rivista anarchica
anno 44 n. 391
estate 2014


cinema

Quando il regista è un antropologo

di Laura Antonella Carli


Il sodalizio tra antropologia e cinematografia nasce e si sviluppa in Italia nel secondo dopoguerra, nell'ambito delle ricerche sul campo promosse da Ernesto De Martino. Uno sguardo retrospettivo ai registi e ai filmati che hanno segnato una pagina ricca e stimolante della ricerca sociale.


Una mattina di giugno del 1959, un'équipe guidata da Ernesto De Martino parte da Roma in direzione di Galatina, Salento, per studiare il fenomeno degli attarantati. Per questa ricerca, che successivamente confluirà nel libro La terra del rimorso, De Martino sceglie di farsi accompagnare da alcuni studiosi – un medico, uno psichiatra, una psicologa, uno storico delle religioni, un'antropologa culturale, un etnomusicologo e, infine, da un documentarista, restando fedele a quell'approccio multidisciplinare che è tra gli aspetti innovativi della sua ricerca etnografica.
In realtà il sodalizio tra antropologia e cinematografia documentaria si era già consolidato da qualche anno. Nell'immediato dopoguerra, la necessità di dare vita a una produzione documentaria non compromessa con il regime fascista – quindi autonoma rispetto all'Istituto Luce – aveva portato ad alcuni stanziamenti economici che erano serviti da incoraggiamento per i giovani cineasti, molti dei quali hanno esordito proprio con pellicole di carattere documentario e, nella maggior parte dei casi, legate a tematiche sociali – N.V. di Antonioni (1948), dedicato al lavoro del netturbino, o Barboni di Dino Risi (1946), che all'elemento di denuncia fonde una dimensione poetica che a tratti vira alla commedia.
Ma è solo negli anni cinquanta che il documentario italiano scopre il meridione e le suggestioni che può offrire uno sguardo antropologico sui riti e le usanze della civiltà contadina.

Una scena dal film Magia lucana
Itinerari demartiniani

Lamento funebre è del 1953. La regia è di Michele Gandin, che si avvale della consulenza tecnica di Ernesto De Martino. Il film mette in scena – perché si tratta, in effetti, di scene ricostruite – un tipico lamento funebre lucano, con alcune licenze, come la decisione di ambientare all'aperto un rito tipicamente domestico.
Nel frattempo il giovane documentarista Luigi Di Gianni legge per caso su un giornale della spedizione in Basilicata effettuata da poco dallo studioso e decide subito di mettersi in contatto con lui per sottoporgli alcuni suoi progetti. Incappa prima in Romano Calisi, suo allievo, poi nell'etnomusicologo Diego Carpitella e infine in De Martino stesso: “Mi fece un'impressione travolgente”, racconta Di Gianni, “perché era uno scienziato ma anche un brillantissimo scrittore, con doti straordinarie del tutto insolite per un accademico”.
Il primo film che girano insieme è Magia lucana (1958), in cui il discorso magico-rituale – vero aspetto preponderante di tutto il filone dei documentari “demartiniani” – lascia molto spazio alla descrizione dell'ambiente, della vita nei borghi, al tema della fatica del lavoro e della lunga strada dal lavoro al paese. Il fulcro del film resta però il lamento funebre, girato a  Pisticci, in provincia di Matera, dove Di Gianni e De Martino hanno avuto la fortuna di scovare le ultime prefiche, le lamentatrici di  professione, “con le quali”, spiega Di Gianni, “abbiamo messo in scena una cerimonia funebre tra i calanchi, un luogo di per sé già fortemente evocativo”.
Il tema della religiosità contadina e del suo complesso rituale verrà ripreso dallo stesso Di Gianni nei suoi successivi lavori, declinato in varie suggestioni. Grazia e numeri (1962) abbandona la campagna per esplorare l'anima magica dei vicoli partenopei; Il culto delle pietre (1967) è un reportage dalle grotte di Raiano, nella Marsica, dove centinaia di fedeli venerano le pietre su cui San Venanzio sembra aver riposato. E ancora: Il male di San Donato (1965), sulla processione salentina in onore del santo protettore degli epilettici e Nascita di un culto  (1968), che racconta la storia di Giuseppina Gonella, donna dai poteri sovrumani, che ogni giorno, dalle 10 alle 16, ospita dentro di sé lo spirito del nipote morto in un incidente d'auto, e a casa della quale ogni giorno un gran numero di adepti la raggiunge, rimanendo ore in attesa per assistere alla possessione quotidiana.
Che il risultato del lavoro non fosse strettamente scientifico, vista la forte presenza autorale e l'abitudine di ricostruire le scene, era chiaro a tutti e accettato dallo stesso De Martino. Ricostruzione e ripresa dal vero, volontà di testimonianza e ricerca estetica si mescolano e si rincorrono in tutto questo filone del cinema, con risultati spesso molto apprezzati – Magia lucana venne anche presentato alla Mostra di Venezia nel 1958 e vinse il premio come miglior documentario.
Si era aperta la stagione del documentario etno-antropologico del gruppo dei cosiddetti demartiniani: Luigi Di Gianni, Cecilia Mangini, Giuseppe Ferrara, Gianfranco Mingozzi.
Quest'ultimo è autore di un documentario piuttosto celebre, La taranta (1962), considerato il primo documento filmato sul fenomeno del tarantismo. Il film mette in scena il rito a partire da una dimensione domestica per approdare poi a quella collettiva, nei giorni delle celebrazioni dei santi Pietro e Paolo a Galatina. Il commento di Salvatore Quasimodo ha carattere molto letterario e si limita a fungere da introduzione, mentre la conclusione allude alla progressiva scomparsa del fenomeno, che attraverso psichiatria e psicologia fa il suo ingresso nel mondo della scienza.
Quando nel 2009 Mingozzi è scomparso, Cecilia Mangini, unica donna del gruppo e prima donna  regista sulla scena italiana del dopoguerra, ha raccontato su il manifesto il suo primo incontro “virtuale” con lui. “Era il 1961, al festival di Lipsia Maria di Nardò faceva fascinosamente il suo ingresso sullo schermo dibattendosi per terra in preda al tarantismo al ritmo scatenato della meloterapia”. Riprendere “la taranta”, spiega Mangini, era stato il grande sogno di tutti i documentaristi demartiniani: “lui c'era riuscito, io no, io a Galatina avevo dovuto rinunciare alle riprese, paralizzata dal no indiscutibile dell'arcivescovo di Otranto. Perché poi si dovesse chiedere proprio a un arcivescovo il permesso di girare in una chiesa sconsacrata oggi può sembrare un mistero irrisolvibile, purtroppo in mezzo secolo ci siamo dimenticati di come la chiesa sapesse dimostrare a oltranza il suo potere”.
Cecilia Mangini, militante Pci, moglie del collega documentarista Nino Del Frà, ispirata dalla lettura di Gramsci e De Martino vuole raccontare l'universo rituale senza ricorrere al facile folclore. Nel 1960, con Stendalì (nel dialetto della Grecia salentina: suonano ancora), mostra un lamento funebre, finalmente restituito al suo luogo deputato: la casa. Secondo la tradizione classica – Omero, Euripide – è necessario favorire la partenza dell'anima del morto nell'aldilà con canti rituali e lamentazioni che ripropongono le gesta del defunto e ne piangono il distacco dai familiari. Il pianto da tributare al defunto, come scrive Foscolo a proposito della morte di Ettore, costituisce un momento aggregante fondamentale in una società di tipo arcaico. Le lamentazioni, i moroloia (i canti delle prefiche) ripropongono spesso dialoghi tra il morto e il parente più stretto o tra chi perde la persona cara e la morte stessa: il tutto accompagnato da una precisa e articolata gestualità. Nel caso di Stendalì il testo delle lamentazioni salentine, interpretato nel filmato dall'attrice Lilla Brignone, viene tradotto da Pier Paolo Pasolini, che tenta di metabolizzare attraverso un lavoro di riscrittura del materiale il sentimento popolare che accompagna i canti di morte tradizionali. Conformemente al sodalizio che all'epoca sembrava legare scrittori e documentaristi, la cooperazione tra Pasolini e Mangini prosegue con il successivo La canta delle marane (1961), che se non può essere certo definito un documentario antropologico, rappresenta comunque un vivace spaccato di vita popolare, mettendo in scena la vita di borgata di un gruppo di monelli che fanno il bagno in un torrente (la marana), tra tuffi e scherzi fino all'arrivo delle guardie, schernite dai ragazzi in fuga: una vera e propria scena di Ragazzi di vita.

Una scena dal film Banditi a Orgosolo
Grandi epopee di terra e di mare

D'altra parte i rimandi tra letteratura e cinema e tra cinema documentario e cinema di finzione si sprecano, tanto che molti arrivano a negare, con cognizione di causa, una netta distinzione tra cinema diretto e cinema a soggetto. A riprova di questa tesi possiamo citare alcuni film coevi basati su una storia completamente inventata ma in tutto simili ai documentari citati, nello stile come nelle vicende raccontate.
L'antimiracolo  è un'opera del 1965 del ligure  Elio Piccon, che si trasferisce presso la laguna di Lesina, nel Gargano, senza uno script preciso e senza troppe finanze. Vive lì per tre mesi, segue i ritmi di quella terra e della gente che la popola, poi comincia a girare un film di finzione con attori non professionisti che ha molto in comune con una prova documentaria: con la storia di due fratelli che facendosi largo nella palude s'improvvisano rispettivamente pescatore e contadino, racconta un mondo che “il miracolo italiano non l'ha visto nemmeno in cartolina”.
Più celebre è forse Banditi a Orgosolo (1961) di Vittorio De Seta, ambientato in Barbagia e interpretato da attori non professionisti, scritturati in loco. Meno nota è forse la sua vasta e splendida produzione documentaristica, che si distingue per alcune scelte stilistiche controcorrente, prima tra tutte l'uso del colore, all'epoca reputato poco adatto al documentario perché troppo “estetizzante”, tanto più che il sistema utilizzato da De Seta, il ferraniacolor, creava colori sgargianti, quasi iperealisti: un trionfo di blu, gialli e rossi, a cui il regista, non contento, decide di aggiungere il formato panoramico (cinemascope). Ma la scelta più interessante è quella di abolire del tutto il commento: nessuna voce over, solo una breve didascalia iniziale di contestualizzazione. L'idea è di abolire lo sguardo “metropolitano” del commentatore esterno e lasciar parlare i suoni, le voci e i canti ripresi dal vero.
Tra il 1954 e il '55, con sette cortometraggi girati in Sicilia, a cui si aggiungono tre anni dopo altre quattro opere brevi realizzate ancora in Sicilia e poi in Sardegna e in Calabria, De Seta concentra il suo sguardo sul lavoro ritualizzato: i pescherecci, le miniere, i campi, il lavoro domestico; a dominare è una dimensione completamente collettiva: sono i grandi melodrammi del lavoro, della terra e del mare, in cui il quotidiano assurge a una dimensione epica.
Il lavoro nelle miniere di zolfo in alcune zone della Sicilia centrale è il soggetto di Sulfarara (1955). La telecamera segue i minatori all'alba avviarsi verso i pozzi e attendere che i compagni del turno di notte risalgano in superficie dopo le otto ore di lavoro.  Al tramonto li vediamo tornare come silouette che si stagliano sullo sfondo. “Era un tipo di inquadratura”, spiega De Seta a Goffredo Fofi, “scelta per sottolineare una condizione: i minatori non vedevano mai il giorno. Uscivano di casa alle prime luci, ancora al buio, e tornavano a sera; vedevano sempre il sole all'alba o al tramonto”.
Con i suoi film De Seta riesce a raccontare la vita quotidiana attraverso i vari mestieri: la pastorizia in Pastori a Orgosolo, la pesca e la vita in mare (Lu tempu di li pisci spata, Contadini del mare e Pescherecci), il lavoro nei campi di Parabola d'oro. Quest'ultimo, insieme a Un giorno in Barbagia – film interamente dedicato alla vita e al lavoro delle donne in paese – sono stati, secondo De Seta, i più difficili da girare, perché non c'è racconto, “solo gesti”.
D'altro canto De Seta stenta a inserirsi nel solco del documentario antropologico, e in special modo in quello d'ispirazione demartiniana, che apprezza, ma ritiene troppo improntato all'etnografia, mentre lui voleva “fare del cinema”. Ed è proprio la dimensione estetica – quasi operistica – che gli viene rinfacciata, così come gli viene rimproverato di non fare film abbastanza “impegnati”. Il fatto è che la poetica di De Seta, ben lungi dall'essere disimpegnata, ha una portata ampia, che non si risolve nel cinema di denuncia. Ciò che mette in scena è il rapporto – spesso duro – tra uomo e natura o la gigantesca solitudine dei pastori sardi e dei latitanti, molto simile a quella cantata da De André nel Canto del servo pastore. Una solitudine che può diventare quella di un'intera comunità, come nel film I dimenticati (1959), in cui viene raccontato l'isolamento di un paesino – Alessandria del Carretto, in provincia di Cosenza – raggiungibile solo attraverso un sentiero di 15 chilometri, che si può percorrere solo a piedi o con i muli.
“Il mio è stato un tentativo di raccontare la natura e la cultura contadina con una franchezza realistica ed epica”, spiega il regista, “Per me il 'mito' è la sacralità della natura, il fuoco delle isole Eolie, i riti dei pescatori che sono una specie di sistema religioso”.

Laura Antonella Carli