rivista anarchica
anno 44 n. 393
novembre 2014


debito

Conti in ordine e retorica

di Andrea Papi


L'imposizione sociale, politica ed economica aumenta a tutti i livelli, si dilata, è inarrestabile, inafferrabile e anonima.
Ci avviluppa quotidianamente.
Non è facile identificarla né combatterla.


La cosa attualmente più rilevante è l'irrilevanza sostanziale delle politiche nazionali. In Italia è di un'evidenza sconcertante. Da quando la cosiddetta crisi ha ufficialmente preso avvio, infatti, si sono alternati dei governi molto simili tra loro, denominati di “larghe intese”. Uno dopo l'altro hanno bellamente fallito il compito di “portarci fuori dal guado”. In realtà si tratta di accozzaglie politiche per una sbandierata “salvezza nazionale”, reiterata proposizione seriale di un reazionario “patto di ferro” conservativo tra le forze più autoritarie degli schieramenti di destra e sinistra. Dopo la decadenza da premier di Berlusconi per ostentata inadeguatezza, presentati ogni volta con gran suono di fanfare sono stati approntati prima Monti, poi Letta, ora Renzi. Uno dopo l'altro hanno mostrato e continuano a mostrare la più completa incapacità a risolvere i problemi che ci assillano. Al contempo, avendone annullato senso finalità e differenze, stanno dimostrando quanto sia menzognera e fallace la ripartizione istituzionale tra destra e sinistra, ridotte a meri schieramenti per spartizioni di poltrone e di potere.
Tutti incapaci? Oppure c'è qualcosa di sovrastante che oggettivamente non permette d'intervenire in modo adeguato? Accanto a competenze vistosamente poco brillanti, non di rado incompetenze, emergono con sempre maggior forza un insieme di condizioni che limitano e circoscrivono qualsiasi intervento atto a governare lo stato delle cose. Le politiche nazionali appaiono sempre più in ostaggio, indotte a scegliere ed agire da pressioni che vedono in gioco egemoniche potenze sovrastatali capaci di vincolare pesantemente. I vari management italiani succedutisi negli ultimi decenni, essendosi divertiti in più che allegre gestioni incuranti delle conseguenze, hanno costruito addosso a tutti noi situazioni che si stanno dimostrando particolarmente devastanti. I vari mediocri politici di turno non riescono a liberarcene (o non vogliono?), rendendole vieppiù intricate e inestricabili.
Osservando i fatti e lo svolgersi delle cose, cercando di coglierli nel loro compiersi naturale non per come si subiscono, sono sempre più convinto che all'interno dell'esistente non sia possibile trovare soluzioni che vengano incontro alla popolazione nel suo insieme. La plumbea situazione vigente, equiparabile a un soffocante sistema gordiano, pur continuando a modificarsi non muta propensione e fondamenti originari. Ad ogni atto sembra voler garantire e rafforzare lo status di disparità, disuguaglianze e ingiustizie che opprime da millenni le categorie sociali sottoposte. In questa fase la grandissima quantità di quelli che non contano sta subendo asfissianti controlli e pesanti manipolazioni eco/tecnologiche, mentre le oligarchie finanziarie dominanti e le schiere dei loro accoliti si stanno rimpinguando abbondantemente.
Occorre uno sguardo diverso, capace di porsi oltre l'apparenza dell'esistente e ansioso di scrutare orizzonti che finora sono apparsi imperscrutabili. In tal senso la fisica quantistica ci offre una chiave di lettura illuminante. “Quando cambi il modo di osservare le cose, le cose che osservi cambiano”, ci suggerisce uno dei suoi presupposti fondanti. Dobbiamo innanzitutto smettere di decifrare la realtà attraverso il filtro di schemi interpretativi che non sono più in grado di comprenderla, addirittura di vederla. Se capissimo e accettassimo la radicalità incontrovertibile del fatto che sono proprio i fondamenti dell'esistente la causa principale dei disastri che continuamente i governi cercano di rattoppare, forse riusciremmo a concentrarci sulla ricerca di scelte che, volendo superare e annullare l'esistente, cerchino d'impostare fondamenti diversi da quelli che ci opprimono.
Ci renderemmo allora conto che la radice dei problemi che ci attanagliano è a monte e ci accorgeremmo che ciò che dobbiamo risolvere non è tanto la percentuale dello spread, o un'efficiente spending rewiew o l'ammontare del debito o tutte le altre gabbie socioeconomiche con cui è stato imprigionato il presente stato di cose. Adesso ci viene trasmessa l'urgenza di doverne dipendere perché ci troviamo dentro il gorgo irrisolvibile di una spirale finanziaria attanagliante impostata ad hoc. In particolare il debito pubblico, madre malefica di tutti i disastri che c'incatenano, che non abbiamo fatto noi individui senza potere ma ci è stato cucito addosso dall'ingordigia di chi domina, in quanto tale esiste solo se riconosciuto. “Un debito è solo la perversione di una promessa. È una promessa corrotta dalla matematica e dalla violenza” (Debito, di David Graeber, pag. 379). Nasce migliaia di anni fa in concomitanza col denaro per rendere schiavo chi era debitore ed ha continuato a sussistere, perfezionandosi, nei diversi contesti succedutisi. È un'entità astratta guidata da spinte dominatrici e direzionata a produrre effetti concreti rovinosi.
Illuminante in tal senso il trattamento regalato alla Germania sconfitta dalla seconda guerra mondiale. Oltre a ricevere gli aiuti del Piano Marshall per la ricostruzione, come ogni altro stato alleato europeo, “nel 1948 l'America decise semplicemente di abbuonare tutto il debito accumulato dalla Germania durante il regime nazista di Hitler. Il debito pubblico della Germania nel 1948 ammontava al 675% del Pil nazionale. Più del quintuplo dell'attuale debito pubblico italiano” (Banchieri, di Federico Rampini, pag. 24). La Germania dunque, che all'interno dell'Europa sta imponendo la dittatura di condizioni capestro in nome di un preteso rigore (sugli altri che adesso dipendono dalla sua forza), è riuscita a diventare la potenza tirannica che è proprio perché le è stato concesso ciò che ora impedisce ad altri con tutte le proprie abbondanti forze. Una tale arroganza è una dimostrazione eloquente che i debiti sono massacranti non in virtù propria, ma perché ingiunti per volontà di potenza non necessarie.

Vincoli inscindibili

Le forze oggi dominanti sembrano volerci letteralmente massacrare. Lo fanno con modalità più ambigue e raffinate della classica guerra guerreggiata, che comunque all'occorrenza viene messa in atto senza scrupoli, seminando rovine di vite distrutte invece delle macerie fumanti dei bombardamenti. Il fondamento del potere è sempre di più una specie di “costrizione obbligante”, la messa in opera di vincolanti condizioni oggettive cui non riesci a sottrarti. Mentre il classico vecchio esercizio del comando, cioè la costrizione attraverso imposizioni date da ordini gerarchici, è sempre meno efficace e più obsoleto.
La creazione del “debito istituzionale insolvibile”, che lega mani e piedi a creditori finanziari potenti, la pretesa di dover tenere “conti pubblici in ordine”, sciolti dalle responsabilità personali degli amministratori e che intrappolano intere popolazioni artatamente amministrate, la creazione sistematica e continua di norme e leggi che regolamentano ogni movimento e ogni aspetto della vita quotidiana individuale, sono macro/aspetti di normazione quotidiana che creano volutamente una “costrizione obbligante”, capace di rendere infernali le vite delle persone, completamente assoggettate e senza nessuna possibilità di replica o soluzione.
L'imposizione sociale politica ed economica, aumenta a tutti i livelli, si dilata, è inarrestabile, inafferrabile e anonima.
Di fronte a questa aggiornata forma di dominio totalizzante decadono le vecchie modalità di lotta, perché perdono di senso le logiche antitetiche del “muro contro muro”. Non ci si può contrapporre né fare guerra né serve combattere, perché subiamo costrizioni indirette più che imposizioni dirette. La lotta per la libertà allora non può che esprimersi attraverso la ricerca di come sottrarsi alle condizioni obbliganti, per riappropriarsi in pieno di autonomia di scelta e decisione, cioè riappropriazione della politica come riferimento principale della gestione comunitaria, questa volta non gerarchica e autenticamente autogestita.

Andrea Papi