rivista anarchica
anno 44 n. 393
novembre 2014


anarchiche

La mia doppia identità. Negata.

di Audrey Goodfriend


A Venezia, nel 2000, il Centro Studi Libertari di Milano organizzò il convegno di studi “Anarchici ed ebrei, storia di un incontro”.
Dagli Stati Uniti venne un'anarchica ebrea, che a un certo punto della sua vita decise di non definirsi più ebrea.
Nel suo intervento spiegò perché.


Qando mi è stato chiesto di partecipare a una tavola rotonda su «Anarchici ed ebrei: la doppia identità», ho avuto l'impressione di non essere la persona adatta, e ancora adesso mi sento un po' fuori posto, per i motivi che spiegherò più avanti, ma essenzialmente perché non mi riconosco davvero in una doppia identità. Nonostante tutto.
Nonostante il fatto, ad esempio, che io sia nata proprio in seno al movimento anarchico ebraico. Mio padre era arrivato negli Stati Uniti dalla Polonia. Era, allora, socialista, ma diventò anarchico mentre lavorava in una legatoria a Chicago. Mia madre, che veniva da un piccolo shtetl (villaggio) polacco, venne introdotta nell'ambiente del «Freie Arbeiter Stimme» da suoi amici di Newark (New Jersey). Poi sono nata io, proprio in mezzo al movimento anarchico yiddish, come dicevo. Da bambina assistevo a molte delle discussioni cui partecipavano i miei genitori. Mio padre era membro della Yiddishe Anarchistike Federazie ed era anche segretario di un gruppo di mutuo appoggio del Workmen's Circle, chiamato Ferrer Center Branch (divenuto più tardi Ferrer-Rocker Branch). Così la mia infanzia fu piena di anarchismo e anche di cultura yiddish. I miei genitori, infatti, ritenevano di dover allevare la loro figlia nella conoscenza della lingua yiddish e della sua tradizione culturale: pur crescendo a New York, non ho parlato inglese finché non sono andata a scuola.

Audrey Goodfriend (1920 New York City -
2013 Berkeley, California)
in una foto di fine anni Trenta

Andammo a vivere in una cooperativa di ebrei di sinistra, tutti operai, che si impegnavano a conservare la cultura yiddish: la Sholem Aleichem Cooperative. La cooperativa aveva organizzato una scuola, che noi bambini frequentavamo ogni giorno dopo la scuola pubblica, dove si insegnava a leggere e scrivere lo yiddish. Fu così che cominciai a leggere il «Freie Arbeiter Stimme». Ero una bambina precoce e i miei genitori amavano farmi recitare poesie anarchiche yiddish; ad esempio una di Yusef Buvshever, di cui ricordo ancora qualche verso: «A velt un hersher, un gershte, d'us iz Anarchie» (Un mondo senza governanti e senza governati, questo è l'anarchia)...
Bene, quando ebbi undici anni diventai anarchica davvero, dopo avere letto L'ABC del comunismo anarchico di Alexander Berkman, un'esposizione elementare delle idee libertarie. Qualche anno dopo uscì l'autobiografia di Emma Goldman. La lessi e – wow! – ero proprio anarchica convinta. Continuavo a leggere il «Freie Arbeiter Stimme», ma il movimento anarchico yiddish era in fase di declino, a New York e – penso – un po' in tutti gli Stati Uniti. Molti anarchici ebrei erano diventati comunisti negli anni Venti e, all'inizio degli anni Trenta, il movimento era triste e per di più era sempre senza soldi. Così, alcuni di noi, figli di anarchici e lettori noi stessi dello «Stimme», formammo un piccolo gruppo con lo scopo di raccogliere fondi per il giornale: ci chiamavamo Yunge Adler, cioè Aquilotti.

Audrey con i suoi genitori, anche loro
anarchici, quando viveva nei Sholem
Aleichem Apartments (ca. 1924), un
progetto edilizio cooperativo situato
nel Bronx al quale partecipava tutta la
sinistra radicale del movimento yiddish

Tuttavia, quello che mi accadde fu che, riflettendo sulle idee anarchiche, trovavo sempre meno congeniale quello che leggevo sul «Freie Arbeiter Stimme». Ad esempio, durante gli anni della Grande Depressione, molti compagni caldeggiavano l'elezione di Franklin Delano Roosevelt. Era, questa, una cosa che non riuscivo a capire e cominciai ad avere dei dubbi sul movimento anarchico yiddish. Mi misi a leggere sempre di più e sempre di più altri periodici anarchici. All'epoca, inoltre, ero molto presa da quanto stava succedendo in Spagna. Anche il movimento anarchico yiddish sosteneva gli anarchici spagnoli, ma difendeva la loro decisione di entrare nel governo repubblicano. E anche questo mi diede da pensare. Che cosa stava succedendo alle idee anarchiche tra i nostri compagni ebrei?
Più tardi, «Freie Arbeiter Stimme» cominciò a parteggiare per l'entrata in guerra degli Stati Uniti, sostenendo che la cosa più importante era sconfiggere Hitler. Anche questo mi pose seri problemi, perché credevo che gli anarchici non dovessero essere coinvolti negli Stati e nelle loro guerre.
Ebbi delle accese discussioni con mio padre. Lo feci addirittura inferocire quando gli dissi: «sono più in ansia per i nostri compagni anarchici nei campi di concentramento francesi che non per la tua famiglia, una famiglia che io neppure conosco». Anni dopo, da adulta, mi sono resa conto che la mia impetuosità giovanile me l'aveva fatta dire un po' grossa. Anche perché, da buona internazionalista, penso naturalmente che nessuno dovrebbe essere internato o peggio ancora ucciso, di chiunque si tratti, in qualunque parte del mondo.
Poi, quando nel dopoguerra sul «Freie Arbeiter Stimme» ci fu un durissimo scontro sul sostegno da dare al costituendo Stato di Israele e il direttore d'allora, Herman Frank, contrario alla forma-Stato, venne dimesso, rimasi molto turbata. E decisi che non mi sarei più definita ebrea. Ed eccoci alle perplessità che ho esposto all'inizio del mio intervento a proposito della mia «doppia identità».
Provengo da un background ebraico, non c'è dubbio, e amo la cultura yiddish, ma non sono minimamente religiosa e non sostengo le idee sioniste, vale a dire che non possiedo le due caratteristiche che, agli occhi del mondo, definiscono l'ebraicità. Per questo continuo a dire «non sono ebrea». La cosa buffa è che tutti dicono che sono quanto di più ebreo si possa immaginare, ma questa è tutta un'altra faccenda.

Audrey insieme alla figlia Nora Koven, anche lei attiva
nella scuola autogestita “Walden” di Berkeley

Facendo un piccolo salto in avanti nel tempo... mi sono impegnata in attività educative e, in particolare, sono stata tra i promotori della Walden School di Berkeley (California), fondata su principi libertari. Proprio agli inizi di quella attività, mentre portavo a scuola un gruppo di ragazzini, attorno ai sei anni di età, li sentii discutere del loro ambiente familiare, delle loro origini. Un ragazzino disse: «sono ebreo». Una ragazzina disse: «be', io sono mezza ebrea e mezza virginiana, perché mia madre è ebrea e mio padre viene dalla Virginia, perciò sono metà e metà». Mia figlia (figlia mia e di David Koven, anche lui anarchico) disse: «anch'io sono mezza ebrea, perché mio padre è ebreo e mia madre è una persona normale». Da allora è una specie di scherzo familiare dire che io sono la parte normale della famiglia.
Ritornando un po' indietro, dopo essermi resa conto che non avevo nulla a che fare con la guerra mondiale, io e alcuni altri giovani anarchici ebrei ci mettemmo insieme a degli anarchici italiani di New York e formammo un gruppo di cui faceva parte, tra gli altri, anche Paul Goodman. Molta della nostra attività era di tipo antimilitarista. Mi sentivo molto vicina al movimento anarchico italo-americano, di cui appresi alcune canzoni. Ascoltando ieri sera, durante l'incontro conviviale, la canzone «Nostra patria è il mondo intero, nostra legge è la libertà» mi sono sentita riportare indietro a quei tempi, a New York. Giorni bellissimi di pic-nic e feste organizzate per raccogliere fondi per la resistenza antifascista. La cosa curiosa è che, se pure io non mi considerassi un'anarchica ebrea nel movimento italiano, ma semplicemente un'anarchica, i nostri compagni parlavano di me proprio come della «ragazza ebrea»...

Audrey Goodfriend


Un ricordo molto personale

di Rossella Di Leo

Audrey Goodfriend ha concorso in modo essenziale alla mia “educazione sentimentale” anarchica. Insieme a qualche altra persona – tutti maschi gli altri: Pio Turroni, Louis Mercier Vega, Tony Martocchia, Attilio Bortolotti – mi ha trasmesso uno “spirito” comunitario che s'impara solo nella pratica esistenziale quotidiana. Tutte queste persone, pur se molto diverse tra loro (e tutte molto più anziane di me), mi hanno consentito di conoscere, attraverso i loro racconti di vita e militanza, un anarchismo che si incarnava in uomini e donne concrete, dando sostanza e prospettiva storica a quella visione del mondo che già condividevo.
Non sorprendentemente ho conosciuto Audrey nel 1980 al Simposio internazionale anarchico che nel febbraio di quell'anno si teneva a Portland, nell'Oregon. Io stavo facendo un lungo giro coast to coast in Nord America che mi aveva fatto entrare in contatto sia con il nuovo anarchismo americano (alla Goodman e alla Bookchin, per intenderci), sia con il vecchio anarchismo italo-americano (in particolare quello attorno a “L'Adunata dei Refrattari”), che si stava estinguendo per ragioni anagrafiche. Forse, nell'interesse di Audrey a conoscere “la compagna italiana” c'era un riflesso di quel legame che da sempre l'aveva legata al movimento italo-americano, sia sulla costa Est, quando ancora abitava a New York, sia sulla costa Ovest, dove si trasferì nel 1946 insieme al suo compagno, David Koven. D'altronde, questa speciale vicinanza tra movimento italo-americano e movimento yiddish è un tratto tipico dell'immigrazione anarchica negli Stati Uniti che andrebbe indagato per capirne meglio le ragioni.
Comunque, ci conosciamo a Portland e, venendo a sapere che avrei passato qualche tempo nella zona di San Francisco, subito mi invita a stare da lei, a Berkeley. Lì nasce la nostra amicizia, fatta di racconti (a cominciare dal suo incontro con Emma Goldman, quando diciottenne va a Toronto per conoscerla), di incontri con la pletora di anarchici attivi nella Bay Area (per principio Audrey tiene buoni rapporti con tutte le sfaccettature anarchiche, anche le più bislacche), di pazienti lezioni di inglese da parte di chi aveva lungamente insegnato… E certamente l'esperienza della Walden School and Community, che ha fondato con David e altri alla metà degli anni Cinquanta, è per lei un punto centrale della sua vita e della sua militanza. Non solo ci insegna fino al 1971, ma le figlie, Nora e Diva, sono tra i primi studenti a compiere l'intero ciclo educativo. Per Audrey questo esperimento educativo autogestito capace di durare per decenni – la scuola è tuttora operante – è un vivere l'anarchia che rispecchia bene il suo modo di agire, un modo nel quale mi sono riconosciuta.

Rossella Di Leo

testo già apparso nel Bollettino dell'Archivio Pinelli, n.41, 1/2013.