rivista anarchica
anno 44 n. 394
dicembre 2014 - gennaio 2015


dossier Storia

Cent'anni dopo

di Piero Brunello

Uno sguardo originale e critico sul primo massacro mondiale e un invito ad ascoltare le voci e le grida delle vittime di quella tragedia.


Dopo la guerra si leverà un vento di rivolta dolorosa che si diffonderà in tutto il paese. Allora si griderà ai carnefici tutto ciò che si è dovuto comprimere in se stessi per anni.
(Considerazioni di Stefan Zweig, 1917, in R. Rolland, Diario degli anni di guerra 1914-1919, trad. di Giovanna Bonchio, II, Parenti, Milano-Firenze 1960, p. 354).

Quando abbiamo pensato a questo convegno c'erano molte guerre in tutto il mondo, esattamente come cent'anni fa, ma mai più avremmo immaginato una guerra in Europa. E adesso la guerra in Europa c'è: e come cent'anni fa governi e capi militari mostrano i muscoli, e si sente parlare di una terza guerra mondiale. C'è da aver paura: e ancora di più va ribadita l'invettiva scelta a titolo del convegno: Tu sei maledetta!
Nel 1918, ultimo anno della prima guerra mondiale, il regista francese Abel Gance immagina questa scena: un uomo cammina nudo tra due trincee, e ciascuna delle due parti che si fronteggiano è incerta se sparargli o no perché non si vede l'uniforme1. Solo se è in divisa l'uomo uccide e viene ucciso senza esitazioni. Non a caso nei monumenti di guerra l'uomo viene raffigurato in uniforme, per ricordare che nelle guerre l'anima è rivendicata dalla Chiesa (dalle Chiese) e il corpo dallo Stato. Ogni interferenza viene bandita perché metterebbe in crisi quest'ordine.
È noto, anche per essere ripreso nelle antologie scolastiche italiane, l'episodio descritto da Emilio Lussu nel romanzo Un anno sull'altipiano. Lussu racconta di tenere nel mirino un ufficiale austriaco a poca distanza, e di rinunciare a colpirlo perché vede l'uomo prendere un caffè e accendersi una sigaretta. Un dettaglio di vita quotidiana trattiene il soldato dal premere il grilletto. “La mia coscienza di uomo e di cittadino – commenta Lussu – non erano in conflitto con i miei doveri militari. La guerra era, per me una dura necessità, terribile certo, ma alla quale ubbidivo”; e più avanti: “Fare la guerra è una cosa, uccidere un uomo è un'altra cosa. Uccidere un uomo, così, è assassinare un uomo”.2 Altri invece, a differenza di Lussu, pensavano che bisognasse scegliere tra la coscienza di uomo e quella di cittadino, che non fosse giusto obbedire agli ordini, e che fare la guerra e uccidere fossero la stessa cosa: ed è per rivendicare questa storia che abbiamo dato vita a questo convegno.
Nell'estate 1914 la guerra arrivò inaspettata. Tutti ricordano la testimonianza dello scrittore Stephan Zweig. Alla notizia dell'attentato, niente a Vienna lasciava trasparire un'azione militare contro la Serbia, e nelle spiagge del Belgio le vacanze balneari iniziarono come al solito; e all'improvviso, dopo qualche settimana, tutto uno sventolare di bandiere, elmi cinti di foglie di quercia e musiche di bande militari.3 Perfino i giornali antimilitaristi assicuravano che in Europa non potevano esserci guerre perché “i mezzi di distruzione” erano così “terribili, che gli eserciti verrebbero annientati in una carneficina orrenda e spaventevole”.4 Fu proprio quello che accadde.
Viene in mente l'Histoire d'un soldat, un balletto composto da Stravinsky negli ultimi mesi di guerra, in cui un soldato in licenza, con un violino sotto braccio, incontra un tizio, un giocherellone con un retino per farfalle. L'uomo che va a farfalle propone al soldato: stai con me tre giorni, io ti insegnerò a leggere il libro misterioso che ho con me, e tu mi insegnerai a suonare il violino. Il soldato accetta ma, scaduti i tre giorni, sulla strada di casa si accorge che sono passati tre anni. La prima guerra mondiale ne durò quattro di anni: e all'inizio tutti erano convinti che sarebbe stata limitata e di brevissima durata, ciascuno Stato oltretutto convinto di vincere militarmente sul campo. Non è la prima guerra in cui il diavolo si presenta all'inizio come un giocherellone. Solo alla fine del balletto il diavolo si porta via il soldato al suono di una marcia trionfale.
“Ogni guerra è ironica – ha scritto Paul Fussel – perché ogni guerra è peggiore di quel che ci si aspettasse”, ma ancor più lo fu la prima guerra mondiale, quando, se è vero quello che ci è stato raccontato, molti milioni di persone morirono perché erano stati uccisi l'arciduca Francesco Ferdinando e sua moglie Sofia. Nessun inizio fu più innocente, con file di ragazzi entusiasti in coda per l'arruolamento davanti a uomini con retini per farfalle, donne che gettavano fiori, e la convinzione che quella sarebbe stata l'ultima delle guerre.5

Una guerra offensiva

Mentre tutti gli Stati che entrarono in guerra nel 1914 dichiaravano di averlo fatto per difendersi, l'anno dopo il governo italiano iniziò una guerra offensiva. Lo fece contro i sentimenti della stragrande maggioranza dei propri cittadini, e anzi proprio per sventare il pericolo di una rivoluzione all'interno: entrò in guerra dopo manovre diplomatiche segrete che ribaltarono le alleanze, e grazie a un colpo di Stato.6 Il generale Cadorna, che nel luglio 1914 è pronto a schierare un'armata sul Reno in aiuto alla Germania sulla base dei piani studiati in funzione di un'alleanza trentennale con Germania e Austria Ungheria, nel maggio 1915 ammassa viceversa le truppe sull'Isonzo: poi comincia a ordinare una serie di attacchi frontali suicidi, in ossequio ai manuali di strategia militare, quando invece tutti gli eserciti europei erano immobilizzati da mesi nelle trincee.7
Non si tratta naturalmente di rinfacciare ai tanti generali Cadorna l'ignoranza del futuro. Si tratta di maledire capi di Stato e comandanti di eserciti per aver scatenato i Cavalieri dell'Apocalisse obbligando milioni di uomini a fare da comparse, e con la pretesa oltretutto di saper dominare gli eventi.
Inutile cercare l'epica nelle memorie della prima guerra mondiale, come per secoli si è fatto nei racconti di guerra. Quello che vi si trova è al contrario un registro ironico, che presenta l'individuo in balia di eventi che non capisce, in un mondo affollato da pidocchi, topi, armi, rovine, caos, brutalità, corpi a pezzi, cadaveri insepolti e sofferenza.8 Davanti a certa memorialistica sembra di leggere il resoconto di un viaggio nei gironi infernali con il diavolo che fa da guida, e con sofferenze che sembrano non aver mai fine. La guerra continuava a chiamarsi guerra, come sempre, anzi “una grande guerra”, ma era diventata una cosa completamente nuova: uno sterminio di massa dominato dalla tecnologia, in cui uomini e animali erano al servizio di macchine e di complesse organizzazioni industriali, scientifiche e militari.
Per secoli il mestiere delle armi aveva richiesto coraggio individuale, prestanza fisica e la spavalderia del miles gloriosus; dal Settecento poteva combattere chiunque venisse addestrato a farlo; con la prima guerra mondiale il soldato è un “pezzo della macchina da guerra”, un elemento di una catena di montaggio: da qui, come ha mostrato Antonio Gibelli, la retorica “dell'umile fante contadino la cui qualità è l'obbedienza” che così tanto piaceva ai vari generali Cadorna e ai vari padri Gemelli, e che poi si è trasferita nelle celebrazioni ufficiali fino ai nostri giorni.9
Ironia e umorismo nero, quindi, in una guerra interminabile in cui governi e comandi militari non riuscirono a concordare neppure un'ora di tregua in quattro anni: ma anche incredulità, smarrimento, angoscia e delusione. Nelle Considerazioni attuali sulla guerra e la morte pubblicate nella primavera del 1915, Sigmund Freud si confessava “smarrito”, e concludeva che l'errore era stato credere in un'Europa civilizzata10.

Legami emotivi e solidarietà

Di chi la colpa? In altre parole, per ricordare il titolo del convegno, chi maledire? Nei primi anni Trenta, Albert Einstein scrisse a Sigmund Freud che a volere la guerra era «un piccolo ma deciso gruppo di coloro che [...] vedono nella guerra, cioè nella fabbricazione e vendita di armi, soltanto un'occasione per promuovere i loro interessi personali e ampliare la loro personale autorità». (Negli anni Sessanta il movimento per la nonviolenza avrebbe detto così: l'industria non produce “armi per le guerre, ma guerre per le armi”).11 La “cosiddetta intellighenzia” poi, continua Einstein pensando all'entusiasmo per la guerra in nome del patriottismo nel 1914, “cede per prima a queste suggestioni collettive”. Ma perché una minoranza riesce “ad asservire alle proprie cupidigie la massa del popolo, che da una guerra ha solo da soffrire e da perdere”? Freud rispose, come sappiamo, che “non c'è speranza di poter sopprimere le tendenze aggressive degli uomini”, e che l'unico modo di opporsi alla guerra è la capacità di far sorgere “legami emotivi” e “solidarietà significative” tra gli individui.12 (Simone Weil giunse alla stessa conclusione quando scrisse che «per spingere gli uomini verso le catastrofi più assurde, non c'è bisogno né di dèi né di congiure segrete. La natura umana basta»).13
In quegli stessi anni Józef Wittlin, ebreo galiziano di lingua polacca, pacifista e antimilitarista, si pose interrogativi simili. Nel 1914 Wittlin aveva diciotto anni. Ripensando a quelle vicende, e scrivendo il romanzo autobiografico Il sale della terra, Wittlin affermò che la letteratura contro la guerra “accusa l'intera natura umana, e l'accusatore è nello stesso tempo l'accusato”14. Forse pensava a quando lui e l'amico Joseph Roth si erano fatti raccomandare per essere arruolati nell'esercito austroungarico, da cui erano stati esclusi in quanto inabili. Wittlin confessava di non sapere perché l'avevano fatto, dato che, diceva, erano «entrambi pacifisti e un po' anarchici».15 Joseph Roth a sua volta spiegò la sua scelta in un modo che potrebbe essere raccontato in un romanzo di Joseph Conrad: «Gli avvocati si arruolavano, le donne diventavano di cattivo umore, patriottiche, mostravano una chiara predilezione per i feriti. Alla fine mi arruolai volontario nel 21º battaglione di fanteria».16

”Non un tono, non un grido”

Al cuore della mobilitazione per la guerra stanno dunque, tra le altre cose, i rapporti tra uomini e donne. Andreas Latzko, ebreo ungherese, combatté sul fronte italiano dell'Isonzo. Ricoverato in ospedale per shock da guerra, poté raggiungere la Svizzera, dove nel 1917 pubblicò il libro Uomini in guerra, i cui protagonisti sono soldati in cura per pazzia. In uno dei racconti un tenente, che forse pensava alla Lisistrata di Aristofane, dice che la scena più crudele di tutte non era stato il fronte bensì la partenza per la guerra, quando le donne sorridevano e gettavano rose. “Non uno sarebbe andato al fronte, se le donne avessero giurato che nessuna di loro sarebbe andata a letto con un uomo il quale abbia spaccato crani, fucilato uomini, trafitti i suoi simili. Non uno, vi dico”. E più avanti: “Non hai mai sentito parlare delle suffragette che hanno schiaffeggiato ministri, incendiato musei, che si son fatti incatenare alla lanterna per avere il diritto al voto? Per il diritto al voto, comprendi? E per i loro mariti, no? Non un tono, non un grido!”, e così via.17 Quando il tenente, strappandosi con rabbia un ciuffo di capelli, chiede al medico di aprirgli la testa e di tirar fuori sua moglie, arrivano dei soldati che lo immobilizzano e lo riportano nel reparto dov'è ricoverato. E lui a protestare: io, matto? malato, io?
Forse queste parole sono un modo per colpevolizzare le donne e sgravare gli uomini delle proprie responsabilità. Ma perché non cogliere la presa d'atto di un fallimento della virilità e la richiesta di aiuto? A distanza di anni Virginia Woolf ripensò a quella che chiamava la “assurda agitazione dell'agosto del 1914”, per concludere, come Latzko, che una delle cause di guerra consiste nella venerazione degli uomini per le armi, le medaglie e la gloria militare, e nell'atteggiamento protettivo e incoraggiante, e quindi complice, delle donne. Le donne nel futuro – scrisse Virginia Woolf ripensando al 1914 – non avrebbero più dovuto usare “le loro inesauribili riserve di fascino e di simpatia per convincere i giovani che combattere era eroico, e che i feriti sul campo di battaglia erano degni di tutte le loro cure e di tutto il loro encomio”, bensì aiutare gli uomini a liberarsi dalla passione per la guerra di cui sono prigionieri da secoli, aprendo loro “l'accesso ai sentimenti creativi” e alla “felicità”18. Le donne avrebbero dovuto in altre parole aiutare gli uomini a emanciparsi: ed è quanto Virginia Woolf farà, donando come sappiamo le famose tre ghinee.
Alla luce di queste riflessioni possiamo capire meglio quell'uomo in uniforme che simboleggia tuttora la memoria ufficiale della prima guerra mondiale: un monumento che esalta un'idea di virilità che è tra le cause stesse della guerra. Ma, per riprendere le parole di Virginia Woolf, non è mai troppo tardi per aiutare quest'uomo a emanciparsi, cominciando innanzitutto dal modo con cui ricordiamo quegli eventi.
Ricordare: ma come? È possibile uscire dalla tradizione greca dell'epitaffio per i cittadini morti in battaglia? L'artista tedesca Käthe Kollwitz perse in guerra il proprio figlio Peter: voleva fare un monumento per ricordarlo ma non sapeva come. Stava seduta ore e ore nella stanza del figlio, lo sentiva vicino, gli parlava; di notte lo sognava. Scriveva nel suo diario nell'ottobre 1916: “Manco di lealtà nei tuoi confronti, Peter, se adesso nella guerra vedo solo follia?”. Piangeva il figlio, ma non voleva che la fedeltà alla sua memoria e il rispetto dovuto ai morti si trasformasse in un omaggio a ciò che l'aveva mandato a morire. Dovettero passare diciotto anni prima che Käthe Kollwitz, abbracciate le idee internazionaliste, riuscisse a scolpire un monumento alla memoria del figlio. L'opera non rappresentava il figlio caduto in guerra, bensì lei e il marito inginocchiati davanti alla tomba del figlio, a chiedere perdono per l'incapacità “di impedire che la follia della guerra gli troncasse la vita”.19
Come suggerisce il caso di Käthe Kollwitz, per molti anni la presenza di milioni di morti in guerra rimase inquietante e potenzialmente minacciosa.20 Nella scena finale del film J'accuse di Abel Gance, il regista che ho già ricordato (il film è del 1919), i cadaveri dei soldati francesi sepolti si alzano dalle tombe, si mettono le croci addosso e si dirigono come spettri verso le case del villaggio.
Bisognava placarli, i morti, per impedire che potessero tornare sulla terra a chiedere conto. Nel film di Bernard Tavernier, La vita e niente altro (1989) un maggiore medico commenta che se alla parata della vittoria sotto l'Arco di Trionfo a Parigi fossero sfilati tutti i soldati francesi morti in guerra, la processione sarebbe durata undici giorni e undici notti: ecco una fantasia da esorcizzare. Ci sono e ci sono stati molti modi per ricordare i morti. Limitandoci alla memoria ufficiale promossa dagli Stati, si sa come andarono le cose. Nelle battaglie del 1916 si calcola che a Verdun – ma in altri fronti come sul Carso la situazione non era molto diversa – morirono mille soldati per metro quadrato. Dopo la guerra fu costruito un ossario per mettervi, visibili sotto vetro, teschi e ossa che si supponeva fossero appartenuti a soldati francesi, mentre i probabili resti dei soldati tedeschi furono ricoperti di terra.21 Ogni Stato raccolse i propri morti separandoli dagli altri e ricordandoli come uccisi, anzi eufemisticamente “caduti”. Altre forme di ricordo vennero cancellate. Su una targa in un paese del Mantovano si leggeva: “odio contro la guerra / maledizioni contro coloro / che la benedirono e la esaltarono”.22 Lapidi di questo tipo vennero distrutte; in Italia il fascismo eliminò con la violenza tutte le versioni in disaccordo con la propria. Le denunce nei confronti di chi si era arricchito con la guerra – cioè di quelli che i socialisti chiamavano “i pescecani” – vennero dimenticate. Rimosso il ricordo delle vittime civili, il cui numero superò quello dei soldati. Cancellati gli stupri, che “ebbero un carattere di massa” e furono autorizzati “e incoraggiati dalle gerarchie militari” come strumento di genocidio, di snazionalizzazione e di persecuzione antisemita. Le donne vittime di stupro, ha osservato Bruna Bianchi a cui dobbiamo questi studi, non parlavano, se non talvolta con qualche altra donna: il loro silenzio contrasta con “il chiasso della propaganda”23. E infine, a nessuno doveva venire in mente la seguente domanda: “chi può dire che il milite ignoto nella Grande Guerra non sia colui che ha sparato all'ignoto oppositore di quella guerra?”.24 Ogni anno la sfilata rituale dei soldati viventi riafferma le gerarchie e riporta l'ordine minacciato da definizioni alternative della realtà. Riti e cerimoniali simili accomunano sia i paesi che avevano vinto la guerra sia quelli che l'avevano persa: a testimonianza che a vincere fu la guerra.

Valori umani contro la guerra

Questo convegno intende attribuire agli eventi del 1914-18 un senso alternativo a quello ufficiale imposto dagli Stati, partendo dal riconoscimento del rifiuto della guerra e ricostruendo, come ha invitato a fare Anna Bravo, una genealogia differente da quella delle guerre.25 In questo modo il convegno propone una riflessione più in generale sul rapporto tra politica e morale, potere e violenza, cittadinanza e guerra, virilità e femminilità, ragioni degli individui e ragioni degli Stati. Simone Weil paragonava chi si oppone all'apparato amministrativo, poliziesco e militare a “persone che si aggrappano alle rotelle e alle cinghie di trasmissione per cercare di fermare la macchina, facendosi a loro volta stritolare”. Bisognava scegliere: “o ostacolare il funzionamento della macchina militare di cui ognuno in sé costituisce un ingranaggio, o aiutare questa macchina a stritolare ciecamente le vite umane”.26 Sulla scia di Tolstoj, Simone Weil si appellava così alla coscienza individuale, alla forza morale e ai valori umani: ed è qui che va colto il rifiuto della guerra. Non parliamo naturalmente solo di gesti individuali, e neppure solo di gesti di rifiuto e di modi di dire no, ma di tutti quei legami di solidarietà che gli individui costruiscono quando rifiutano di obbedire al comando, o si sottraggono alle sue logiche.
Il convegno prenderà in esame le vicende italiane. Le direttive della BBC rispetto la propaganda britannica in Italia durante la seconda guerra mondiale dicevano a un certo punto: “Si ricorderà che nel corso dell'ultima guerra le donne si buttavano sui binari ferroviari per impedire che portassero via i loro uomini. Le donne italiane amano mariti e figli molto più dello Stato”.27 Queste parole rivelano soprattutto la visione britannica di un'Italia familista, però colgono la specificità del caso italiano, in cui i mesi di neutralità, prima dell'entrata in guerra nel maggio 1915, furono contraddistinti in tutto il paese da forti mobilitazioni antimilitariste, aspri conflitti sociali, manifestazioni di piazza e comizi per la pace. Il mondo cattolico e larghissimi settori della classe dirigente erano per la neutralità. Il partito socialista italiano fu l'unico in Europa a non aderire alla guerra. Gaetano Salvemini, storico ma prima di tutto testimone degli eventi come interventista, scrisse anni dopo che la grande maggioranza degli operai e dei contadini, uomini e donne, non volevano la guerra e si sottomisero “poiché un potente meccanismo amministrativo li afferrava e li gettava nella fornace”. Salvemini continua subito dopo dicendo che operai e contadini “non si rivoltarono in modo attivo”28. Carlo Levi testimonia che gli abitanti di Agliano, il paese lucano del suo confino, avevano subìto la guerra come “una grande disgrazia”, sopportandola “come le altre”.29 Scopo di questo convegno è illuminare lo spazio che sta tra la sopportazione di una disgrazia e la rivolta attiva, mettendo in discussione il giudizio di Salvemini. Da anni la storiografia italiana analizza infatti non solo le ribellioni aperte e collettive, ma anche i gesti individuali, indagando le varie forme con cui si manifestano e si mescolano l'antimilitarismo, il pacifismo, la paura, la diserzione, la follia, gli episodi di fraternizzazione al fronte, la fuga, le proteste popolari, la nevrosi di guerra, la disobbedienza, l'espressività popolare attraverso le lettere, i diari e le canzoni.
Dei conflitti sociali e delle proteste popolari ci parlerà Stefano Musso. Soprattutto in alcune zone del paese – si pensi alla Settimana rossa nel giugno 1914 – la presenza anarchica, socialista rivoluzionaria e repubblicana era radicata: dei punti di forza e dei motivi di fragilità di questi movimenti ci parlerà Mimmo Franzinelli. L'attività dei tribunali militari dimostra con quanta violenza dovette essere represso il dissenso. Gli individui, quasi tutti soldati, incorsi in procedimenti penali, furono circa 400mila, una cifra enorme, anche se, come ha scritto Enzo Forcella, basterebbe “una sola fucilazione per mettere a nudo la sostanza autoritaria sulla quale poggia il preteso consenso delle masse combattenti”:30 sarà Bruna Bianchi a presentare il fenomeno della diserzione. Ilaria La Fata illustrerà il fenomeno della nevrosi di guerra, tra manicomi e tribunali militari. Del pacifismo ci parlerà Alberto Cavaglion; Elena Iorio ci dirà delle motivazioni etiche, di coscienza, del rifiuto non solo nei confronti della guerra ma anche delle armi e del servizio militare; Alessandro Portelli infine ci parlerà delle canzoni. Dopo la guerra, come ci dirà John Foot, monumenti, lapidi e targhe tennero in vita la memoria dell'opposizione alla guerra, fin che non furono cancellate con la violenza, e definitivamente, dal fascismo.
Lo spazio di rifiuto della guerra non è omogeneo, ma segnato da divisioni e da fratture. Sono note le divisioni all'interno del movimento socialista e anarchico nella prima guerra mondiale. In Italia il mito della guerra rivoluzionaria, al suono della Marsigliese, si unì alla tradizione risorgimentale dell'Inno di Garibaldi. Kropotkin, tra i maggiori esponenti dell'anarchismo e teorico del mutuo aiuto, si unì a quanti sostenevano la guerra contro la Germania, mentre Errico Malatesta si mantenne fedele all'internazionalismo. Il socialista Bissolati, pacifista e antimilitarista, si arruolò volontario, mentre Fanny dal Ry, socialista rivoluzionaria, fin che le fu possibile continuò a propagandare l'appello “Lavoratori di tutto il mondo uniamoci!”. Una memoria divisa, dunque, anche in questo caso. E la memoria divisa, come ha scritto Alessandro Portelli, invita a riconoscere non tanto “memorie separate e antagonistiche di soggetti diversi”, ma “una memoria lacerata al suo stesso interno, una doppia coscienza inconciliata all'interno di ciascuno individuo, di ciascun gruppo”.31 I più famosi poeti antimilitaristi britannici, per fare un esempio, si erano arruolati volontari nell'agosto 1914. Analizzare le ideologie quindi non è sufficiente: mai come nella guerra, credo, si devono indagare gli scarti e gli interstizi tra l'agire concreto e i principi professati o le convenzioni sociali.

Menzogne e propaganda

Quanto ai racconti di guerra, va colta la tensione tra l'esperienza individuale e il discorso ufficiale, in altre parole l'ambiguità con cui l'esperienza diretta si misura con trame narrative e clausole metriche di un discorso bell'e pronto che può contare sulla forte pressione sociale e sul conformismo, oltre che sulle misure punitive per chi se ne discosta. Lev Tolstoj spiega bene come i reduci dalle battaglie modellino il racconto delle propria esperienza ai cliché narrativi e alle aspettative dell'uditorio: pena non essere ascoltati e non essere capiti. Questa situazione fu comune tra i soldati della prima guerra mondiale. L'esperienza al fronte fu ripugnante al punto da non essere dicibile se non adattata alla retorica ufficiale.32
Il protagonista del romanzo di Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale, torna in licenza nel suo paese e capisce che è inutile parlare con interlocutori che ripetono e capiscono solo le frasi della propaganda: «Dunque, Lei viene dal fronte? Bravo! Com'è lo spirito delle truppe? Eccellente, nevvero? Eccellente».33 Le lettere spedite dai soldati a Romain Rolland confermano che al soldato che torna in congedo si chiede di avvalorare le opinioni delle retrovie, pena essere guardato con sospetto “come un cattivo soldato”. Le madrine di guerra, commenta Rolland, avevano “una parte notevole nel mantenere in piedi la menzogna”; per non parlare dei soldati degenti in ospedale, che “devono subire un duplice o triplice attacco: dalla dama di Croce Rossa, dalla monaca, dal cappellano, ecc.”.34 Céline ha descritto bene la condizione del soldato tenuto sotto osservazione perché non sanno se metterlo al muro come anarchico o rinchiuderlo come pazzo in manicomio: quando dice chiaramente all'infermiera americana di non voler morire in guerra, lei lo abbandona, non riuscendo ad ammettere, come commenta Céline, “che un condannato a morte non avesse anche la vocazione”.35 Del resto il personale delle retrovie – la memorialistica è piena di esempi – può mantenere il proprio privilegio solo se ricaccia i soldati al fronte.

Una memoria ufficiale piena di bugie

Uno dei modi per celebrare un centenario sarebbe stato quello di chiudere con il passato e di guardare al futuro. Non mi sarebbe dispiaciuto fare un discorso per dire che cento anni sono più che sufficienti per voltare finalmente pagina. Ho deciso però che troppe cose ci legano a quegli anni di guerra. Mi è capitato in questo intervento di citare nomi di uomini e di donne che, avendo vissuto la prima guerra mondiale, hanno cercato in tutti i modi di impedire il ripetersi di simili tragedie, consapevoli che la memoria ufficiale che si andava costruendo era piena di bugie. Se malediamo la guerra in nome dell'umanità offesa non lo facciamo in altre parole per una sensibilità dei giorni nostri, accentuata dal fatto di vivere in un'Europa unita, o perché abbiamo ascoltato Joan Baez, letto Capitini e don Milani, e partecipato alle grandi manifestazioni contro la guerra in Iraq: certo, anche per questo, ma non solo. Il rifiuto della guerra ci fu per davvero, durante il conflitto e nella riflessione successiva dei sopravvissuti, tanto da stabilire tradizioni culturali e politiche che ci chiamano tuttora in causa e ci chiedono di prendere posizione tra diversi progetti politici e differenti tonalità sentimentali. Sono state semmai le interpretazioni ufficiali – nazionaliste e militariste – a sminuire e cancellare tutte le altre, o a relegarle nella sfera, considerata prepolitica, dei sentimenti o della morale, soprattutto se le protagoniste sono donne. Limitarsi a decostruire semplicemente il mito ufficiale significherebbe rimanerne prigionieri.
Nel 1920 Karl Tucholski, autore di pamphlet antimilitaristi, scriveva da Berlino: “Dignitosi arriviamo alla posterità, talmente ritoccati che già oggi non ci riconosciamo più”. In una lettera indirizzata a un futuro storico del 1991 egli scrisse, a proposito del 1914: “Non presti fede all'archivio del Reich! Le cose non sono andate così” eccetera. In un altro articolo si rivolse ai giovani che sarebbero stati “la Germania del 1940” per dire loro: “gli ideali che vi hanno insegnato sono sbagliati!”.36 Queste donne e questi uomini di cui ho parlato non hanno potuto cambiare il corso degli eventi, né evitare che la guerra del 1914 fosse la prima delle guerre mondiali, ma fecero tutto quanto poterono per scongiurare i posteri di non commettere gli stessi errori. Sono passati cent'anni, i posteri siamo noi: ascoltiamo le loro voci, le loro grida.

Piero Brunello

Questa è la relazione introduttiva al convegno “Tu sei maledetta.Uomini e donne contro la guerra: Italia, 1914-1918”, promosso dall'Ateneo degli imperfetti. Laboratorio di culture libertarie (Marghera) e dal Centro studi libertari / archivio G. Pinelli (Milano), Venezia 20-21 settembre 2014. Ringrazio Filippo Benfante per quotidiane discussioni su questi temi; brani staccati l'uno dall'altro sono diventati un intervento per merito di Giannarosa Vivian. (p.b.)

Note

  1. Jay Winter, Il lutto e la memoria. La Grande Guerra nella storia culturale europea [1995], il Mulino, Bologna 1998, p. 191.
  2. Emilio Lussu, Un anno sull'altipiano (1945), introduzione di Mario Rigoni Stern, Einaudi, Torino 2000, pp. 136-138; la scena, con finale diverso, è ripresa nel film La grande guerra di Monicelli. Un episodio simile, in cui l'A. inquadra nel mirino un soldato nemico che sta facendo il bagno e rinuncia a sparare (lo farà un commilitone vicino), in Robert Graves, Addio a tutto questo (1929), tr. di Annalisa Carena, Piemme, Casale Monferrato 2005, pp. 154-155.
  3. Stefan Zweig, Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo, cura e traduzione di Silvia Montis, Newton Compton, Roma 2013, p. 190.
  4. Così l'opuscolo Coscritto, ascolta!, pubblicato dalla Libreria editrice de L'Avanguardia di Roma, p. 71, cit. in Ruggero Giacomini, Antimilitarismo e pacifismo nel primo Novecento. Ezio Bartalini e “La Pace” 1903-1915, Angeli, Milano 1990, p. 206 nota.
  5. Paul Fussel, La grande guerra e la memoria moderna, il Mulino, Bologna 1984, pp. 12, 26-30, 40.
  6. Gaetano Salvemini, Le origini del fascismo in Italia. Lezioni di Harvard, a cura di Roberto Vivarelli, Feltrinelli, Milano 1966, pp. 97-121 (cap. Il colpo di Stato del maggio 1915).
  7. Gian Enrico Rusconi, L'azzardo del 1915. Come l'Italia decide la sua guerra, il Mulino, Bologna 2009 (1 ed. 2005), pp. 8-9; cfr. il paragrafo “Se l'Italia fosse entrata in guerra nell'agosto 1914 a fianco delle politiche centrali”, pp. 177-180.
  8. Fussel, La grande guerra cit., pp. 397-399.
  9. Antonio Gibelli, L'officina della guerra. La grande guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Bollati Boringhieri, Torino 1991.
  10. Lo scritto di Freud in Sigmund Freud e Albert Einstein, Perché la guerra (1932)? Considerazioni attuali sulla guerra e la morte (1915). Caducità (1915), trad. di Cesare L. Musatti, Silvano Daniele, Sandro Candreva ed Ermanno Sagittario, Bollati Boringhieri, Torino 1975, pp. 15-51.
  11. Günther Anders, Opinioni di un eretico. Presentazione di Stefano Velotti, trad. di Ranieri Callori, Theoria, Roma 1991 [1979], p. 78.
  12. Sigmund Freud, Perché la guerra? La risposta di Freud (1932), in Freud - Einstein, Perché la guerra? cit., pp. 64-80.
  13. Simone Weil, Non ricominciamo la guerra di Troia. (Potere delle parole), 1937, in Ead., Sulla guerra. Scritti 1933-1943, Pratiche editrice, Milano 1998, p. 57 (lo scritto alle pp. 55-74).
  14. Silvano De Fanti, Introduzione, in Józef Wittlin, Il sale della terra, Marsilio, Venezia 2014, p. 19.
  15. L'autore e l'opera, ibid., p. 44.
  16. Frase originale e traduzione in http://it.wikipedia.org/wiki/Joseph_Roth.
  17. Andrea Latzko, Uomini in guerra (1917), trad. di Amalia Sacerdote, Società editrice “Avanti!”, Milano 1921, pp. 31-32.
  18. Virginia Woolf, Le tre ghinee, introduzione di Luisa Muraro, trad. di Adriana Bottini, Feltrinelli, Milano 1979, p. 64; Ead., Pensieri di pace durante un'incursione aerea, in Per le strade di Londra, introduzione di Attilio Bertolucci, trad. di Livio Bacchi Wilcock e J. Rodolfo Wilcock, Il Saggiatore, Milano 1981 (seconda ed.), pp. 158-162.
  19. Winter, Il lutto cit., pp. 150-155. Cfr. Adriana Lotto, Dal diario di Käthe Kollwitz 1914-1922, “D.E.P. Deportate, esuli, profughe. Rivista telematica di studi sulla memoria femminile”, 13-14 (2010), pp. 179-188.
  20. Molti esempi di ritorno dei soldati morti per invitare i vivi a comportarsi degnamente, in George L. Mosse, Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Laterza, Roma - Bari 2005, p. 88.
  21. Ibid., pp. 103-104.
  22. John Foot, Fratture d'Italia, Rizzoli, Milano 2009, p. 69.
  23. Bruna Bianchi, “Militarismo versus femminismo”. La violenza alle donne negli scritti e nei discorsi pubblici delle pacifiste durante la Prima guerra mondiale, “D.E.P. Deportate, esuli, profughe. Rivista telematica di studi sulla memoria femminile”, 10 (2009), pp. 96-97, 106.
  24. Winter, Il lutto cit., p. 41.
  25. Anna Bravo, La conta dei salvati. Dalla Grande Guerra a Tibet: storie di sangue risparmiato, Laterza, Roma - Bari 2013.
  26. Simone Weil, Riflessioni sulla guerra (1933), in Ead., Sulla guerra cit., pp. 38-39.
  27. Lucio Sponza, La BBC “in bianco” e “in nero”. La propaganda britannica per l'Italia nella seconda guerra mondiale, autunno 2013, in http://storiamestre.it/2013/12/bbcbiancoenero/.
  28. Salvemini, Le origini del fascismo cit., p. 113.
  29. Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Mondadori Editore, Milano 1968, p.119.
  30. Enzo Forcella, Apologia della paura, in Enzo Forcella - Alberto Monticone, Plotone d'esecuzione. I processi della prima guerra mondiale, Laterza, Bari 1968, p. XVI.
  31. Alessandro Portelli, Storie orali: racconto, immaginazione, dialogo, Donzelli, Roma 2007, pp. 184-185.
  32. Fussel, La grande guerra cit., pp. 215-216.
  33. Erich M. Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale (1929), trad. di Stefano Jacini, Mondadori [collana Oscar], Milano 1965, p. 138.
  34. Romain Rolland, Diario degli anni di guerra 1914-1919, trad. di Giovanna Bonchio, Parenti, Milano-Firenze 1960, II, p. 69.
  35. Louis-Fernand Céline, Viaggio al termine della notte (1932), trad. di Ernesto Ferrero, Corbaccio, Milano 1992, p. 43.
  36. I testi di Kurt Tucholsky, in Susanna Böhme-Kuby, Non più, non ancora. Kurt Tucholsky e la Repubblica di Weimar, il melangolo, Genova 2002, pp. 10-12; Susanna Böhme-Kuby, Kurt Tucholsky ai posteri, “L'ospite ingrato”, VII (2004), 2, pp. 167-183; Alessandra Luise e Susanna Böhme-Kuby, in Kurt Tucholsky. Quattro testi, ibid., pp. 247-261.

continua la lettura del dossier Abbasso la guerra