rivista anarchica
anno 45 n. 397
aprile 2015




Il paese inesistente

Stamattina, tra i banchi del mercato del paese di mare dove son nata e dove non vivo, ho avuto un'esperienza illuminante sulla natura della globalizzazione che orienta il lento processo di nascita di una mitica Europa Unita senza confini.
Dovevo comprare una canottiera per la mia madre novantenne (impresa complessa poiché la veneranda signora ha idee molto chiare su quel che vuole e una comprensibile difficoltà a raggiungere l'obiettivo con le sue gambette). Il venditore, un simpatico Gabibbo in borghese, dopo avermi rimbambita di chiacchiere sulle 82 opzioni possibili, ha concluso la carrellata di prodotti di ogni combinazione pensabile di materiali infilandomi in mano la “madre di tutte le canottiere“, l'“intimo definitivo“, l'acquisto irrinunciabile, spiegandomi con enfasi che «Questo è garantito italiano». Sulla scatola, c'era un tricolore in bella evidenza, con a fianco una dichiarazione di appartenenza, espressa in versi da J-Ax, che per i contenuti ricordava i tempi gloriosi di Garibaldi, e Mazzini, e l'Unità d'Italia.
Non era pazzo, il Gabibbo domestico, e non era neanche un caso strano.
Ho girato il mercato in cerca di altre testimonianze di questo tipo. Ne ho trovate a bizzeffe, ma non volevo comunque rassegnarmi a questo insano provincialismo. Alla fine, mi sono arresa quando anche un venditore nordafricano, con un italiano stentato, mi ha proposto come irrinunciabile un articolo che stavo guardando perché «Tutto Italia, signora».
Ne ho dovuto concludere che non avevo capito nulla. Non avevo capito quanto stesse diventando forte e radicata la necessità di rivendicarsi, nel pensare comune, come parte di un paese, membri di diritto di una cultura, esponenti purosangue di una etnia che non vuole essere né europea né globalizzata, ma che invece trova nell'essere italiana – e nel prodotto di questa italianitudine – una rassicurazione tradizionale durissima a morire.
E questo anche in un momento in cui gli intellettuali e non solo quelli si vergognano mediamente di stare in questo paese, e i giovani vanno a cercare da lavorare altrove, e gli scrittori, i musici e gli artisti tutti – a meno che non siano completamente cretini – si accorgono che il mondo della cultura sta rotolando, e i professori di università o vanno in pensione oppure sarà meglio che imparino il cinese, perché di quella lingua è l'economia del futuro.
Insomma, in tutto questo casino, al mercato che un prodotto sia italiano è una referenza irrinunciabile. La gente semplice, in qualche modo, ancora ci crede, coccolando l'idea di questa profonda, benestante, rassicurante italianitudine che vogliamo pensare sia ancora qui, con noi, a tenerci compagnia.
Ci ho riflettutto e credo che questa crisi recente, questa specie di tracollo inconsapevole dal quale l'ineffabile renziana politica si vanta di starci tirando fuori, ha accentuato i due regimi di pensiero, del tutto separati, che caratterizzano il nostro paese. La spaccatura si è fatta più acuta e sostanziale, rendendo ancora più evidente il modo in cui ci sia una parte della nazione che vive in un paese di fantasia, nel quale coltiva una serie di interessi immaginari – politici, culturali, artistici, letterari – che nulla hanno a che vedere col paese reale.
Entrate in una libreria e provate a vedere quanti dei successi letterari italiani del momento affrontano questioni vagamente spinose, sbilanciandosi addirittura a usare uno stile, magari, persino impegnativo. Guardate quanti politici sono in grado di parlare con competenza, per averla conosciuta, delle categorie professionali che vantano di rappresentare. Mi ricordo bene, ad esempio, una breve intervista di qualche anno fa a Occhetto, già in pensione eppure, a sentire i giornalisti, fruitore di un ufficio in centro a Roma, ad affitto bassissimo o nullo, che nella sostanza e con autentica meraviglia, chiedeva alla giornalista: «Ma perché, lei non crede che me lo sia meritato, questo ufficio?».
All'epoca io avevo pensato: “Ma tu proprio non hai idea. Proprio non lo sai come vive la gente normale. E dovresti essere stato tu il rappresentante principale di quella gente“.
C'è poi un'altra parte di paese che fatica a vivere, si arrabatta, magari si suicida a 40 anni perché non trova un lavoro, magari rovista negli avanzi dopo il mercato perché la pensione non gli basta a comprarsi da mangiare di prima mano. Ora, questa parte del paese però – e qui arriva la cosa bizzarra – invece di indignarsi e strillare che la dignità è un diritto, che fa? Cerca di imparare le regole della truffa da chi è ricco. Ne ammira l'abilità. Se ne fa emulo ed elettore. Vorrebbe, cioè, essere al posto del ricco – sia esso Berlusconi, Briatore, Valentino Rossi, ma in fondo anche Grillo e i suoi fratelli, che indigenti non sono. E dunque li vota, li sostiene, li aiuta a scalare posti nel mondo politico o nell'opinione pubblica – che poi alla fine è la stessa cosa – tranne poi scoprire che le promesse son state tradite, le parole date non mantenute, e la consueta distanza tra il principe e il povero è stata, fatalmente e inequivocabilmente, resa eterna.
Sono due paesi diversi, e ognuno va per la sua strada. Il varco si allarga, la libertà non appartiene a nessuno, e non è neanche contemplata come possibilità, a meno che essa non si faccia forzatamente coincidere con l'atarattica indifferenza a tutto quel che non si può cambiare.
Tra i due mondi, restano quelli come me i non adatti, intrappolati nella terra di nessuno che è il buonsenso, con due canottiere fabbricate in Italia. Qualunque cosa essa sia.

Nicoletta Vallorani