rivista anarchica
anno 45 n. 397
aprile 2015





Segnaletiche americane
Quando le foto servono per schedare

Il vostro sguardo sta per incrociare, nelle pagine di questa rubrica, i volti di uomini e donne dichiarati dalla società, fuori legge, reietti, delinquenti. “Safe distance“ è una selezione di fotografie identificative americane scattate nell'arco del cinquantennio che va dal 1890 fino agli anni '40 del XX secolo. Una mostra di Fabrizio Urettini che si è tenuta tra ottobre e novembre a Milano presso lo spazio Pomo.
Criminologi e forze di polizia dalla seconda metà dell'800 hanno deciso dopo lunghi dibattiti di immortalare con una particolare tecnica questi soggetti criminali una volta arrestati o fermati, per creare un vero e proprio archivio del crimine. Inventata la fotografia subito è stata usata per affinare metodi repressivi. Prima di diventare uno strumento di indagine infatti la fotografia segnaletica è stata una disciplina clinica, un sistema di classificazione dell' “uomo delinquente“. Queste foto che a un primo sguardo superficiale possono sembrare semplici in realtà “dietro“ nascondono funzioni affinate di sorveglianza e controllo.
Attraverso l'analisi antropologica appare chiaro che la fotografia è ben più di una tecnica o un'arte e che essa può essere letta come descrizione densa degli ambiti che rappresenta, schiudendo alla comprensione dei sistemi di relazione e di senso che una determinata società affida all'immaginario e alle immagini.

Volantino della mostra di Fabrizio Urettini

Secondo Maurice Merleau-Ponty esponente di primo piano della fenomenologia francese del Novecento, il vedere rimanda alle effettive condizioni del guardare e dell'osservare, comprese le condizioni sociali dei regimi percettivi, condizioni che sono oggetto fondamentale della ricerca antropologica. Ora, una convinzione di senso comune è che la visione sia fondamentalmente una questione individuale, ovvero l'azione di un individuo qualsiasi posto di fronte alla realtà. Io sono invece convinto che dobbiamo considerare la visione come un'attività eminentemente sociale e culturale, una pratica esperta che dipende in modo fondamentale dalla costruzione culturale dell'individuo che guarda e dalla specificità di ambienti e artefatti rilevanti presenti, in questo caso (mostra “Safe distance“) nella fotografia guardata.

Seattle (Stati Uniti), 1926 - Una scheda segnaletica
(dalla collezione di Fabrizio Urettini)

Vale la pena ricordare che la percezione è culturale. È cioè il prodotto dell'attività umana, così come, al tempo stesso, ne è la guida. Oltre a orientare in senso stretto l'uomo a muoversi nell'ambiente, la percezione ne orienta il comportamento, condiviso con altri nella società. Insomma la natura del guardare è al tempo stesso «fenomenologica e storica»
Quello che questa mostra richiede sono visioni abili, addestrate e competenti. L'abilità visiva non è di per sé una forma di rappresentazione. Non si tratta di rappresentazioni del mondo ma di codici di lettura del mondo, di diversi modi di guardare il mondo – che sono spesso invisibili. Problematico è quindi studiare questi diversi modi di guardare il mondo, e farne una rappresentazione.
Ha perfettamente senso chiedersi quali siano le leve profonde che ci smuovono ogni volta che guardiamo un'immagine, in generale – se ci siano connessioni e meccanismi innati che ci fanno propendere per determinate composizioni estetiche, che ci fanno riverberare rispetto a determinati colori, forme, architetture fondamentali. Ha altrettanto senso chiedersi se c'è qualcuno a cui una stessa immagine dica qualcosa di più che non a noi, e perché. Per essere più chiari sarà differente la percezione di un poliziotto che guarda questa mostra da quella di un detenuto, ma non solo in questo caso estremo sarà differente anche tra un fotografo e un operaio o tra uno studente e un professore.
I saperi dello sguardo sono quindi competenze socialmente coltivate: un saper notare, evidenziare, seguire, capire, indicare, cogliere, rappresentare, comprendere si modifica a seconda della costruzione culturale-esperienziale del soggetto osservante.
Non dimentichiamo e soprattutto non sottovalutiamo il fatto che alcune caratteristiche spontanee ed intrinseche della coscienza come l'attività analogica e associativa, l'istinto mimetico, la capacità di comporre sequenze narrative, si attivano grazie a quei catalizzatori morfologici, percettivo-cognitivi, che sono le immagini. Guardare è una “tecnica del corpo“ culturalmente inculcata e socialmente performata, per questo mentre guardate queste foto dovete stare molto attenti a non cadere subito nella narrazione del dominio che vuole mostrarci questi uomini e queste donne fermi immobili nel momento del loro arresto. Vuole dirci: ecco i nemici della società, mostrarci la faccia del male.

Brooklyn, New York (Stati Uniti), 1940 - Line up
(dalla collezione di Fabrizio Urettini)

In questa mostra non osserverete solo volti nelle foto ma anche piccoli testi descrittivi sul fotografato. In un ottimo testo, La vita degli uomini infami, Michel Foucault si sofferma sulla questione della scrittura di “biografie sintetiche“ di soggetti anonimi, reperibili negli archivi di istituzioni disciplinari come ospedali e commissariati. Lo stesso interesse che ha mosso Foucault muove gli autori della mostra, condividono la necessità di pensare un problema centrale nella storia delle forme discorsive, quello della resa visibile di esistenze e pratiche di vita di uomini senza rilievo, senza fama; vite anonime, destinate a transitare nel solo ordine del ciclo naturale o in quello puramente statistico della popolazione. Una mostra come questa invece li riporta al centro dell'attenzione. Come vedrete soprattutto per la parte relativa ai Wanted le istituzioni disciplinari hanno senza volerlo preservato dalla cancellazione totale queste “vite infami“, perché hanno “raccontato“, qualificandoli e caratterizzandoli con piccoli frammenti di immagini e testo le loro particolari esistenze.
La straordinarietà dell'ordinario e la significatività del banale appartengono all'anima stessa dell'invenzione della fotografia; per cui l'assunto di Barthes – la fotografia rende significativo il banale che fotografa – è sicuramente uno dei pregi di questa mostra, ovvero quello di rendere importante e significativo proprio quel banale.

Andrea Staid