i vostri figli non sono i vostri figli... sono i figli e le figlie della fame che in se stessa ha la vita”. A quale scopo, allora, operare una sorta di cannibalismo affettivo, bloccando il naturale e legittimo 'istinto' alla trasformazione, all'incontro con le creature, i luoghi, le emozioni, le storie, le immagini, che compongono l'esistenza? Crescere è anche una 'missione', l'imperativo morale di 'divenire ciò che si è'. Perciò se veramente ci sentiamo tutori dei nostri ragazzi, trasformiamoci in compagni di viaggio, apprendiamo i linguaggi, scopriamo la reciprocità, stupiamoci di stupire.

Superiamo le solitudini associate...

La società si accorge dei bambini quando entrano a far parte dell'Istituzione.
Sovente l'ingresso avviene ai tre anni di età, onde 'socializzare', si dice, ma, in effetti, per essere plasmati secondo le regole che gli adulti (educatori, politici, filosofi) ritengono congrue.
Richiesti di indicare chi essi siano, rispondono con il loro nome e il cognome di famiglia. Tra i vari componenti un gruppo scolastico non esiste alcun legame: sono solitudini associate, parti di una burocrazia del controllo. Difficilmente sanno rappresentarsi, perché sono 'storie potenziali', che attendono di schiudersi e divenire vita sociale. Occorre trovare un legante, che accomuni i diversi bambini, che unisca passato e presente, rendendo ciascun individuo importante nella sua specificità, al pari delle dita nella mano. La quale incontra, afferra, modifica, plasma ed offre uno strumento indispensabile all'intelligenza del vivere. Sarà per questo motivo che, una volta, si picchiavano le mani dei bambini poco ortodossi, poco ubbidienti? L'obbedienza ci spinge a servire, l'emozione ci aiuta ad assorbire.
Qualcosa deve succedere: un progetto comune. Qualcosa che permetta una 'iniziazione', una rinascita, l'acquisizione di un 'nome di strada'.

Eliminare i diaframmi...

Per chi sono importanti i bambini? Dovrebbero esserlo per loro stessi, ma la fiducia e l'autorispetto sono riflessi di un consenso esterno, che offra confidenza, considerazione, e si attenda qualcosa da ciascuno di noi. La logica burocratica espressa dalle strutture dello stato non favorisce un incontro sinergico. Appiattisce nella ripetizione di formule che gabella per conoscenza, nell'ossequio a poteri lontani ed estranei, con i quali mai potremo condividere una merenda. Prova a trasformare i bambini in servi, attivando una spirale viziosa che, prima o poi, coinvolgerà tutti.
Ben altro è il futuro che ci augureremmo per i nostri figli! Ma, inconsapevolmente sovente, o in assenza di alternative, ci accontentiamo della critica sommessa e diffusa, impotente, che prende come bersaglio gli operatori intermedi del sistema, convinti, pur essi, d'essere incompresi costruttori di sapere e benessere.
L'allevamento, o educazione, non è compito specialistico di una casta di adulti. Una modalità dell'esistere, piuttosto, un esercizio che ci aiuta a riflettere, che carica di senso la vita, che sviluppa benevolenza all'intorno. Per questo motivo la delega totale è doppiamente dannosa: ci priva di parte della nostra libertà, ci esclude da un processo grande di coinvolgimento, di osservazione del reale secondo un'ottica diversa. Ci lascia soltanto il mugugno, l'alienazione nella relazione affettiva e la relega nei piani alti, polverosi, del piacere di vivere.
Attività, progetti, prospettive aiuteranno bambini, ignoti gli uni agli altri, a trasformarsi in un organismo, con le sue articolazioni e funzioni. Sentirsi parte di ciò che si vive crea entusiasmo e stimola l'intelligenza. Non dover seguire binari prefissati ma avere come obiettivo la concretizzazione di una propria storia possibile, 'veramente', e non solo 'virtualmente', in prima persona, scaccia la noia e la stanchezza ed elimina il diaframma tra scuola e ambiente esterno, tra didattica e vita quotidiana.

Uno stile di appartenenza...

Un gruppo che si forma e sviluppa, produce i propri 'linguaggi'. Lo stile che ne emerge non è sovrastruttura, convenzione folclorica, ma il segno caratterizzante le attività, le quali, in sostanza, sono la comunicazione. Ritmi di lavoro, organizzazione degli ambienti, uso degli strumenti, contenuti delle attività, formano lo stile, che connota il gruppo. Lo stile è il totem, l'insegna che fa individuare la nostra nuova casa. È anche qualcosa di profondo, che offre garanzia di riconoscibilità, di permanenza. Ci rassicura contro la demonìa d'una società criptata, concentrata sulla separazione, sulle incomprensioni parallele, che lasciano le persone in uno stato di insicurezza e prostrazione grandi, fondamenta, queste, di un potere accettato quasi con sollievo, di vitelli d'oro innalzati, al cui bagliore di riflesso leggere le 'veline' che il sistema ci trasmette. È un futuro (o presente?) da ultima spiaggia, alla cui realizzazione contribuiamo tutti con atti o omissioni, direttamente o indirettamente. L'anonimato porta alla massificazione e quest'ultima a instabilità violenta, foriera di tragici eventi. Lo stile di vita d'una comunità è il suo canto, l'ulteriore variazione sul tema della vita vissuta e non contemplata. Il 'bianco più bianco del bianco', con cui ci lavarono il cervello, priva il corpo sociale dei suoi odori e dei suoi colori. Anche un segugio si perderebbe, per mancanza di tracce, per assenza di pista. “La morte è la curva della strada,/ morire è solo non essere visto”, scriveva Fernando Pessoa. L'assenza di visibilità è una sorta di algida separatezza. Il dialogo sparisce, l'abbraccio pure. Viviamo in un paese 'dalle ombre lunghe'.

L'avventura è 'qualcosa che verrà'...

Tutte le operazioni hanno una duplice caratteristica: servono a sostanziare il presente e sviluppano un raccordo con il mondo per cercare di indirizzare i fatti verso esiti positivi. Le tribù che i bambini, con gli adulti, potrebbero, e dovrebbero, realizzare, hanno come programma strutturale, non esclusivamente cognitivo, la propria sussistenza. Non devono apprendere dalla Storia, classificazione del tempo operata per la gloria dei potenti, o ripetere esperienze già vissute da altri. Praticano la scoperta, che è figlia dello stupore, il quale trasforma ogni avvenimento da banale a unico, attivando l'adrenalina necessaria per suscitare nuova curiosità, nuovo desiderio di proseguire. “La scoperta è un'esperienza che si può compiere sia in piccolo che in grande: sia nella zolla di muschio posata sulla roccia che nella scogliera corallina sommersa”, afferma l'etologo Irenaus Eibl-Eibesfeldt.
Il termine 'avventura' significa andare verso le cose che ancora non ci sono, che ci saranno se le produrremo. Iniziativa e responsabilità personali sono stimolate, in modo da sentirci parte di un universo di relazioni, tutte importanti, tutte necessarie perché l''anima mundi' non inaridisca. L'avventura coniuga il rispetto meravigliato verso il mondo nella sua specificità con il bagaglio di tempi inscritti nel nostro Dna, salda la passione con la ricognizione, la spinta con la riflessione ed amplia la capacità di respiro. L'avventura è un meticcio che viene di lontano a mostrare l'imbroglio del rigido razionalismo tecnocratico, dell'allucinazione prometeica di dominare il fuoco.

Corre la pista e attraversa il mondo...

Non può realizzarsi impresa senza un territorio che, devitalizzato e appiattito in due dimensioni riportabili su una carta, rientra nella geografia, è spazio comunale, cornice di accadimenti. Ma ben presto, provocato da azioni mirate, protetto e curato, diventa elemento indispensabile all'identità, all'appartenenza, all'avventura. La sua presenza 'concreta', con le sue leggi, le sue forme, le sue resistenze, trasforma operazioni, che potrebbero essere puramente culturali, in organiche. Produce la percezione d'essere figli della terra, d'aver riportato alla luce Eden, dal quale ci eravamo esiliati. Riscopriamo i 'segni' dell'esistere, le tracce da sempre lasciate, nel tempo, dalla vita nel suo complesso naturale e sociale; a nostra volta diventiamo paesaggio per chi ci scorge dall'alto e ci osserva e valuta l'eventuale nostra pericolosità. Il territorio diventa cibo dell'anima, attivatore e ricettore della nostra immaginazione operativa. Non c'è memoria senza un territorio; quest'ultimo, a sua volta, è anche figlio di Mnemosine, di rievocazione, ricupero strutturale per offrire spessore alle nostre azioni. Ne sapevano qualcosa gli antichi pittori cinesi e gli attuali fotografi di guerra. Sia gli uni che gli altri avevano scoperto il potere consolatore e cauterizzatore dell'immensa realtà pulsante che è la nostra Terra, nella quale ci siamo mescolati per millenni, e della quale spudoratamente abbiamo approfittato. Le ferite inferte al mondo lo trasformano da puro strumento a parte del nostro corpo temporale, che soffre, in sintonìa, perché comune è la storia. “È solo grazie all'identificazione con l'ambiente che l'uomo riesce ad amarsi ancorché piccolo, malato ed umiliato”, afferma Alice Balint.

Raccontami una storia, e la storia cominciò...

È così che un gruppo di bambini dovrebbe procedere verso il proprio rinnovamento iniziando una sorta di auto-esame, dal quale emerge che siamo tutti poverelli, fragili e pellegrini, soli, senza interlocutori. Occorrerà mettere in comune quel che si ha: le storie. Il tesoro del gruppo, o della classe, se si opera nella scuola, sarà composto dalle storie di ciascuno e l'inizio diverrà più semplice, il linguaggio meno ermetico e il legame più forte. Ci si potrà abbandonare senza il timore d'essere violati o derubati. Ci sarà desiderio, tempo e sagacia per volgerci indietro, alla ricerca degli antenati perduti, nel mondo ipotetico e creativo delle origini, onde riuscire a ricucire l'appartenenza al pianeta, con la certezza che è impossibile perdersi e la vita non è cattiva. Nella casa di tutti, ci si può permettere di viaggiare, di allontanarci, perché, veramente, noi saremo sempre qua e, come fece Pollicino, dopo le traversìe più dure potremo tornare con un tesoro e prenderci cura di chi tristemente aveva perso la fiducia in noi. E le nostre azioni future non saranno fughe ma testimonianze, per chi ci ha dato e ci dà, per i nostri desideri. La ricchezza non è un sacco in spalla, né una proprietà immobiliare che ci àncora a un posto carico di tensione e preoccupazioni. La ricchezza è non temere i ladri. Ciascuno è ricco perché è frutto di antiche vicende che lo hanno preceduto e, a sua volta, potrà produrre eventi. La sua esistenza non è lineare, da genitori a figlio, ma complessa. Fin dal concepimento, e anche prima, il mondo interferisce, necessariamente. Siamo creature della materia e non prodotti filosofici e tutto ciò che di bello e santo da noi emerge è 'dentro' alla vita. Questa sensazione dovrebbe renderci più liberi, più attenti e delicati, come un calligrafo cinese. Forse per questo i nostri vecchi ci cantavano “La storia è bella, piacevole è contarla, vuoi che te la racconti?...”. Stando così le cose si parte da una base di democrazia affettiva. Ciascuno versa sul tavolo ciò che sa, che ricorda, le proprie abilità. Sassolini della spiaggia che il mare della vita trasporta e lucida. Rendersi conto d'essere, in qualche modo, equipaggiati, dà l'avvio al progetto fondante: quello di camminare insieme. Sulla strada che, come affermava Kipling, il quale se ne intendeva, è un fiume di vita, si intrecciano i destini di tutti e di tutto. Noi non intraprendiamo un viaggio: siamo nel viaggio e dobbiamo aprire gli occhi.

Un sentiero che attraversa il tempo, per tornare a casa...

Bruce Chatwin, irrequieto ricercatore e viaggiatore, nel suo vagabondare in Australia raccolse briciole dei miti di fondazione degli Aborigeni. L'interesse è suscitato dal fatto che in queste narrazioni orali si intrecciano il tempo e lo spazio, il territorio e l'infinità delle cose trascorse. “Si credeva che ogni Antenato, mentre percorreva il paese cantando,” scrive, “avesse lasciato sulle proprie orme una scia di 'cellule della vita', o 'bambini-spiriti'.” Quando si narrano storie, in viaggio e tra viaggiatori, si deve pensare che esse si presentino quasi attirate da una sorta di necessità. Le vicende evocate, insomma, servono a chi le ascolta in quel momento, come i sassolini di Pollicino nella fiaba omonima. Allora è da intendersi che l'uscita dalla dipendenza e dalle abitudini consolidate crei momenti di insicurezza, dovuta alla perdita della protezione e alla mai sperimentata libertà di decidere per la propria vita. L'ossigeno d'alta quota stordisce. Ma gli Aborigeni australiani ci vengono incontro, loro che considerano la vita un pellegrinaggio, un lungo canto di ringraziamento agli Antenati. Aiutano adulti e bambini a non aver paura della notte temporale, perché soltanto per chi non sa, o non vuole vedere, l'universo è oscuro e minaccioso. “Gli Uomini del Tempo Antico percorsero tutto il mondo cantando: cantarono i fiumi e le catene di montagne, le saline e le dune di sabbia. Andarono a caccia, mangiarono, fecero l'amore, danzarono, uccisero: in ogni punto delle loro piste lasciarono una scia di musica. Avvolsero il mondo intero in una rete di canto; e infine, quando ebbero cantato la Terra, si sentirono stanchi. Di nuovo sentirono nelle membra la gelida immobilità dei secoli. Alcuni sprofondarono nel terreno, lì dov'erano. Altri strisciarono dentro le grotte. Altri ancora tornarono lentamente alle loro 'Dimore Eterne', ai pozzi ancestrali che li avevano generati. Tutti tornarono 'dentro'”, prosegue Chatwin, e si ha l'impressione che sia proprio il 'dentro' la casa originaria, loro e nostra, quasi fosse necessario 'divenire' per poter 'essere'. Ma i nostri bambini non sono avvezzi a pensare nella dimensione-antenati. Lo ieri è una palla al piede rispetto al domani. L'idea, infausta, d'un progresso necessario e infinito, nonostante le devastanti manifestazioni, pare aver cancellato il seme originale dall'anima dei piccoli. E quasi in un grido di dolore Martin Prechtel ricorda :“Ogni essere umano oggi in vita, moderno o tribale, primitivo o iperaddomesticato, ha un'anima originale e naturale...Poiché il corpo moderno è il mondo, ogni singolo individuo sulla terra, indipendentemente dalla razza o dal suo contesto culturale, ha un'anima indigena che sta lottando per sopravvivere in un ambiente sempre più ostile, creato da quella mente dell'ego, che condivide le usanze dell'età della macchina. Per questo motivo, il corpo si è trasformato in un campo di battaglia tra la mente razionale e l'anima naturale...Nel corso degli ultimi due o tre secoli, la mentalità spietata e distruttrice della civiltà è progredita sulla terra, divorando le popolazioni, la natura, l'immaginazione e il sapere spirituale... Ora ciò che in ognuno di noi è innato, naturale, sottile, difficile da spiegare, generoso, graduale e orientato al villaggio viene bandito nei ghetti del nostro cuore...”.La convinzione, errata, d'essere inquilini della Terra e non parte organica, di non provenire da una obliata treccia di precedenti, installa in ciascuno di noi, e nei nostri figli, la presunzione autogenetica, cancellando l'emozione della riconoscenza, della compassione, della responsabilità. Il dire 'grazie' non è più un momento di gioia ('ringraziare' significa restituire le 'grazie' ricevute) ma una formula di galateo. Ci si inaridisce sempre più, come durante una prolungata siccità, e quando un evento traumatico ci colpirà non sapremo assorbirlo. Grazie al patrimonio di storie individuali che abbiamo verificato essere la ricchezza di bambini che iniziano a costituire una comunità ci sarà facile abbandonare l'autostrada delle certezze codificate per proseguire attraverso i sentieri, nella speranza d'incontrare gli Uomini del Tempo Antico, quelli, appunto, nati prima di noi, per ristabilire una discendenza e un'appartenenza che ci permetta di essere 'dentro' alla vita, alla luce, al buio, al nascere, all'invecchiare ed al morire.

Questa terra è la mia terra

Il tempo è da noi vissuto come un beccaio in un mattatoio metropolitano. Tutto deve realizzarsi in fretta, il minuto successivo appare uccidendo il minuto precedente, secondo un movimento programmato su un tapis roulant. Viene meno la percezione empatica dei flussi, l'essere foglia nella corrente di un torrente che muove al suo destino e nulla di dannoso potrà avvenire. Possedere il tempo è illusione nevrotica. In realtà è la materia visibile del vivere, complessa e misteriosa. A noi quel che interessa è il tempo lineare ma, in realtà, il movimento è falso. Il tempo-vita ossigena se stesso. Mi parrebbe bello aiutare i bambini all'incanto, alla non-interferenza e all'assorbimento dei messaggi, perché, parafrasando Woody Guthrie, 'questa terra è la mia terra'.
Noi siamo qui per tentare di scongiurare questo malefico futuro. Esiste una comunità di intenti e ispirazioni che trapassa la nostra piccola, seppur importante, storia. Molti individui, sempre più, riprendono ad ascoltare il vento. Essere e agire in accordo con ciò che promuove, accresce, rallegra, consola, a me pare una politica seria nei riguardi della storia così com'è, per tutti i piccoli che nasceranno. A me pare quest'impresa come lo scorrere della canoa sul fiume o lo sgroppare del cavallo tra l'erba dei pascoli. Avventura, certo. Che mi rifiuto di leggere soltanto. Che voglio divenga stile di vita. E in quest'avventura trovare compagni di viaggio, schietti, senza sentimentalismi o decaloghi moralistici.

Auguriamoci una lunga pista

Nella logica dogmatica prodotta da uno stile 'imperiale' di porsi 'sul' Pianeta, esiste un reticolo di certezze, di verità inconfutabili, che sono come le mine anti-uomo. Se non conosci il codice per avvicinarle ti esplodono addosso, ti emarginano, ti fanno sentire un rudere nel quale venti rabbiosi la fanno da padroni. La scuola è lo strumento che l'Occidente e il Mercato hanno elaborato per indottrinare i bambini, per strutturare le loro capacità percettive e creative secondo valori e fini predefiniti e coerenti, all'interno d'un grande sistema la cui chiave d'interpretazione è nelle mani di pochi. La pedagogia ufficiale, a sua volta, ha lo scopo di giustificare l'esistente. E non ci ingannano le piccole aperture, i trucchi delle sperimentazioni. Sappiamo chi aziona i fili! Nelle classi dei nostri bambini aleggia una dittatura soporifera. Si annoia la maestra, si annoiano gli scolari, il tempo fa invecchiare e non crescere. Trovo grotteschi i programmi scolastici, le didattiche al miele, gli interventi miranti a ricondurre nel solco tracciato le eventuali devianze. Uno solo è il linguaggio, si afferma, e la scuola ne è l'interprete. Ma non è vero. Fuori dal recinto il mondo parla, canta, urla, si esprime, e noi siamo parte del mondo. Occorre rendersene conto! Le nozioni sono prodotti pre-elaborati, ideologicamente integrate, miranti al perpetuamento della società che le ha prodotte. Un Moloch si mantiene vampirizzando i piccoli. Ma nulla è stato stabilito a priori. Noi siamo creature, debitrici a coloro che ci hanno inserito nel 'grande gioco' della vita ma anche responsabili del nostro futuro e del futuro della Terra. Attraverso lo 'sguardo' rinnovato, possibile grazie a stimoli nuovi e a progetti esistenziali di lungo respiro, diveniamo 'operatori' e la conoscenza si fonde con la coscienza, con l'esperienza, con l'adesione fiduciosa alla vita perché, come cantava Dylan, la risposta è nel vento. Auguriamoci orizzonti ampi, sempre circolari, come due braccia che ci proteggano, e sempre avanti a noi. Auguriamoci una lunga pista colma di sorprese. L'emozione ci aiuta ad assorbire, l'obbedienza ci spinge a servire.

Accogliere, dare parole al silenzio, evocare...

Quando i sensi sono in relazione con l'ambiente e non rattrappiti su se stessi, in difesa, è possibile una percezione 'magica', tale, cioè, da essere supporto a realtà intense. Suoni, silenzi, ombre, luci, forme, cessano d'essere 'astrazioni', categorie, e si trasformano in personaggi, in dialoganti e camminanti, in pellegrini sulla stessa strada, come ben avevano intuito i vari Bosch dell'alto Nord. Leggende e fiabe sono modi 'accelerati' di narrare storie, a portata di tutti. La mente opacizzata da consuetudini e certezze scolastiche scarta automaticamente tutto ciò che non ha riscontro nel già pianificato e programmato. In realtà, così facendo, non si apprende nulla: si ripete e ci si riconferma negli stereotipi. Ma, è vero, ci manca il fuoco di stoppie dei camini contadini e i cucchiai di legno e l'acqua nel secchio estratta dal pozzo con la sua fragranza di profondità. Ci mancano i dialetti e la luce delle candele. Ci manca la disponibilità a essere accolti dal mistero e la paura è qualcosa di inafferrabile, la nube tossica, il surriscaldamento dell'atmosfera, le zanzare-tigri... Evocare significa far uscire la voce, dare libera cittadinanza ai micromondi.

Camminare con i bambini, far muovere il bambino interiore...

Esiste nell'istituzione scolastica il mal vezzo della staticità. “Non muoverti, ognuno al suo posto, fermi...”. Ritornello che molti ricordano, sigla della scuola per tutti. Rinvia, ahimè, all'immobilità cadaverica, all'esposizione della vittima, al tormentone militaresco. Nulla, però, è statico, nemmeno la mente in concentrazione. Per cui è bene che si diventi acqua nel torrente, attraversando il mondo e da questi venendo trapassati di luce, di storie, di nutrimento, di senso.
Il bambino si estende in un grande sbadiglio e sperimenta lo spazio, l'aria, la sua capacità muscolare, il piacere della dislocazione. Ogni attimo qualcosa in lui muta, ogni attimo realtà dinamiche cambiano di assetto e di aspetto. Nell'aula, seduti ed immobili, perdiamo tutti i treni della vita, e restiamo a piedi, ma anche allora possiamo riscattare la frustrazione, mutare il non-goduto in una sorta di cibo. Il tempo è trasformazione, storia che si scioglie dalle bende. Quando ci accorgeremo di tutto ciò ci coglierà una sorta di formicolio, non potremo più giustificare le abitudini scolastiche, saremo colpiti da una specie di malessere fisico, di nausea. Sentiremo le sabbie mobili sotto i piedi e, cosa più grave ancora, ci accorgeremo d'essere noi stessi la causa di tutto ciò. La vita è, però, benevola, basta aprire le finestre, spalancare la porta, uscire, toccare, respirare a bocca aperta per sentire l'aria, annusare, vedere, quasi fosse la prima volta. Un esercizio consigliabile è quello di immaginare d'essere giunti su un pianeta sconosciuto. Tutto è nuovo e misterioso. Occorre individuare le possibili relazioni tra le parti, tentare d'entrare in contatto. Gli 'alieni' siamo noi. Per cui, con bambini, non solamente 'scolari', intraprendiamo il viaggio, camminiamo, realmente, fisicamente. L'aula serve al riposo, alla riflessione, alla progettazione, non all'impatto con la vita in diretta.
Esiste un'arte del camminare. Non è quella del podista che deve raggiungere il traguardo nel più breve tempo possibile. Piuttosto simile, invece, al bighellonare, all'andare a zonzo, ponendo come validi limiti il tempo del ritorno. Il percorso si costella di punti d'attrazione. I bambini scorgono le piccole situazioni. Non si lasciano avvincere dalle sirene della cultura adulta che propaganda la propria immagine con architetture, strade, statue e musei. La loro curiosità è fisiologica, passa attraverso il toccare, quasi fossero chioccioline dalle antenne vibranti. Disciolgono le realtà complesse, lasciandosi attirare da strutture minimali, correlandole le une alle altre anche se presenti in contesti diversi. Non è una ricerca lineare ed intenzionale, la loro, come desidererebbero molti insegnanti per i quali il mondo è utile quale conferma delle nozioni apprese. È, invece, un'attrazione multipolare, per cui i bambini superano la separazione tra sostanza e forma, tra essenza ed esistenza. “Ciò che è, è”, paiono affermare mentre le dita toccano, gli occhi ridono e le gambe li spostano da un angolo all'altro. Sanno, in un qualche modo intuitivo, che la vita non si nasconde ma si palesa in modo esplosivo. Un certo tipo di educazione rende la vista miope e crea un filtro, a volte insuperabile, tra l'individuo acculturato e il resto, tutto il resto, che è stupefacente e meraviglioso. La ricettività e la disponibilità ad accogliere, senza il timore paranoico d'essere aggrediti, permettono un'espansione della coscienza i cui contenuti attingono 'direttamente' alle sorgenti vitali. Tale dilatazione è intelligenza, affettività, moralità. Permette di individuare il 'fascino', sorta di sorriso dello spirito del luogo, emesso dalle situazioni, di modo che ci sentiremo protagonisti di qualcosa di inimitabile ed irripetibile. Contro la monotonia meglio le gambe in movimento, i piedi che pigiano il terreno, le lingue dialoganti e gli occhi catturanti. Nulla di meglio del corpo in affidamento alle correnti buone e vitali, stupendo delle nuvolette di fiato, del colore delle pietre, del volto della gente. “Il mondo è un luogo di immagini viventi, e l'organo che ce lo dice è il nostro cuore”, afferma Hillman. Camminando con i bambini è necessario ricalibrare il nostro stile di percezione. Dobbiamo abbandonare i pregiudizi, le attese di conferme, per aprirci alle domande che i piccoli ci pongono, in un miscuglio di curiosità, timore, desiderio d'essere confortati o di acquisire conoscenze abilitanti. Il paesaggio, qualunque esso sia, si popola di presenze, le quali testimoniano che tutto è vivo e che i nostri incontri hanno, quindi, un valore grande. La distrazione è carenza di energia, sostituita, sovente, da un 'ego' tronfio e isterico. Dobbiamo abbassarci al livello dei bambini in cammino se vogliamo ricuperare quanto, nel tempo, abbiamo rischiato di perdere. Nel film di Spielberg, intitolato 'E.T.', del 1982, l'extra-terrestre, mentre si accinge a ritornare verso la sua casa, dichiara all'amico bambino, piangente, “Io sarò sempre qui”. Gli adulti hanno necessità di immaginare che qualcuno o qualcosa di estraneo al nostro pianeta venga a visitarci per ricordarci il valore dell'esistenza. La fantasia diventa una sorta di circonvallazione per ricongiungerci al quotidiano. Ma i bambini sanno che non c'è nulla di più meraviglioso d'un giorno di giochi, di scoperte, di peregrinazioni, di realizzazioni. Sanno che il mistero è sempre qui e dal mistero possiamo attingere, come da un pozzo di san Patrizio. Per avere la chiave d'accesso dobbiamo far muovere il nostro bambino interiore che, nonostante la cravatta che nasconde il collo, a rischio, di noi adulti, è una modalità sempre presente, come E.T., anche se sovente lo consideriamo un intruso, un extra, che rallenta la maturazione, l'evoluzione, la conquista. Dichiara Hillman: “Perché l'esperienza possa colpire la psiche, è necessario che venga trasformata in qualcosa di fantastico; è cioè necessario che essa assuma un aspetto poetico, metaforico, mitico che vada al di là di ciò che è personalmente sentito”. Il camminare con i bambini, esterni o interni assieme, cura la scissione, ci rimette nel flusso, ci rende consapevoli e saggi. Non dovrebbe essere questo l'obiettivo permanente del far crescere i piccoli?

Quando ci si mette per sentieri, o prima o poi ci si incontra...

Ricordate l'episodio dell'offerta da parte di Esaù della sua primogenitura per un piatto di lenticchie, narrato nella Bibbia? Metafora di stretta attualità che sta a indicare la pigrizia generalizzata, la perdita dei diritti e delle responsabilità, a favore d'una delega generalizzata. Sommersi da un torpore colpevole si rinuncia alla gestione della propria vita e si incarica qualcuno, al quale si concedono privilegi e poteri, di decidere per noi cosa sia bene o male, cosa sia piacevole e cosa sgradevole. Le società moderne paiono tornare a una sorta di patriarcato, senza necessità di eccessive repressioni in quanto si conviene essere più appetibile un 'piatto di lenticchie' oggi che non una vita di scelte e decisioni autonome. Il recinto è virtuale ma non virtuoso. Passa attraverso la comunicazione mistificata, quasi una sorta di droga ottundente, l'individuazione di nemici possibili che scatena tossiche paure, l'indifferenza verso gli altri, la reificazione degli affetti, l'uso stupido ed egoistico della natura, l'ipervalutazione delle proprie capacità secondo una logica di onnipotenza e di dominio. Tale stile di vita viene presentato come 'civiltà' e informa di sé anche il rapporto con i bambini, i quali, essendo le propaggini verso il futuro, a maggior ragione divengono le cavie di questa allucinata modernità. La scuola, che fu conquista di liberazione ed emancipazione, da tempo si è trasformata in luogo di ammaestramento, di conformismo, di sofferenza. In un viluppo indistinto ci è difficile individuare, e separare, carnefici e vittime. Gli insegnanti, strumenti diretti di indottrinamento e deresponsabilizzazione, sono, a loro volta, parte di un sistema politico, culturale, economico e organizzativo reale e, nel contempo, immaginario, quasi un paesaggio di nebbia, nel quale è difficile districarsi. Si parte da affermazioni dogmatiche, mai dimostrate, i cosiddetti 'valori' educativi, e su di esse si costruisce un'organizzazione che diviene trappola, illusoria ricerca e negazione di autonomia. La scuola si trasforma in una caricatura della vita, in qualcosa di rigido, meccanico e freddo, finalizzato al mantenimento dello status quo ed alla riproduzione del potere.
Occorre mettersi per sentieri, allora. Forse, soltanto allora il bambino, come nella favola di Andersen, scoprirà che il re è nudo, lo è sempre stato e solo l'illusione indotta ci ha fatto pensare che fosse abbigliato in modo completo e sontuoso. Whitman, il grande poeta americano, scrisse: “Credo che una foglia d'erba non sia da meno del lavoro quotidiano compiuto dagli astri,/egualmente perfetta è una formica e un granello di sabbia,/e l'uovo del reattino,/e la raganella è un capolavoro paragonabile ai più eccelsi,/ e il rovo rampicante adornerebbe le sale del cielo,/e la più semplice giuntura nella mia mano può irridere qualsiasi meccanismo,/e la vacca che rumina a capo chino supera ogni statua,/e un topo è un miracolo sufficiente a sgominare sestilioni d'increduli...”. Perciò occorre mettersi per sentieri, territoriali, mentali, sociali.

Gianni Milano