rivista anarchica
anno 44 n. 392
ottobre 2014





Vecchi e nuovi tutori dell'ordine filosofico

1.
I benpensanti di Alessandro Dal Lago (Il melangolo, Genova 2014) è un libro abbastanza inconsueto perché basato su un fitto dialogo tra due persone e, ciò nonostante, accurato e ricco nel riferire le fonti documentarie relative a ciò di cui si parla. Come tale, merita, innanzitutto, che persone coinvolte e natura del dialogo ricevano un minimo di attenzione. Comincio dalle persone. Una è Dal Lago, che firma il libro e che fu tra i firmatari di un saggio incluso nell'antologia intitolata a Il pensiero debole (Feltrinelli, Milano 1983) a cura di Pier Aldo Rovatti e di Gianni Vattimo. Sociologo, poco propenso al conformismo accademico, dotato di autonomia critica, ha pubblicato di recente almeno due volumi sull'arte (Mercanti d'aura, Il Mulino, Bologna 2006 e L'artista e il potere, Il Mulino, Bologna 2014, scritti entrambi insieme a Serena Giordano) intelligenti – più intelligenti di quanto si legga di solito sull'argomento – ma non privi di pecche (come misi in rilievo in L'aura fritta e i suoi cuochi, “A”, 36, 322, dicembre 2006-gennaio 2007). La seconda è un filosofo – più giovane -, uno di quelli che ambisce alla “abilitazione nazionale a professore associato” e che, dunque (!), deve “pubblicare il più possibile su qualche rivista in lingua inglese”. È questa la ragione per la quale, rimanendo nell'anonimato, non firma il libro insieme a Dal Lago (“non ti offendere, ma scrivere un libro con te su questi argomenti mi danneggia”). A conti fatti, va detto che fa bene a non firmare, ma per tutt'altre ragioni dalle sue: il suo apporto al dialogo è pressoché inesistente, interviene penosamente, non sa andare al di là del compitino di bravo studente e, purtuttavia, si dà arie di saccente mentre, a tratti, nei momenti in cui si rende conto di essere con il sedere per terra, assume toni fin rancorosi. Il loro, allora, è un dialogo zoppicante – tra chi ha qualcosa da dire e chi, non avendo nulla di proprio da dire, si arrabatta con presunzioni di scolastica memoria. Che quello che ha qualcosa da dire non se ne debba sentire granché soddisfatto – di un rapporto sterile - per me è ovvio, per lui, presumibilmente, no.

2.
Il sottotitolo del libro recita Contro i tutori dell'ordine filosofico ma, ben presto, nello sviluppo dell'argomentazione è chiaro che questi tutori di cui dovremmo liberarci sono i “neorealisti filosofici”, ovvero i nuovi sostenitori della vecchia tesi contraddittoria del “realismo” (gli stessi contro i quali ho scritto Festeggiamenti per il ritorno di chi non è mai partito, in “A”, 43, 378, marzo 2013), ovvero quella sorta di comitato d'affari costituito da filosofi come De Caro, Ferraris, Marconi e soci. Fra questi è ovviamente incluso l'interlocutore di Dal Lago che, avendo l'ardire (tutto da vedere se sbagliato del tutto, ma non certo in virtù delle argomentazioni sue) di sostenere che il “pensiero debole” avrebbe legittimato “la svolta irrazionalista” nella scienza e nella filosofia e, quindi, “la società dell'apparenza” e fin “il neo-capitalismo”, viene presto messo in riga dalle argomentazioni di Dal Lago. Sarebbe invece proprio il realismo che porta ad una politica autoritaria: “Se tu credi che il pensiero possa conoscere fino in fondo la realtà, penetrarla, come si suol dire, stabilisci una gerarchia in cui il pensiero è per definizione superiore alla realtà” e se i filosofi fossero i “professionisti del pensiero” ecco che a loro toccherebbe la massima competenza in ordine alla realtà – sarebbero loro gli unici in grado di cambiarla e rieccoci a Platone ed alla sua repubblica “governata dai filosofi”. “Termini o espressioni” come “realtà”, “in realtà”, “reale”, “realmente” e simili – questa è la tesi di Dal Lago - sono “indispensabili per dare un senso al discorso, per rafforzare un significato e così via, ma in sé significano ben poco”

3.
Potrei anche condividere con Dal Lago l'obiettivo polemico se lui, a questo punto, non ponesse limiti ben precisi alla sua eventuale espansione. Dall'accusa alla filosofia, infatti, non ne discende affatto la necessità della sua ripulsa. Ama la filosofia e nella filosofia ci sguazza – la ama fino al punto da definirla come il “pensare” stesso (evidentemente non ha pensato a quanto potrà durare questo suo impegno semantico: nel suo stesso libro se ne dimentica spesso) e ci sguazza fino al punto di distinguere fra filosofi “veri” e meno “veri”. Dice di aver “l'impressione che la filosofia non sia mai riuscita ad emanciparsi del tutto dalla teologia; che “c'è una certa filosofia (..) che vuole essere rigorosa, scientifica, libera dai condizionamenti e atemporale” - che è un tipo di “teologia secolarizzata”, mentre ne esistono altre, di filosofie – “dubbiose, ironiche, scettiche e un po' positiviste” -, che tendono ad allontanarsi il più possibile dalla teologia”, senza peraltro – sia chiaro – negare “affatto la teologia”, che, invece, “rispettano” senza volerne peraltro “prendere il posto”. E va da sé che alla seconda tipologia di filosofie appartenga proprio la sua. Dice di non aver nulla “contro chi riflette nel campo dell'essere” e il fatto che siano “duemilacinquecento anni che la filosofia se ne occupa” non lo mette in sospetto alcuno sulla legittimità o sensatezza dell'impresa e, anzi, anche si fosse “trattato di un equivoco”, essendo stato un “equivoco grandioso” sarebbe per lui, comunque, “degno di essere perpetuato”. Non solo. Senza dar segno di preoccupazione alcuna, dice anche che “il pensiero, filosofico, ma non solo” – considerato “come una dimensione che non è sempre autonoma” – si situa “in qualche punto di una catena concettuale o discorsiva dalle origini sconosciute o dimenticate” (troppe disgiuntive preoccupanti) e che, come tale, si é guadagnato “una dimensione istituzionale, accettata in quanto canonica e quindi trasmessa dalle istituzioni preposte, come l'università”.

4.
Date premesse scetticheggianti, è arduo – impossibile – sfuggire a conseguenze ineluttabili. Per esempio, relativamente alla storia che sarebbe “anche inevitabilmente fiction”. Come se gli potesse far dire quel che si vuole senza doversi sottomettere ad un criterio di coerenza narrativa. Per esempio, relativamente ai “personaggi” di questa storia, che, una volta che il loro pensiero sia stato piombato in reparti impermeabili l'uno all'altro, finiscono con il risultar buoni per tutte le stagioni. È il caso di Heidegger, riverito a pié sospinto, ed è il caso di Schmitt – altro nazista dichiarato -, perché, a dire di Dal Lago, “l'avversione che si può nutrire per il personaggio” – “pesantemente coinvolto nel Terzo Reich” – “non implica (...) alcun disinteresse per le sue idee, che talvolta sono assai brillanti”. Come se un'adesione attiva, attivissima, al nazismo possa non discendere dalle medesime matrici di pensiero da cui discende il resto. Come se dietro la brillantezza non possa o – in certi casi - debba nascondersi un'opacità purulenta.

5.
Merita una riflessione conclusiva l'atteggiamento dei dialoganti. Da dove proviene. Appartengono entrambi al tipo di persone che bazzicano i livelli “alti” della cultura. Persone che, se uno dice che “una teoria della giustizia distributiva può chiarire, se non ha pretese normative, i presupposti di un'azione politica che miri a un'uguaglianza sostanziale o una riduzione delle disuguaglianze”, l'altro è pronto a rispondere “Pensi a Rawls?”. Voglio dire che, se a me uno dicesse una frase del genere, cercherei, prima, di capire cosa significa e, una volta resomi conto che si tratta di una banalità qua e là peraltro non poco ambigua (come tante banalità: cosa sarà mai una “uguaglianza sostanziale” e che cosa la differenzia da una “riduzione delle disuguaglianze”?), chiederei con quali mezzi s'intenda raggiungere questo risultato, ma mai e poi mai mi verrebbe da citare qualcuno – qualcuno di “importante”, ovvero un “autore” – cui attribuire questa banalità. Il loro è dunque un dialogo zeppo di ammiccamenti mediatorii, di conferma o ricerca di un ruolo socialmente ratificato, dove la legge della concorrenza intellettuale predomina sul problema di cui si sta parlando. È un dialogo, insomma, tra “professionisti del pensiero” cui è lecito danzare da un punto di vista all'altro purché questo punto di vista abbia avuto l'onore di un riconoscimento disciplinare: “filosofo”, “filosofo amatoriale”, “sociologo”, perfino “anarchico” (“filosofo in senso an-archico”, dice Dal Lago inserendo il trattino nobilitante, “ovvero che si sforza di pensare liberamente i fondamenti” e implicito è che si tratti dei fondamenti delle discipline riconosciute).

6.
Questa fiducia nelle fortificazioni disciplinari, inconsapevolmente, si riflette anche nella scelta di una barzelletta cui far dire come “la logica, in certi casi, non sia che una dimensione verbale”. La racconto più o meno così com'é. Allora: un fisico e un matematico tornano da un congresso, cade l'aereo e si salvano soltanto loro insieme ad uno steward. Raggiungono a nuoto un'isola deserta e hanno anche la fortuna, sulla spiaggia, di recuperare una cassetta proveniente dall'aereo: dentro ci sono 30 scatolette di tonno. Litigano sul modo di aprirle e decidono che è meglio dividersi, ognuno per la propria strada con 10 scatolette ciascuno. Dopo un paio di settimane una spedizione di soccorso raggiunge l'isola. Trovano subito lo steward, lo trovano dimagrito ma in buona salute perché, nel frattempo, si è mangiato le sue scatolette di tonno: ha preso una pietra appuntita, ne ha usata un'altra come martello e, giorno per giorno, se l'è aperte. Dopo un po' trovano anche il fisico: è ridotto male, ma è ancora vivo. È riuscito ad aprire solo metà delle scatolette che aveva in dotazione, perché aveva studiato tutto un suo sistema per aprirle: trovato un giunco resistente e flessibile vicino alla spiaggia, ha posto una scatoletta su uno scoglio, calcolato la traiettoria, ha tenuto conto del vento e lanciato un sasso utilizzando il giunco come catapulta. Qualche chilometro più in là trovano anche il matematico. Morto. Nel pugno, però, tiene ancora stretto un biglietto. Sul quale i soccorritori leggono: “Poniamo per assurdo che le scatolette siano aperte”. Risate. O, almeno, risate per chi “sa” determinate cose, su chi può contare su una serie di impliciti che riguardano i “danni collaterali” delle assunzioni disciplinari – alla persona “normale”, in questo caso lo steward, si oppongono il fisico e il matematico, che, manco a dirlo, applicherebbero nella vita quotidiana i canoni delle rispettive discipline. Peccato, mi dico, che, al manipolo dei “salvati”, la barzelletta non aggiunga anche la figura del “filosofo”, perché, in questo caso, sarebbe stato interessante constatare tramite quale stolidità professionale si caratterizzi.

Felice Accame