rivista anarchica
anno 45 n. 396
marzo 2015


pedagogia

Dentro l'educazione

interventi di Rino Ermini, Maria Fortino, Anna Gussetti e Paolo Masala


Lo scorso dicembre si è tenuto a Milano il 1° congresso costitutivo di un nuovo sindacato operante all'interno dell'eterogeneo mondo educativo (scuola, terzo settore, ricerca), l'Usi Educazione, aperto anche agli studenti.
Pubblichiamo quattro interventi nel dibattito.



Agire nella scuola pubblica è possibile

di Rino Ermini

Ho insegnato quasi trent'anni nella scuola pubblica, una quindicina nella scuola media inferiore (Italiano, Storia e Educazione civica e Geografia) e altrettanti in quella superiore (Italiano e Storia). Ho scelto io di fare questo mestiere. Non è stato un ripiego, ma un lavoro che ho fatto con passione ed entusiasmo. È bene precisare che non è stata una missione perché nelle missioni non ci credo. Vi sono approdato dopo numerosi anni passati in diversi settori del privato e del pubblico: operaio saldatore in fabbrica, manovale, bracciante, assistente di stazione nelle ferrovie, infermiere.
Ci tengo a dirlo perché credo che una/un docente, avanti di salire in cattedra, dovrebbe avere una seria esperienza di lavoro in altri settori. Naturalmente non come precaria/o. È troppo lungo spiegare questa idea, ma tale esperienza le/gli servirebbe ad essere una/un docente migliore.
Per me aver lavorato altrove è stato importante per due ragioni: in primo luogo perché credo nella necessità e nella bellezza di unire nella nostra vita e nella nostra crescita lavoro manuale e lavoro intellettuale: l'uno senza l'altro sarebbero incompleti, deficitari, depotenziati, più poveri; in secondo luogo perché lavorare in fabbrica o nelle ferrovie, in un cantiere o in un ospedale, mi hanno fatto conoscere meglio il mondo e mi hanno preparato quanto e forse più dell'Università al mestiere di docente, soprattutto nei confronti dei bisogni delle studentesse e degli studenti provenienti dalle classi subalterne, che sono in genere le/i più demotivate/i, le/i più tartassate/i e quelle/i che incontrano le maggiori difficoltà.
Nel mio insegnamento ho sempre cercato, per quanto me lo consentissero gli spazi dello Stato entro cui dovevo muovermi (spazi che le lotte politiche e sindacali della categoria nonché le mie capacità “autonome” potevano contribuire ad allargare), di avvalermi di metodi mutuati dalle migliori pedagogie elaborate dal Settecento in qua, a cominciare da quella libertaria e finire a Don Lorenzo Milani.
Io credo di essere riuscito a realizzare qualcosa di buono e a lavorare con le mie studentesse e con i miei studenti con metodi, contenuti dell'insegnamento e risultati che non erano esattamente quelli che avrebbero voluto lo Stato e le classi privilegiate che manovrano le leve del potere. Ad esempio, ho fatto il possibile per aiutare le giovani e i giovani con cui sono venuto in contatto a crescere partendo dai loro bisogni, dal loro modo di essere, proponendo contenuti e metodi che ne facessero persone capaci di critica e non persone passive, cercando di essere sempre autorevole e non autoritario.

Le possibilità della scuola pubblica

Qualcosa ho anche scritto, e spesso mi è capitato di andare in giro a parlare di pedagogia libertaria. In proposito ho sempre sostenuto che chi cerca di fondare scuole private dove praticarla, ha tutto il diritto di farlo e non sarò certo io a mettere i bastoni fra le ruote: non ne avrei motivo. Io credo però che tali scuole sarebbero possibili su vasta scala (o almeno con diffusione significativa) e avere ben altro senso, se ci fossero forti organizzazioni libertarie di lavoratrici e lavoratori capaci di fondarle, gestirle e finanziarle. Se così non può essere, come credo non sia nella fase storica da noi attraversata, le scuole libertarie fatte da poche famiglie motivate che, volendo, e potendo, le fanno per sfuggire alle magagne della scuola pubblica, rischiano di essere soltanto una nicchia marginale o una semplice testimonianza, sia pure importante.
Complementare a questa mia posizione sulla scuola privata libertaria, c'è la convinzione che sia possibile agire nella scuola pubblica. È anche per questo che in essa sono rimasto a lungo (non soltanto perché avevo bisogno di uno stipendio) e non ho mai rinnegato quel lavoro o cercato di uscirne. Credo, come ho accennato sopra, che vi si possa fare molto. La scuola pubblica, che nel parlare comune è scuola di Stato, ma io cercherei di approfondire il discorso per vedere come non sempre coincidano e si tratti comunque di due concetti diversi, è un ambito vasto e variegato. In essa troviamo oltre un milione di docenti, tecniche/i, amministrative/i ed ausiliarie/i, e milioni di studentesse e di studenti. Essa dovrebbe costituire un campo d'intervento privilegiato per chi vuole una società diversa, e un campo di sperimentazione e lotta per docenti, studentesse e studenti e famiglie che vorrebbero, nella prospettiva di una società diversa, cominciare a cambiare anche la scuola creandone una caratterizzata dalla libertà, dal reciproco insegnamento, dall'autonomia, dalla ricerca, dall'abolizione di voti e bocciature, da un radicale ribaltamento delle metodologie autoritarie, fin qui in genere adoperate, a favore di quelle non autoritarie, dall'autorevolezza a scapito dell'autoritarismo.
Ho cercato di lavorare in questo senso e così, se potessi, vorrei continuare, anche per una ragione particolare. Perché è lì, nella scuola pubblica, che ho trovato quelle studentesse e quegli studenti, di cui parlavo poc'anzi, provenienti dalle classi più disagiate, più demotivate/i e i più bisognose/i, i più esposte/i alle contraddizioni della scuola e della società, ma anche molto spesso i più ricche/i di potenzialità. Ragazze e ragazzi che continuano a pagare il prezzo più alto di una scuola autoritaria, selettiva e di classe. Quelli di cui si occupavano Francisco Ferrer, pedagogista libertario spagnolo, o Don Milani, pedagogista toscano, rispettivamente all'inizio e alla metà del XX secolo. Quelle/i di cui invece non si occupava, suo malgrado, Alexander Neill, il fondatore e animatore della scuola libertaria di Summerhill (Inghilterra, 1924, tuttora attiva) perché, diceva, la sua scuola aveva l'unico difetto di costare troppo e quindi non potevano andarvi, purtroppo, le figlie e i figli delle/i povere/i.

Il principio non autoritario di reciprocità

Un'ultima cosa. Una/Un insegnante che voglia agire nella scuola pubblica in un determinato modo, non può dimenticare la lotta politica e sindacale. Se vuole occuparsi soltanto di pedagogia e di didattica è un'/un insegnante incompleto; lo stesso se vuole fare soltanto politica o sindacalismo. Almeno questo è il mio pensiero. Deve lavorare con le proprie studentesse e i propri studenti secondo il principio non autoritario della reciprocità, confrontarsi con le colleghe e i colleghi, anche su questioni extrascolastiche, sulla base di un reciproco rispetto, organizzare e partecipare alle lotte sindacali che siano proprie della categoria e, allo stesso tempo, questo per me è importantissimo, avere un occhio anche alle altre categorie. Uno degli errori che le lavoratrici e i lavoratori della scuola hanno spesso fatto è stato quello di guardare con distacco le altre categorie, come se esse fossero di un'altra “razza”, come se stessero qualche gradino più in alto degli altri. Per quanto mi riguarda, nei trent'anni del mio insegnamento, ho cercato di mettere in pratica questi criteri e ho attraversato tutte le lotte che nella categoria sono state fatte, a partire dal CNLS, Coordinamento Nazionale Lavoratori della Scuola, passando per i Cobas, finendo con la CUB scuola che nel mio piccolo ho contribuito a fondare ma dalla quale sono uscito ormai da qualche anno.
Per quanto riguarda l'accenno che è stato fatto all'opportunità di creare materiali (specie di nostri libri di testo, o dispense) da utilizzare nell'insegnamento, io dico che può anche andare bene, che tutto, volendo e potendo, è attuabile. Ma secondo me non è tanto questione di materiali, quanto di utilizzo di contenuti e metodi che si discostino da quelli usualmente adoperati nel mondo della scuola. Conta insomma ciò che faccio e dico e come lo faccio e dico.
E per quanto riguarda il materiale, e mi riferisco soprattutto ai libri di testo, direi che ve ne sono molti che sono decisamente passabili, in tutte le materie, e che sta alla/al docente adoperarli nel modo opportuno, cominciando dal farli essere ciò che sono, uno strumento, e non feticcio da sacralizzare. Infine, direi che se qui oggi nasce il sindacato “USI Educazione”, e naturalmente io gli auguro di nascere e godere di ottima salute, si potrebbe prendere in considerazione l'idea di un bollettino di collegamento, di confronto e dibattito dove fra le altre cose potrebbero trovare posto anche l'elaborazione e il dibattito su materiali didattici, teoria ed altro. E se non è possibile un bollettino, per ragioni di costi, ecc., vedere se allo scopo è possibile ricavare uno spazio in “Lotta di classe”, oppure ancora questo spazio crearlo in rete.

Rino Ermini


Non più un lavoro da burocrate o un noioso obbligo

di Maria Fortino

Intendiamo dare inizio a questo intervento con alcune riflessioni di carattere generale. U.S.I.-A.I.T Educazione possiede un potenziale innovativo non indifferente, infatti riteniamo si debba spingere, soprattutto, circa l'idea di un sindacato di settore che annulli, in sé, ogni tipo di gerarchie fra tutti i soggetti coinvolti nei processi educativi, a partire dagli studenti fino agli educatori ed agli operatori, dai maestri ai docenti, dagli ATA ai ricercatori universitari, da chi è di ruolo a chi è precario. In altre parole occorre realmente perseguire la realizzazione di quella orizzontalità, propria dell'anarco-sindacalismo ed a cui fa, appunto, riferimento l'intera U.S.I.-A.I.T.
Poste queste, per noi fondamentali, premesse è forse superfluo ma sempre opportuno, ribadire la particolarità di questo periodo storico per quanto riguarda il settore educativo che va certamente inquadrato in una più generale dinamica di assalto del capitale agli uomini e alle donne liberi, pur tuttavia il settore educazione assume, proprio all'interno di questa dinamica generale, un ruolo, se così vogliamo definirlo, strategico.

Unico obiettivo: sopravvivere

Il capitale, infatti, intende forgiare giovani menti – futuri lavoratori – atti alla più assoluta flessibilità (leggi asservimento) pronti a tutto pur di assecondare il potere, perché credono non vi siano altre strade perseguibili, ovvero umili schiavi che hanno il solo obiettivo della sussistenza e che di contro, hanno smarrito ogni idea, ogni prospettiva di libertà.
Per realizzare questo progetto, che già da tempo è stato auspicato e promulgato dai vari governi succedutisi negli ultimi tempi – a riprova del fatto che tutti i governi altro non sono che portatori degli interessi delle gerarchie statali, a loro volta maschere degli interessi del capitale, cioè elementi fondanti dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo, dell'uomo sull'animale e sul pianeta – si è puntato al progressivo impoverimento di tutti i lavoratori e tutte le lavoratrici dell'educazione nonché degli studenti di ogni ordine e grado: sottrazione di diritti, diffusa gerarchizzazione, aziendalizzazione, verticismi e controllo che servono, in primo luogo, a piegare menti potenzialmente pericolose, a sottrarre forza ad un possibile movimento di “pericoloso” di lavoratori e studenti che sono, invece, stati spinti verso la lotta individuale per la sopravvivenza ammantata dalla tanto fasulla idea della meritocrazia che nasconde solo lo sfruttamento.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti! Il processo è durato decenni e decenni ma adesso forse alcuni ne hanno maggiore consapevolezza, certo una minoranza benché presente e cosciente. Il velo di Maya è pertanto disvelato: siamo ormai incapaci di vivere una diffusa e generalizzata lotta dei lavoratori del comparto perché troppa è stata la disgregazione dei lavoratori, troppa la repressione che ha colpito gli studenti, troppo l'individualismo e la frammentazione diffusi che impediscono di giungere ad una visione collettiva della lotta.
Complici di questo stato di cose, anzi fra i principali responsabili, i grandi sindacati della triplice che hanno illuso lavoratori e studenti, proponendo se stessi come sola alternativa di lotta anzi hanno tentato, ove possibile, di sopprimere o quantomeno screditare l'autorganizzazione di studenti e lavoratori, infine calmierare le mobilitazioni con le solite azioni di “pompieraggio sociale”: in piazza si promettono fuoco e fiamme, nei palazzi si contratta e si svende la lotta. Di contro anche molti sindacati di base continuano ad agire secondo modalità che tanto ricordano la CGIL. Agiscono cioè sulla base di strutture rigidamente organizzate, verticistiche e ripongono quasi ogni fiducia nello sciopero tradizionale. Noi, come anarcosindacalisti, riteniamo che tale approccio non solo sia inefficace ma risulta, di fondo, funzionale al capitale: in altri termini si impegnano forze e volontà in lotte minoritarie destinate e rimanere tali proprio perché non aspirano a un reale cambiamento dell'essere ma tendono a una ricerca tutta riformista, di un nuovo equilibrio che vede spesso nello stato la sola risposta: salario garantito o altre simili amenità di natura assistenziale. Di chi, infine, continua con l'opera di dissimulazione circa sigle ed acronimi non vogliamo neppure parlare.

Autogestione come prassi

Fra i compiti del nostro nuovo sindacato di settore riteniamo dovrà proprio esservi l'individuazione di nuovi strumenti di lotta che siano efficaci, incisivi e non schiavi di alcuna forma di servilismo e che siano, invece, fondati su concetti cardine dell'anarcosindacalismo: ovvero autogestione diffusa, rifiuto della delega, in altre parole intendiamo il sindacato    non come strumento di perpetrazione del potere sia tramite il modello del sindacato quale erogatore di meri servizi, sia sindacato usato come strumento esterno per condurre battaglie partitiche riformiste.
Risulta, spesso, facile dire cosa non si vuole mentre può essere difficile delineare quello che si cerca crediamo, però, che questa tendenza oggi non sia qui valida. Noi vogliamo liberare noi stessi, vogliamo che l'educazione non sia più un lavoro da burocrate o un noioso obbligo, ma che divenga, tramite l'autogestione diffusa e la prassi quotidiana, un accompagnarsi in un cammino di crescita comune, collettiva, orizzontale senza educati ed educatori, senza servi né padroni ma solo uomini e donne liberi di apprendere, liberi di donare esperienze.
Oggi, ventuno dicembre duemilaquattordici, a Milano in via Torricelli è il primo congresso nazionale dell'U.S.I.-A.I.T. educazione, evviva U.S.I.-A.I.T. educazione!!!!

Maria Fortino




Per la laicità della scuola pubblica statale

di Anna Gussetti

Il mio intervento è molto pratico, contiene una serie di questioni della scuola e su cui vorrei che USI-Ed ragionasse, per poterle affrontare sia sul territorio sia a livello nazionale.
- La difesa delle scuole piccole a rischio di chiusura, specialmente in campagna e in montagna, come la situazione della Versilia, ricordata da Lorenzo Micheli in un recente video; il fatto che presto le Province trasferiranno le proprie competenze sull'edilizia scolastica ai Comuni potrebbe essere d'aiuto, dal momento che si avranno meno interlocutori.
- “La buona scuola” e tutte le sue storture: non c'è al suo interno nulla di valido e positivo.
- La figura delle educatrici e degli educatori, delle mediatrici e dei mediatori all'interno delle scuole: vengono spesso vissute/i come mere/i assistenti ai bisogni di chi è affidata/o loro, dimenticando che hanno un importante ruolo nell'ambito dell'integrazione; esse/i stesse/i, poi, si sentono fantasmi, non considerate/i, sono scarsamente motivate/i, come più volte ricordato da Davide Milanesi. È opportuno che si rivaluti la loro presenza a scuola, permettendo che assistano, retribuite/i, alle riunioni degli organi collegiali.
- È necessario ribadire la laicità della scuola pubblica statale; sono troppi i casi in cui la subordinazione alla chiesa cattolica fa sì che si ledano i diritti non solo di chi professa altre fedi, ma anche di chi non ne professa nessuna.

Gratuità della scuola, non del lavoro

- La gratuità della scuola va riconquistata: il contributo volontario, deciso dai Consigli d'Istituto per ampliare l'offerta formativa, viene spacciato per obbligatorio da dirigenti scolastiche/i in mala fede, si va a caricare spesso sulle famiglie il costo dei laboratori e delle normali attrezzature; c'è una grande disparità tra chi studia in un liceo e chi invece fa il professionale, per esempio l'alberghiero, dove le alunne e gli alunni devono comprare costose divise e il contributo deciso dall'istituto è di 250-300 euro. Anche il dover ricorrere ai trasporti pubblici impedisce di fatto la gratuità della scuola, dal momento che sono penalizzate le persone che abitano in piccoli paesi e frequentano scuole superiori situate in centri più grandi.
- Sempre più spesso, sta per diventare obbligatorio in tutti i tipi di scuola superiore, lo stage, il tirocinio o l'alternanza scuola-lavoro alle studentesse e agli studenti: questa pratica, con la scusa (pericolosa) di far conoscere il mondo del lavoro, mette letteralmente le giovani e i giovani nelle mani delle imprese che, nel migliore dei casi, le/li parcheggiano a guardare chi lavora al computer o le/li costringe a passare il tempo a far fotocopie e caffè e, nel peggiore dei casi (come avviene nelle scuole alberghiere e per il turismo), le/li sfrutta a costo zero, in competizione, per di più, con coloro che del lavoro avrebbero realmente bisogno.
- Sono contenta che anche le studentesse e gli studenti possano far parte di USI-Ed: il nostro invito a loro deve essere fatto, a mio avviso, con rispetto e cautela, affinché non ci considerino alla stregua delle/dei solite/i adulte/i che vogliono propinare loro la solita visione adulta delle cose; è necessario che facciamo capire loro che saranno ascoltate e ascoltati, che le loro proposte saranno accolte come quelle di chiunque altra o altro, perché vedo che non ne possono più (parlo degli ambienti scolastici in cui mi muovo, ma non solo) di chi le/li invita per poi dirigerle/i in qualche modo.
- È urgente trovare altre forme di lotta oltre allo sciopero, come già detto da Maria;
- propongo di dotarci di un blog di settore, associato al sito usi-ait.org, che raccolga le nostre riflessioni e dibattiti online.

Anna Gussetti


Quando la lotta di classe diventa terreno di scontro regolamentato...

di Paolo Masala

Care compagne e cari compagni, la prima volta che iniziammo a parlare della possibilità di dare vita, all'interno dell'Unione, a un settore specifico riguardante il mondo educativo, era l'aprile del 2011. Oggi, dopo oltre tre anni, quel semplice pensiero che era un desiderio, un auspicio, prende finalmente forma e concretezza.
Abbiamo dato vita, in quest'ultimo anno, a un fecondo dibattito sviluppatosi in tre incontri a carattere nazionale e anche attraverso lo strumento telematico della mailing-list nazionale e di settore. Il mio intervento non tratterà tematiche riguardanti il mondo della scuola, a cui lascio il compito a chi di noi vi lavora, ma più specificatamente quello che è solito definirsi educativo extrascolastico, sociale, ecc. Quella galassia d'interventi e professionalità riconducibili al cosiddetto “Terzo Settore”.
Da oltre un ventennio, sistematicamente e progressivamente, per soddisfare l'applicazione di ricette economiche iper-liberiste, la cura e la promozione sociale delle persone aventi bisogni di varia natura, ha subìto un processo di privatizzazione. Una privatizzazione che, per concorrere nella spietata legge del mercato capitalista, ha trasformato i soggetti da utenti in clienti e le lavoratrici e i lavoratori in operatrici e operatori.
Le istituzioni statali, nelle loro varie forme nazionali e locali (ASL, Regioni e Comuni, ecc.), hanno esternalizzato e appaltato a soggetti terzi quello che era stato, per oltre un quarantennio, loro compito. Da qui il nascere e un proliferare di cosiddette cooperative sociali, fondazioni e associazioni accomunate, spesso e volentieri, dall'avere il suffisso “onlus”. Per oltre un ventennio queste realtà si sono ammantate di un'aurea salvifica, di innocenza originaria e la benedizione “no profit” ne ha caratterizzato lo status soprattutto nell'immaginario collettivo.
Il settore educativo e sociale è stato privatizzato, aziendalizzato e al suo interno vigono ormai i più infernali meccanismi di sfruttamento del sistema capitalista. Le inefficienze dell'amministrazione statale, esemplificabile nei ritardi dei pagamenti agli enti, favoriscono il crescere del potere ricattatorio delle banche nei confronti di quest'ultimi che, giocoforza, si avvalgono di questa motivazione per giustificare situazioni di reale ipersfruttamento delle lavoratrici e lavoratori loro dipendenti. Siamo tutti ben coscienti a quale ricatto morale si è sottoposti.

La trappola infernale del cooperativismo

Il Terzo Settore è saturo di cultura volontaristica, semi missionaria e in nome di “alti ideali” si giustificano norme contrattuali e regimi salariali indecenti. Si fa leva su etica e morale di chi ha scelto questo settore lavorativo per coprire proprie ambizioni di carriera, di puro affarismo imprenditoriale. Il Terzo Settore ormai non ha più nulla di “no profit”. Al proprio interno vigono strutture gerarchiche e autoritarie. Il cooperativismo è diventano una trappola infernale per chi vi lavora. La storica figura del socio-lavoratore è sempre più vittima del possibile rischio d'impresa ma sempre più estromesso da utili d'esercizio e da potere decisionale.
Analoga situazione è riscontrabile nelle altre realtà socio-educative. I vertici aziendali diventano monolitici, immutabili; spesso gestiti da figure divenute leggendarie e mitiche: i vari “Don ...” solo per fare un esempio, che diventano garanti d'intermediazione economica al ribasso tra le istituzioni committenti e l'utenza e chi con essa ci lavora. Le lavoratrici e i lavoratori, quando organizzati in gruppi di lavoro, le cosiddette “equipe”, sappiamo benissimo non avere più nessun potere decisionale. Nella gerarchia interna ai servizi anche questi luoghi, un tempo deputati alla formulazione di un pensiero condiviso, sono divenuti trampolini di lancio per futuri dirigenti della propria organizzazione.
Si modificano i campi semantici e “capo” diventa il più politicamente corretto “coordinatore”. Una figura mai scelta dal “basso” ma sempre imposta dal vertice aziendale a sicurezza del rispetto ossequioso delle scelte d'indirizzo del proprio Consiglio d'Amministrazione. Non è un caso che proprio da questi quadri intermedi vi sia la maggiore resistenza alla sindacalizzazione dei propri colleghi e colleghe. Questa è una delle tante “terre di mezzo” di questo settore. Una terra di mezzo fatta di tanti piccoli privilegi come la formulazione di orari di lavoro ad personam e, fondamentalmente, nessun controllo a monte ma totale potere di controllo decisionale e operativo a valle nei confronti delle equipe e gruppi di lavoro.
Questa totale discrezionalità verticistica e autoritaria si esemplifica anche nelle richieste curriculari lavorative. A criteri e requisiti specifici, come titoli di studio universitari, si è via via sempre più derogato per introdurre personale non qualificato e quindi maggiormente ricattabile da un punto di vista normativo ma soprattutto salariale. Questo modo di intendere il lavoro educativo e sociale privatizzato ha fatto della precarietà il suo modus operandi.

Un quadro di sfruttamento

Attualmente vi sono decine di CCNL (contratto collettivo nazionale del lavoro) applicati e ognuno peggio dell'altro. Spesso chi ne è inquadrato si ritiene pure fortunato in confronto a chi è costretto a lavorare “a progetto”, a tempo determinato, ecc. Questi CCNL sono indecenti! Hanno minimi salariali tabellari al di sotto di gran parte di altre categorie lavorative e soprattutto aspetti normativi che non permettono a chi lavora nel sociale di avere, paradossalmente, una propria vita sociale fatta di relazioni e affetti. Lavorare 38 ore settimanali è solo nominale sulla carta ma la realtà è fatta di settimane anche di oltre 50 ore perché, nei servizi operativi H24, la turnazione non prevede il riconoscimento dell'attività lavorativa in orario notturno e se la prevede viene forfetizzata a poche decine d'euro a notte comunque sempre oltre le 38 ore. A chi opera in ambito domiciliare, quasi sempre non vengono riconosciuti i tempi di spostamento da un utente all'altro e così, per poter avere una giornata lavorativa retribuita di 8 ore, si è impegnati 10/12 ore al giorno con conseguenti ricadute negative, anche qualitative, dell'intervento stesso.
Vengono istituite cosiddette “banche ore” con il solo scopo di non riconoscere il lavoro straordinario retribuito. Ore straordinarie sempre a libero arbitrio dei vertici aziendali che impongono anche le eventuali modalità di usufrutto a recupero. Il passaggio da part-time e full-time è sempre più variabile dipendente a secondo del monte ore d'intervento stabilito nelle varie gare d'appalto e la precarietà, da condizione lavorativa, diventa anche condizione esistenziale. Spesso il confine tra operatore e utente, in quanto a disagio, diventa labile...

La responsabilità del sindacalismo confederale

Ecco perché è quanto mai necessario un vero sindacato di settore che ponga fine a tutto ciò! Il sindacalismo confederale, in particolare in questo settore, è il maggior responsabile del degrado a cui si è giunti. Il suo collateralismo con il mondo del cooperativismo e associazionismo fa sì che i processi di privatizzazione abbiano strada spianata. Vertici sindacali e vertici aziendali spesso coincidono e con abile gioco di ruolo li si ritrova al tavolo delle stesure contrattuali. Interessi economici quindi condivisi a discapito di lavoratrici e lavoratori privati da chi avrebbe dovuto difenderli nei loro interessi materiali.
Ma noi siamo l'USI-AIT, la più autentica e originaria espressione anarcosindacalista in Italia. Non siamo un sindacato di professionisti a presunta difesa di lavoratrici e lavoratori. Siamo un sindacato di lavoratrici e lavoratori che difendono se stessi a partire dal proprio posto di lavoro. Un sindacato che si differenzia anche da tutti gli altri sindacati cosiddetti di “base”. Noi non abbiamo e non vogliamo sindacalisti di mestiere, distaccati, a libro paga di qualcuno.
Il vero sindacalismo per noi si sostanzia nell'essere totalmente indipendenti anche dalla nostra stessa organizzazione. La pratica sindacale è esercizio d'emancipazione individuale e collettiva e non una professione come altre ma solo un po' più “sociale”. La scelta di lavorare nel “sociale” l'abbiamo già compiuta. Ecco perché diviene elemento fondativo e dirimente il fatto che il nostro riconoscimento a esistere non deve essere subordinato a fattori legislativi da sempre a favore padronale, ma deve palesarsi dalla volontà delle lavoratici e lavoratori nel proprio luogo di lavoro.
Fondamentale è la sezione di sede lavorativa come luogo deputato principe all'azione sindacale. In subordine vi deve essere il riconoscimento da parte della controparte, che può avvenire come rappresentanza sindacale, prescindendo dall'essere firmatari o meno di CCNL, accordi, ecc. L'attuale legislazione relativa alla rappresentanza sindacale sui luoghi di lavoro, va rigettata completamente.
Dal 1991-1993, biennio che sancì il modello concertativo governo-padronisindacati e la nascita delle R.S.U., il potere sindacale e rivendicativo è andato sempre più in difensiva. La logica elettoralistica e semi-parlamentarista delle R.S.U. con il suo corollario di liste, elezioni, ecc. ha sempre più indebolito e frastagliato il fronte di classe delle lavoratrici e lavoratori spesso costretti a porsi in modo contrapposto tra le diverse sigle d'organizzazione. Il modello delle R.S.U. ha insito in sé lo spirito della delega, della deresponsabilizzazione a lottare in prima persona per i propri diritti. A prescindere dall'attuale regolamentazione che sancisce arbitrariamente quasi il monopolio della rappresentanza al sindacalismo confederale e concertativo, questo modello alimenta il formarsi di ceto sindacale di tipo burocratico più incline a perpetuarsi attraverso logiche politicistiche che non foriero di reali iniziative intransigenti di lotta.
Quando la lotta di classe diventa terreno di scontro regolamentato e normato, la storia ci insegna che è sempre stata a vantaggio dei padroni. Con gli accordi del gennaio 2014 il diritto alla rappresentanza sarà ancora di più discriminatorio nei confronti delle realtà di base. La politica dei due tempi, malauguratamente spesso fatta propria anche dal sindacalismo di base, ossia di pensare di poter starci e poi modificare dall'interno i vari equilibri a proprio favore, è classica chimera riformistica che immensi danni ha già arrecato alla classe lavoratrice.

Modello assembleare e astensionismo attivo

L'unico modello da riattualizzare e proporre è il modello consigliare e assembleare. L'assemblea generale delle lavoratrici e lavoratori sancirà piattaforme rivendicative con delegati, espressione delle organizzazioni sindacali, a termine di mandato per la conduzione delle trattative con le controparti. Quindi non solo come USI-AIT settore Educazione non dobbiamo presentarci alle elezioni triennali per le R.S.U., ma dobbiamo attivarci per un suo boicottaggio attraverso una campagna d'astensionismo attivo. Non dobbiamo farci dettare le regole da governo e padroni su come condurre le nostre lotte sindacali e attraverso quali strumenti.
Questo per noi è fare sindacalismo. Un sindacalismo d'azione diretta, di mutuo appoggio, conflittuale e solidale. Compagne e compagni, la costruzione del nostro sindacato di settore ci vedrà come una sorta di “pionieri” nel nostro posto di lavoro, nei nostri territori ma anche all'interno della nostra stessa Unione. Se le condizioni di lavoro stanno sempre più assumendo connotazioni da fine ‘800 allora significa che anche per noi è giunto il momento di riprendere, con forza, vigore e animo riattualizzatore, la storia migliore del sindacalismo rivoluzionario. Nel solco della tradizione anarcosindacalista dell'Unione Sindacale Italiana, dell'internazionalismo dell'Associazione Internazionale delle Lavoratrici e Lavoratori, salutiamo oggi la nascita del nostro sindacato di settore.
W l'U.S.I. W l'A.I.T.

Paolo Masala

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U.S.I-A.I.T. Educazione
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