rivista anarchica
anno 44 n. 389
maggio 2014


tortura

Beccaria, Kant
e il terrore di stato

del collettivo Altra Informazione


A 250 anni dalla pubblicazione del libro di Cesare Beccaria “Dei delitti e delle pene”, si sente in giro molta retorica.
Anche in Italia, dove la tortura come reato non esiste.
In pratica, invece....


Il fine della tortura è la tortura.
Il fine del potere è il potere.
George Orwell

Sono ormai trascorsi 250 anni dalla prima pubblicazione del trattato “Dei delitti e delle pene”, in cui Cesare Beccaria aveva con forza sostenuto che “non vi è libertà ogni qual volta le Leggi permettono che in alcuni eventi cessi di essere Persona, e diventi cosa”.
Certamente l’autore non poteva immaginare, nell’illusione di avere contribuito col suo atto di accusa a mettere fine alla pena di morte e alla tortura, che due secoli e mezzo dopo potesse circolare una notizia come quella riportata nello scorso febbraio da vari giornali.
La notizia riferisce di una band canadese di musica metal che ha presentato una fattura da 666 mila dollari al governo degli Stati Uniti per l’indebito utilizzo da parte dei militari di alcuni suoi brani, “sparati” ad altissimo volume, per torturare i detenuti nel lager-carcere speciale di Guantanamo Bay, ancora operativo nonostante il presidente Obama, insignito col premio Nobel per la pace, ne prometta la chiusura dal 2008.
La storia della tortura continua così ad attraversare i secoli, i continenti e le diverse forme di dominio biopolitico, con un medesimo intento punitivo che prescinde ogni altra considerazione sul rispetto dei diritti umani, giustificata moralmente anche da non pochi intellettuali del tempo, da Bentham a Kant.
In particolare, alcuni anni dopo l’uscita del “Dei delitti e delle pene”, già messo all’Indice dalla Chiesa di Roma, fu l’illuminista Kant a stigmatizzare Beccaria per il suo “sentimento di falsa umanità” sostenendo che “il diritto di punire è il diritto del sovrano nei confronti dei suoi sudditi di infliggere loro una pena dolorosa” perché altrimenti “il diritto cede, l’ordine crolla, il legame sociale si sfalda, lo Stato vacilla”. Nonostante i risibili tentativi di chi oggi cerca di rivalutarlo come un filosofo “libertario”, Kant in questo modo si dimostrava invece preoccupato dal potenziale sovversivo insito nelle tesi di Beccaria. Queste, infatti, mettevano in discussione il principio per il quale la volontà generale, il collettivo, le istituzioni possono arrogarsi un potere che non sia loro direttamente trasferito dalla volontà dei singoli individui concreti.
Analoga incapacità, peraltro, si riscontra ancora in questo secolo tanto che il ricorso sistematico alla tortura nei confronti dei sospetti terroristi, è stato ritenuto un mezzo giustificato dal fine persino da settori ed esponenti liberal della società statunitense, quali ad esempio Alan Dershowitz, esimio professore di legge ad Harvard, favorevole alla sua formale legalizzazione, riecheggiando la cosiddetta “eccezione” di Josef von Sonnenfels, consigliere della corona asburgica.

Cesare Beccaria
(1738-1794)
Il monopolio dell'uso della violenza

Così, pur in contrasto con tutte le convenzioni e i trattati internazionali, il presente e persino il futuro continuano a non liberarsi dal passato, un passato che può essere utile rammentare.
Non appena la società passò da uno stato “primitivo” a uno “civilizzato” e vennero promulgati i codici e le norme, la tortura che fino ad allora era stata attuata dall’uomo “selvaggio” per soddisfare la propria sete di vendetta, si cristallizzò in una determinata pratica, che trovò puntuale giustificazione in un preciso sistema punitivo: divenne così lo strumento, adottato dal regnante in un paese autocratico o dallo Stato in un’oligarchia, per costringere alla sottomissione verso l’autorità oppure, nel caso di folle o di gruppi sociali più limitati, per mantenere semplicemente la disciplina dei sudditi.
Nell’Antica Roma, tale esercizio legittimo della violenza si estendeva sino all’ambito domestico, in cui il capo-famiglia poteva sottoporre a tortura oltre agli schiavi, pure la moglie e i figli. La prima legittimazione delle sevizie fisiche deriva dalla sua efficacia, reprimendo e prevenendo ogni ribellione nei confronti del potere dominante e i suoi principi fondativi. Combattendo, l’uno il tradimento e l’altra l’eresia, sia lo Stato che la Chiesa si sono avvalsi infatti di tale metodo basato sul terrore.
Nel 1252, fu Innocenzo IV, nella bolla papale Ad extirpanda a introdurre la tortura come metodo per la ricerca della verità; d’altronde, l’idea stessa di “castigo divino” implicava il principio per il quale, attraverso la sofferenza, era possibile cancellare la colpa riscattandola attraverso la punizione inflitta, sacralizzando così la coincidenza di significato tra dolore e pena e, conseguentemente, benedicendo la figura del boia e dei patimenti impartiti dall’Inquisizione.

Dissimulato e coperto dalla “ragione superiore”

Persino secondo l’attuale definizione giuridica, la tortura è una forma di violenza o un metodo di supplizio decretato dallo Stato ed eseguito da ufficiali debitamente autorizzati o designati dalle autorità giudiziarie, per cui risulta quantomeno elusivo parlare e condannare il ricorso alla tortura senza mettere in discussione il monopolio dell’uso della violenza - anche estrema e senza limiti - che lo Stato assicura a sé stesso, sia legalmente che illegalmente.
Se nei regimi totalitari e nelle dittature più feroci del secolo passato questo aspetto appare intrinseco alla loro ideologia liberticida, nelle democrazie appare dissimulato e coperto dalla ragione “superiore”, a tutela di una sicurezza collettiva minacciata da presunti nemici esterni e interni. Per cui, anche negli Stati liberali, il confine tra azione politica legale e abuso criminale tende ad annullarsi con la complicità di milioni di “spettatori consenzienti” che ritengono come normale il lavoro dei torturatori, assieme a campi di concentramento, stupri autorizzati, soppressione delle libertà formali, assassinii mirati e altre attività terroristiche compiute dagli apparati statali. Si pensi ad esempio alla democratica Francia che, nonostante la soppressione dell’uso della tortura sancita dopo la Rivoluzione del 1789, si renderà responsabile di sistematiche quanto atroci torture nel corso dell’occupazione coloniale dell’Algeria (1954-’62).
Da parte loro, la borghesia e la monarchia inglese, ad esempio, si sono sempre vantate del fatto che nel loro paese la tortura non sia mai stata praticata, in quanto non legalmente riconosciuta dalla Common Law; sappiamo invece fin troppo bene di cosa è stato capace l’imperialismo britannico non solo nelle guerre e nelle dominazioni coloniali, ma anche in Irlanda del Nord nella repressione ai danni degli indipendentisti repubblicani.
Stesso dicasi per gli Stati Uniti dove la pratica della tortura non solo non si è esaurita con la fine dello schiavismo, ma ha visto nel secondo dopoguerra la sua ininterrotta pianificazione nei centri d’addestramento militare come una qualsiasi altra materia di carattere tecnico, seguita dalle atroci applicazioni sul campo e sui corpi in Corea, Vietnam, America Latina, Irak, Afghanistan...

Cesare Beccaria un ingenuo utopista?

La stessa Italia democratica che oggi si appresta a commemorare la prima edizione del “Dei delitti e delle pene”, come riprova della propria civiltà giuridica, a tutt’oggi non ha ancora introdotto il reato di tortura nel codice penale e non ha abolito l’ergastolo, dopo essersi presto assolta per le torture e gli stupri perpetrati – e fotografati – dai parà italiani in Somalia durante la missione Restore Hope (1992-’94), per non parlare di quanto avvenuto a Napoli e Genova nel 2001 o degli “eccessi” compiuti in Val di Susa ai danni degli e delle attiviste No Tav..
Un presente che se da un lato può far apparire Beccaria un ingenuo utopista, dall’altro conferma gli sviluppi della sua critica che sono stati ritrovati alcuni anni fa sotto forma di suoi appunti in calce ad una copia dei suoi scritti, editi a Livorno dall’Editore Aubert nel 1766.
In queste annotazioni si scorge l’intenzione di Beccaria di riscrivere la sua opera, giungendo ad una critica radicale della pena e del controllo sociale degli individui, al punto che qualcuno è giunto ad alludere ad un “Beccaria anarchico”.
Confermando la già nota difesa dell’individuo contro il potere statuale, viene sottolineato come il controllo sociale e il diritto a punire di cui le istituzioni detengono il monopolio è ammesso solo per quel tanto che le persone sono consapevolmente disposte a sacrificare della propria libertà. Inoltre e soprattutto, affrontando la questione della pena di morte, Beccaria intuisce che la vita non può essere separata dal soggetto vivente, trattata come un oggetto, ossia posta di fronte a colui che vive in modo tale da poter creare tra se e questa cosa un rapporto di effettiva proprietà. E proprio perché l’individuo non può separarsi dalla propria vita, è per lui impossibile cederla come se fosse una sua proprietà nelle mani dello Stato. Il ragionamento si chiude quindi con la radicale messa in discussione del diritto delle istituzioni di limitare o addirittura sopprimere la vita, per il semplice fatto che questo diritto non può venir loro trasferito dagli individui.
In altre parole, se l’individuo può privarsi solo di ciò di cui è proprietario, nessuno è padrone di vendersi, anima e corpo, come una merce, rendendosi così proprietà dell’altro, suo schiavo. Da qui, nella consapevolezza che non esiste libertà nella scelta di farsi schiavizzare, tanto meno è ammissibile che un individuo si sottometta all’arbitrio dello Stato nel disporre della sua vita e della sua morte.
In tale riflessione che vede Beccaria distinguersi da altri teorici della democrazia, sostenitori del primato del collettivo e quindi dello Stato sull’individuo, è così possibile ritrovare le questioni fondanti del pensiero antiautoritario nei confronti dell’istituzione della giustizia, ritenuta alla stregua di un alibi della punizione, identificando – attraverso le parole di Rafael Sanchez Ferlosio – “i giudici, l’avvocato difensore e il pubblico ministero come il personale di servizio del boia”.

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