rivista anarchica
anno 44 n. 392
ottobre 2014


dibattito

Cristianesimo e anarchia

di Antonio Di Grado


Si intitola “Appunti per una conversazione su (e fra) cristianesimo e anarchia” il saggio scritto da un docente dell'università di Catania, apparso recentemente nel suo libro “Un cruciverba italo-franco-belga: Sciascia-Bernanos-Simenon”. Ne pubblichiamo la parte finale, densa di spunti di riflessione. E di possibile discussione.


[...] Se i “poveri” non sono più solo i paria e i reietti, chi sono? La derivazione dal termine greco (ptochói) dell'italiano “pitocchi” mi ha fatto sempre pensare ai mendicanti: mendicanti dello Spirito, come chi si svuoti di sé per farsi abitare e colmare dalla Grazia. Attenuazione, dunque, della portata “sociale” del messaggio, ma arricchimento della sua valenza, per l'appunto, “spirituale”. Ma un dubbio mi assale: se quei poveri di pneuma, ossia del soffio dello Spirito, fossero proprio i disgraziati, i dis-graziati, chi la grazia non ce l'ha, i peccatori, gli irriducibili alla Rivelazione? Erano costoro, dopo tutto, che Gesù venne a incontrare per portarli con sé, non noi corretti e zelanti farisei, non noi colti, progressisti, laicamente sensibili alla portata culturale del Sacro.
Congetture, tutte possibili se si parla di quel Grande Irregolare, pronto a smentire qualunque definizione in cui lo si voglia imprigionare, a demolire qualunque altare in cui lo si voglia confinare. E tuttavia preferisco la secchezza “pauperistica” di Luca, così come amo più di tutti il nudo e aspro vangelo di Marco, che di beatitudini peraltro non fa cenno. Ma si tratta di scegliere? Certamente no. C'è solo da stupirsi e rabbrividire, di fronte alla stupefacente varietà (già ab initio) dei cristianesimi storici e dei cristianesimi possibili.
Ed è in questi, tanto più se devianti e irriducibili a qualunque ortodossia o istituzione temporale, che resta impresso il marchio dell'altrettanto irriducibile Figlio dell'Uomo, un marchio di estraneità e inappartenenza oppure di palese antagonismo: nelle eresie tardo-antiche e medievali, nella purezza dei catari e nel profetismo dei gioachimiti, nell'aperta ribellione dei seguaci di fra' Dolcino o di Ian Hus o di Savonarola, nel pauperismo dei valdesi e dei “fraticelli” francescani, nel nichilismo dei mistici e tanto più delle mistiche, che votano a Dio e al Cristo quell'abbandono saturo di erotismo al quale l'uno e l'altro anelavano, e ancora nell'emancipazione femminile che nasce (occorre ricordarlo) nei beghinaggi fiamminghi e renani. E naturalmente nella Riforma protestante, che rifiutando ogni delega al ceto sacerdotale e ogni sacralità alle sue liturgie e istituzioni, proclama il sacerdozio universale, ovvero il libero e non più mediato rapporto del credente, di ogni credente, con Dio e con la Scrittura: oggetto, quest'ultima, nelle frange più radicali della Riforma, di “libero esame”, di libera interpretazione individuale. E se Max Weber addebiterà, a torto o a ragione, al calvinismo la nascita dello “spirito del capitalismo”, è comunque vero che da quel ceppo, e se non dalla Ginevra di Calvino certo dal succedersi sulla scena di anabattisti, levellers, quaccheri, unitariani (a questi ultimi si avvicinarono Mazzini e Garibaldi), verranno fuori il liberalismo radicale e tanto più il social-comunismo ottocentesco.

L'originale contributo del protestante Jacques Ellul

Movimenti, dunque, più che chiese, come quelle che nell'arcipelago protestante si sono irrigidite e sclerotizzate soprattutto laddove sono maggioritarie; e tuttavia la stessa moltiplicazione di tendenze e credi in quell'arcipelago fa fede di una feconda pluralità, affine a quella dei cristianesimi primitivi e alternativa al rigido assetto monarchico della chiesa cattolica. E proprio un teologo protestante, Jacques Ellul, protagonista nella Resistenza antinazista e autorevole membro della Chiesa Riformata francese, è stato nel secolo trascorso il più convinto sostenitore della convergenza di cristianesimo e anarchia. Nel suo libro, intitolato appunto Anarchia e cristianesimo, Ellul sostiene le ragioni di un «anarchismo pacifista, anticapitalista, etico e antidemocratico (cioè ostile alla falsa democrazia degli Stati borghesi)», altro rispetto alla gran parte dei movimenti anarchici e non solo per il suo pacifismo ma perché, tributario dell'antropologia pessimista biblica ed evangelica, Ellul rifiuta la «duplice convinzione che l'uomo è buono per natura e che è la società a corromperlo», su cui si fonda l'idea tradizionale di anarchia, per ciò stesso a parer suo impraticabile.
L'anarchia di Ellul si contrappone tanto alla statolatria e alla tecnocrazia quanto alle “religioni”: Gesù non voleva, non doveva fondare una religione; e «la verità non è né un insieme di dogmi, [...] né una dottrina, e neppure la Bibbia [...]. La verità è una persona», è un Dio che muta, diviene, libera. È l'amore. Vengono in mente, per questo suo contrapporsi alle “religioni” consolidate e istituzionalizzate, un altro teologo protestante, il più grande del secolo scorso, Karl Barth, che drasticamente opponeva “fedi” e “religioni”, e un grande scrittore laico ma di matrice ugonotta, André Gide, che sognava di scrivere un libro da intitolare Le Christianisme contre le Christ: il cristianesimo contro il Cristo, la fede tradita dalle chiese, da ogni chiesa.
Ma è ancora Ellul a rovistare nell'Antico e nel Nuovo Testamento alla ricerca, tutt'altro che difficile, di proposizioni (come dire?) proto-anarchiche. E le trova nel Libro dei Giudici, in quello di Samuele, nei profeti che si levano contro i tiranni ponendosi come «contropotere», e naturalmente nell'Ecclesiaste, l'implacabile Qohelet che mette in discussione ogni forma di potere come fonte di iniquità e ogni forma di aggregazione umana come causa di oppressione. E nei Vangeli, ecco le tentazioni, che annettono al dominio del diavolo la potenza e la gloria dei regni (e diabolos, ricorda Ellul, significa «colui che divide», come a dire che «lo Stato e la politica sono il grande fattore di divisione fra gli uomini»); o il “date a Cesare”, interpretato questa volta in chiave nonviolenta, come esortazione «non tanto a combattere questi re quanto a lasciarli da parte e a costituire ai margini una società diversa, una società dove non ci sia né potere, né autorità, né gerarchia»; o ancora la resistenza passiva di Gesù al Sinedrio, che non riconosce alcun potere alle autorità mondane.
E resistenza passiva, azione nonviolenta, disobbedienza civile furono i crismi dell'anarchismo cristiano che si sviluppò tra Otto e Novecento. E prese vigore a contatto degl'interminati spazi della frontiera americana, tra i quaccheri della Pennsylvania, renitenti a guerre e gerarchie, e il mitico lago Walden dove nel 1845 si ritirò Henry David Thoreau, che nella “vita nei boschi” trovò il respiro giusto per animare la “disobbedienza civile” e, nel suo religioso rifiuto d'ogni norma e costrizione (murder to the State, delitto contro lo stato, fu defnita la sua dottrina), intrecciare il trascendentalismo di Emerson con il socialismo utopistico di Fourier, l'egualitarismo puritano e il deismo degli unitariani con vistosi echi delle filosofie e delle religioni dell'Estremo Oriente.
Predicava e praticava la disobbedienza alle leggi, esortava a una “dimissione” generalizzata e si vantava di non essersi «mai bruciato le dita con un possesso vero e proprio»; e ribaltando il concetto stesso di proprietà, aggiungeva: «per molti anni il proprietario non si accorge che quando un poeta ha cantato in versi il suo podere, e vi ha tessuto intorno una specie di meravigliosa siepe, in effetti ne ha preso possesso, l'ha munto, scremato, e ne ha preso la parte migliore, lasciando al contadino solo un po' di latte scremato».

Anarchia evangelica

Da questi nutrimenti terrestri, da questo deismo panico trae alimento l'utopia cristiana, sconfessata dalla chiesa ortodossa, di Lev Nikolaevic Tolstoj, il grande scrittore russo che tuttavia, scrivendo lungo il crinale tra Otto e Novecento, deve misurarsi con un movimento anarchico ormai più che adulto, e con l'ondata di attentati anarchici che sconvolse l'Europa in quei decenni. E fino a un certo punto li giustifica, perché giudica le stragi in guerra e le esecuzioni volute da quei regnanti «incomparabilmente più crudeli degli assassinii commessi dagli anarchici», e tuttavia li ritiene vani, come tagliar la testa al mostro delle fiabe cui ne ricrescerà subito un'altra: giacché i colpevoli delle oppressioni e degli assassinii non sono quei re o kaiser o zar ma il sistema sociale che li ha prodotti; in ultima analisi, cristianamente, colpevole è l'egoismo degli uomini, votati al servaggio in cambio del proprio tornaconto.
Ma da quel suo cristianesimo senza aldilà, dal suo Cristo non divinizzato, la sua anarchia evangelica ricava convinzioni altrettanto drastiche di quelle dei regicidi: «La promessa di soggezione a qualsiasi governo, quest'atto che si considera come la base della vita sociale, è la negazione assoluta del cristianesimo, perché promettere anticipatamente di essere sottomesso alle leggi elaborate dagli uomini, significa tradire il cristianesimo il quale non riconosce, per tutte le occasioni della vita, che la sola legge divina dell'amore». E forte di questa legge di fraterna e operosa pietas, di questa lucidità superumana, può smascherare tanto la «superstizione del progresso» quanto il destino inevitabilmente totalitario e dispotico, che si consumerà tragicamente da lì a poco nella sua Russia, delle rivoluzioni fatte in nome e per conto del popolo.
A Thoreau si rifarà esplicitamente anche il Mahatma Gandhi, che non rientrerebbe tuttavia nel filone di anarchismo cristiano che stiamo seguendo, se non fosse per l'ampia eco che proprio nell'Occidente cristiano suscitarono il suo magistero e la sua prassi di non violenza, resistenza passiva, antistatalismo e “illuminata anarchia”, congiuntamente alla sua religiosità accordata a quel respiro cosmico che i cristiani chiamano Spirito. Tra gli altri, tra i tanti che intesero importarne la filosofia e la lotta, mi piace perciò ricordare una figura solitamente ignorata: quella di Giuseppe Lanza del Vasto, di lignaggio siciliano e formazione parigina, letterato e filosofo, amico di Gide e Valery, che dopo un viaggio iniziatico in India e l'incontro decisivo col Mahatma, intese conciliare il proprio cristianesimo (delle cui matrici evangeliche gli appariva piuttosto l'induista Gandhi il più autentico interprete) proprio con il pantheon e le scritture dell'induismo; e veicolare in Europa, lui che Gandhi aveva ribattezzato Shantidas (“servitore di pace”), il pensiero e l'azione gandhiani mediante la creazione di comuni agricole nonviolente, le comunità dell'Arca, ancora vive soprattutto in Francia.
Dell'importanza del gandhismo riuscì a convincere anche Simone Weil, inizialmente scettica; e quelle comunità di meditazione e lavoro dei campi, di uguaglianza e condivisione, di creazione artistica e scolarizzazione antiautoritaria fiorirono nell'inferno del secondo conflitto mondiale, facendo fin d'allora da centro d'irradiazione di pacifismo nonviolento, manifestazioni in favore dell'obiezione di coscienza e della riforma della chiesa, contro gli armamenti, contro il nucleare, contro la guerra d'Algeria. A un Occidente scristianizzato Lanza indicava l'orientale “pellegrinaggio alle sorgenti” come nuovo vangelo; e di Gandhi come figura Christi scriveva: «Colui che vado a seguire assomiglia in tutto al mio Signore. Non ha che un mantello e non porta denaro nella sua cintura. Non si preoccupa di sapere cosa mangerà domani e di che cosa si vestirà. Ha sofferto tribolazioni per fame e sete di giustizia. Ha teso la guancia sinistra quando hanno colpito la sua guancia destra. È venuto per servire, come il mio Signore. Gli sono grato di non essersi servito del nome del mio Signore, per regnare sugli uomini».
Altre figure, altre fedi andrebbero ricordate: e tra queste l'anarchismo evangelico del “povero cristiano” Ignazio Silone, che nel francescanesimo e nell'anarchia riconobbe le forme di «ribellione al destino» e di «attesa del Regno» più confacenti agli «spiriti vivi». Ma questo elenco di nomi non può che finire con quello, poc'anzi citato, di Simone Weil. Cristiana senza chiese, anarchica per convinzione intellettuale ma ancor più per scelta di vita, spesa in un penoso esilio tra studio, lavoro in fabbrica e la partecipazione alla guerra di Spagna, Simone denunzia la menzogna democratica, la vocazione totalitaria dei partiti, il «rovesciamento della relazione tra fine e mezzo» su cui si fonda la politica, e propugna libere aggregazioni caratterizzate dalla stessa «fluidità», continuamente scomponibile e ricomponibile, che caratterizza le dinamiche del pensiero individuale e i flussi delle opinioni collettive.

Occorrerà pensare diverso

All'odio di classe che Marx poneva come vettore di trasformazione sociale, ma che è destinato a instaurare gerarchie e poteri altrettanto illiberali di quelli soppiantati, Simone oppone uno “spirito di rivolta” che è nella natura stessa dell'uomo e impose allo stesso Cristo quel grido rivolto dalla croce al Dio che l'aveva abbandonato. Nemica di quella «macchina dello Stato» che viceversa è un feticcio per i partiti operai, e sostenitrice di un cristianesimo nemico dell'ordine costituito e dei valori dominanti, Simone vorrebbe liberare quel cristianesimo dall'opprimente ipoteca di Gerusalemme e di Roma, del Tempio e del Palazzo, della feroce angustia dell'Antico Testamento e dell'asservimento della religione di stato. E perciò ne dilata i confini annettendovi il Bhavagad Gita e l'Iliade, le segrete armonie dei pitagorici e l'onirico nichilismo dei mistici: il suo è un cristianesimo dell'amore e della rinunzia (Dio per primo ha rinunziato, creando, all'illimitatezza del suo potere e alla purezza del suo essere), dello svuotamento dell'Io e dell'amore fra un Dio e un uomo altrettanto “svuotati”, impotenti, traboccanti di desiderio insoddisfatto. E ancora, come annota nei Quaderni: «Credere che niente di ciò che noi possiamo afferrare è Dio. Fede negativa. Ma credere anche che ciò che non possiamo afferrare è più reale di ciò che possiamo afferrare. Che il nostro potere di afferrare non è il criterio della realtà, ma al contrario inganna».
Rinunciare ad “afferrare” equivale a mio avviso a svuotare l'arroganza imperialistica dell'Io, a cercare altri criteri e logiche che non siano di possesso, a far nostra la “fluidità” e l'impermanenza del cosmo adattandovi un pensiero mobile, inappagabile, autocritico, irriducibile ai metodi e ai canoni imposti dal pensiero dominante. Scriveva Andrea Caffi, straordinaria figura di ribelle cosmopolita, libertario e pacifista: «Non basta mettersi alla ricerca di altre 'soluzioni': bisogna prima di tutto escogitare un altro modo di impostare i problemi stessi».
E Albert Camus, che fu suo amico: «Nella rivolta, l'uomo si trascende nell'altro e, da questo punto di vista, la solidarietà umana è metafisica». E infatti Camus diffidava, lui laico, dal confondere la rivolta con l'ateismo: «Più che negare, l'uomo in rivolta sfida. [...] non sopprime Dio, gli parla semplicemente da pari a pari. Ma non si tratta di un dialogo cortese». Infatti, come aggiunge con parole non molto diverse da quelle della Weil: «Egli trascina quest'essere superiore nella stessa avventura umiliata dell'uomo, il suo vano potere equivalendo alla nostra vana condizione».

Alla ricerca di modalità diverse

Ecco perché, sfidando una secolare diffidenza anticristiana dei padri dell'anarchia ottocentesca (ma di omaggi a un Cristo umiliato e offeso, povero tra i poveri, quella stessa letteratura è prodiga), mi sono proposto di parlare di anarchia e cristianesimo, e di chi credette nell'equivalenza o comunque nel possibile connubio tra i due termini. Si continua a pensare all'anarchia come alla fosca utopia d'una realtà futura e come al caos distruttore; e invece è o dovrebbe essere la semplice individuazione di modalità diverse e antiautoritarie di organizzazione, di associazione, di scambio nonché di concezione del mondo già ben presenti nella realtà in cui viviamo, e prosperanti negli interstizi di questo mondo asservito a potere, gerarchie, sopraffazione, speculazione. Facile, per i tirannicidi, i libertari e gli anarchici d'un tempo, attaccare il Potere, quando questo si identificava con la persona del despota. Oggi non solo il Potere è polverizzato, ma è astratto, virtuale, sovrapersonale: perciò chi dice di combatterlo non sa e non può che suggerire la sostituzione o la riparazione d'un suo infinitesimo e irrilevante tassello, e perdersi in un gioco illusorio  di specchi. Perciò, se non è più a quelle sagome che bisogna mirare, occorrerà frantumare quegli specchi, per eliminarne il riflesso mendace sulla nostra distorta e passiva percezione del reale. Occorrerà, in altre parole, pensare diverso: abbandonare i vecchi ragionamenti appresi dai notiziari e dalle tribune e la logica stessa, intimidatrice e abitudinaria, che li articola; coltivare stranianti utopie, azzardati paradossi, lingue sconosciute.
O fedi tradite dalle chiese, ma vive nel cuore degli umili; fedi come quella fondata sull'insostenibile scandalo della Croce, su un Dio che si umilia (incarnandosi Egli stesso o riconoscendo in un uomo un suo emissario: poco importa, né potremo mai saperlo almeno in questa vita, se altre ce ne sono) per manifestarsi, all'uomo, non solo compassionevole ma altrettanto dolorante, e per condividere con lui – qui e ora – una speranza di riscatto, di drastico mutamento. L'anarchico fa a meno delle istituzioni e si sottrae alle norme con la stessa grazia innocente con cui Francesco si spogliò delle vesti. È ovunque uno straniero, di ogni appartenenza e credenza si libera con lo stesso gesto agile e sprezzante. Fa il vuoto dentro e attorno come un mistico in estasi, anela al regno a venire come i mendicanti dello spirito delle Beatitudini, sfiora incontaminato il caos con la leggerezza di Ariel, balbetta parole incomprese di bellezza come il principe Myskin, l'“idiota” del grande (e cristiano) Dostoevskij: se idiota, per questo mondo, vuol dire diverso e anzi discorde, difforme, inspiegabile, irrecuperabile, straniero.

Antonio Di Grado