rivista anarchica
anno 45 n. 400
estate 2015


 


Viaggio
alla fine del dolore

Di questo libro – pubblicato da Fazi Editore lo scorso mese di febbraio – hanno scritto in molti e sempre con toni molto positivi. Ho voluto aggiungermi al coro perché la sua bellezza si presta a sostenere molto più di un elogio. Sto parlando di Anima (Fazi Editore, Roma, pp. 496, € 18,50) scritto da Wajdi Mouawad, artista libanese conosciuto e apprezzato, soprattutto in Francia, come autore di teatro. Questo è il suo secondo romanzo.
Cinquecento pagine scritte nell'arco di dieci anni che hanno condotto ad un lavoro di rara intensità e pulizia per un tema così cruciale come quello che si affronta. Il libro, di primo acchito, si presenta come un noir: un uomo trova la moglie uccisa barbaramente e decide di partire alla ricerca dell'assassino, non per vendetta, ma perché vuole vedere la faccia di chi ha potuto accanirsi in maniera così brutale sul corpo di una donna incinta e perché quella morte ha iniziato a far riaffiorare in lui ricordi di cui non aveva consapevolezza.
Inizia il viaggio e con esso iniziano a dipanarsi le mille sfaccettature del dolore. È il grande tema e viene affrontato magistralmente scegliendo di non guardare al dolore solo dal punto di vista umano ma anche da quello degli animali. C'è il dolore ontologico, che fa parte del tessuto della vita che uccide la vita, che di essa si nutre, e c'è quello causato dall'essere umano sulla sua stessa specie e sulle altre specie viventi. Niente è peggio o meglio, tutto è sentito e narrato con eguale partecipazione, asciutta e ricca di pathos.
Unica è l'anima in cui tutto risuona, un'anima universale che ci comprende insieme alle anime di un universo animale narrante che costituisce il punto di vista particolare su cui il testo viene costruito. Infatti ogni capitolo porta il nome scientifico dell'animale, – felis sylvestris catus, musca domestica, vespula germanica, equus caballus – che descrive azioni ed emozioni. Su questa scelta stilistica vorrei soffermarmi perché ho trovato veramente grande il modo in cui il dolore umano viene raccontato al pari di quello animale (la descrizione di una femmina di procione uccisa dal viavai delle automobili è toccante tanto quanto quella dell'assassinio della moglie del protagonista e la narrazione della folle disperazione dei cavalli rinchiusi nel camion che li sta trasportando al macello non è da meno di quella della peggiore strage compiuta da esseri umani su altri esseri umani inermi), in un unico “canto animale” che tutto unisce mentre tutto lascia scorrere. Unica è l'anima del mondo, quindi uno è anche il dolore che ci accomuna: questo il messaggio che nel libro passa con molta chiarezza. Sarebbe bello potessimo farlo nostro, intimamente.
Ascoltiamo la voce di una scimmia: “Gli umani sono soli. Malgrado la pioggia, malgrado gli animali, malgrado i fiumi e gli alberi e il cielo e malgrado il fuoco. Gli umani sono sempre sulla soglia. Hanno avuto il dono della verticalità, e tuttavia conducono la loro esistenza curvi sotto un peso invisibile. C'è qualcosa che li schiaccia. Piove: ecco che corrono. Sperano nella venuta delle divinità, ma non vedono gli occhi degli animali che li guardano. Non sentono il nostro silenzio che li ascolta. Prigionieri della loro ragione, la maggior parte di loro non faranno mai il grande passo dell'irragionevolezza, se non al prezzo di un'illuminazione che li lascerà esangui e folli. Sono assorbiti da ciò che hanno sotto mano e quando le loro mani sono vuote, se le portano al viso e piangono”.
La solitudine umana è un altro dei temi che si intrecciano, strada facendo, a comporre la molteplice trama di voci, partendo da quella del protagonista – Wahhch Debch, libanese di origini, il cui nome tradotto significherebbe “mostruoso brutale” – che era bambino in Libano all'epoca della strage di Sabra e Chatila.
Ci sono i territori delle riserve indiane del Quebec, dove convivono bassezze orribili insieme alla meraviglia della cosmologia dei popoli nativi delle zone che Wahhch attraversa per incontrare l'indiano Mohawk che si sa essere l'assassino di sua moglie. Sono territori di confine, ma il confine, prima di essere quello tra uno stato e l'altro, è quello tra il bene e il male, fra l'identità di un popolo e la sua autodeterminazione, fra ciò che è umano e quello che è disumano, tra umano e animale. Ci si muove in continuazione cercando una spiegazione al male e perciò si sprofonda nelle viscere di un mondo governato da brutalità e perdizione, si scende nel lato oscuro della natura umana, il peggiore. Si attraversano gli stati dell'America alla ricerca della verità sulla storia del protagonista.
Bellezza e orrore della natura umana ci accompagnano lungo tutto il viaggiare. Bellezza e brutalità della natura animale con cui siamo portati a fare paragoni. Il protagonista ha un rapporto speciale con gli animali, li vede ed è visto, li rispetta ed è rispettato, li salva ed è salvato in più di un'occasione, quasi come accade nelle favole e questo è commovente in un libro che incalza seguendo il divenire dei fatti tipico della tragedia greca. Si tocca il fondo dell'obbrobrio per arrivare alla catarsi, a una sorta di giustizia finale che Wahhch e gli animali compiono.
La storia finisce e la voce narrante del coroner incaricato delle indagini racconta l'epilogo. Un uomo, una donna e un cane continueranno il viaggio dirigendosi verso nord: “Cosa getteranno nel tumulto delle onde? Cosa affideranno agli abissi? Quale dolore? Quale dispiacere? Nelle profondità marine esistono pesci mostruosi dotati di parola, custodi di una lingua antica, dimenticata, parlata ai tempi dei tempi dagli umani e dalle bestie sulle rive dei paradisi perduti. Chi mai oserà immergersi per unirsi a loro e imparare a decifrare e parlare di nuovo quel linguaggio? Quale animale? Quale uomo? Quale donna? Quale essere? Quell'essere, se risalisse in superficie, porterebbe nella propria bocca azzurrata dal freddo i frammenti di una lingua scomparsa di cui tutti noi cerchiamo da sempre, instancabilmente l'alfabeto. Impareremmo di nuovo a parlare. Inventeremmo parole nuove. Wahhch ritroverebbe il suo nome. Non tutto sarebbe perduto”.

Silvia Papi



Dietro e dentro
i meccanismi culturali

È mio convincimento che una piena, o quantomeno adeguata, comprensione di qualsivoglia esperienza debba tener conto dell'approccio con la quale la viviamo. Questa considerazione vale in particolare quando incontriamo un testo soprattutto se interessante e in qualche misura illuminante. Nel caso specifico, mi ha indotto a leggere I Buoni (Chiarelettere, Milano, 2014, pp. 224, € 14,00) una conferenza tenutasi in un'austera sala della Cavallerizza Reale. In quell'occasione si ragionava “della feroce retorica del Bene e della Cooperazione sociale” a partiredal libro di Luca Rastello.
Ero quindi mosso, come sovente mi capita, in primo luogo da un interesse pratico-sensibile, dall'esigenza di conoscere meglio l'universo della cooperazione sociale e del volontariato del quale mi occupo, di norma, come organizzatore sindacale “irregolare” e come militante politico.
La conferenza prima e la lettura del libro poi non mi hanno, da questo punto di vista, certamente deluso, ma è bene tener conto che si tratta comunque di un romanzo, a rigore di un romanzo storico che applica puntualmente i canoni che hanno guidato Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi e che sono stati formalizzati da György Lucaks: le vicende immaginarie di personaggi immaginari come strumento per una rigorosa disamina di quadro storico-sociale minuziosamente conosciuto. Non mancano, quindi, amori, passioni, sofferenze, avventure e vicende che riguardano il vissuto individuale.
Detto ciò, il libro si caratterizza per la puntuale ricostruzione della natura umana e sociale e di alcune specifiche culture politiche di questo universo. Per un verso si descrive il mondo del volontariato nel suo intreccio con la cooperazione sociale, un mondo che presenta se stesso appunto come “i buoni”, coloro che si prendono carico della sofferenza sociale, coloro che, in una società individualista ed egoista, propongono uno stile di vita e dei valori antagonisti all'esistente.
Da questo punto di vista si descrivono i meccanismi dello sfruttamento della forza-lavoro, del ricatto morale con cui questo sfruttamento è giustificato, della costruzione di un vero e proprio universo totalitario. A questo universo moralista, cupo, autoflagellantesi non manca per altro di interlocuzioni forti con imprenditori, politici, banchieri “amici” secondo l'antico precetto per il quale omnia munda mundis. Per l'altro verso si analizza un classico caso di eterogenesi dei fini: l'ibrido prodotto dell'incrocio fra cattolicesimo radicale e rottami del comunismo storico novecentesco, sviluppatosi a partire dagli anni Settanta come tentativo di costruire un altro mondo possibile nella concretezza del fare, ha prodotto un sottomondo perfettamente funzionale allo smantellamento del welfare, all'esternalizzazione dei servizi sociali, al controllo caritatevole della devianza sociale.
Si potrebbe parlare dell'ennesima sconfitta della generazione del Sessantotto, o quantomeno di quella parte di questa generazione, e di coloro più giovani che ne hanno seguito le tracce, che ha tentato di sottrarsi alle ferree leggi dell' economia di mercato e, contemporaneamente, alla gestione statale e burocratica dell' esistente.
Uno scacco, se vogliamo, dell'idea che sia possibile costruire, dentro la società statale e mercantile, un significativo settore, soprattuto nei servizi, realmente autogestito. Ovviamente un'analisi approfondita di questo problema richiederebbe uno spazio che non vi è in questa sede tantopiù se si considera che questo tema non è centrale nel libro di Luca Rastello; basta rilevare che, visto che i committenti sono gli enti locali e comunque lo Stato e che i committenti definiscono il quadro in cui si svolge la cooperazione sociale e le risorse che ha a disposizione, sarebbe ben strano che non tenesse sotto il proprio controllo questo campo di attività.
In realtà Rastello concentra la propria valutazione critica soprattutto sui meccanismi culturali che sottendono alla vita di questo mondo ed indubbiamente, se consideriamo che si ragiona di un lavoro di cura alle persone, il disvelamento della sua natura profonda è essenziale.
Nei fatti quindi il libro che, oltre ad essere di lettura gradevole anche se non sempre facile, è uno strumento utile per la critica dell' attuale struttura di dominio proprio laddove pretende di celare la sua reale natura.

Cosimo Scarinzi



La pratica della
trasformazione sociale

Una nuova, piccola, casa editrice libertaria. Nella Svizzera italiana. Si chiama Edizioni Les Milieux Livres e ha appena pubblicato due volumetti: Manifesto per una alternativa (Soazza - Svizzera, 2014, pp. 47, € 5,00) di Patric Mignard e Riflessioni sull'individualismo. Sapere-volere-potere di Manuel Devaldès. Del primo riproduciamo qui la postfazione di Stefano Boni.
Per maggiori informazioni:
www.lml-edizioni.org - lml@lml-edizioni.org

Mignard ha una scrittura essenziale, pregevole per la limpidezza e la capacità di sintesi, libera di citazioni e verbosità superflue, disinteressata a dibattiti teorici e astratti, sempre finalizzata a proporre argomentazioni serrate che, piuttosto che a logiche formali, rispondono alla esperienza quotidiana dei lettori. Proprio partendo dall'esperienza, l'attenzione è volta alla questione, su cui chiunque desideri un cambiamento sistemico si interroga con frequenza, di cosa fare in un contesto desolante, segnato da decenni di progressiva concentrazione del potere ed un esproprio generalizzato di sovranità e diritti, competenze e autonomie dal corpo sociale ai potentati politici e finanziari. Il tono che assume lo scritto di Mignard, piuttosto che quello della disquisizione accademica, è quello quasi profetico, comune ad altri analisti politici contemporanei come Negri e Holloway.
L'opera di Mignard ha due enormi pregi: da un lato il taglio storico di lungo periodo; dall'altro la proficua autocritica, coerente e inflessibile. Per uscire dalle nebbie intellettuali che ci vengono proposte dall'asservita industria dell'informazione, abbiamo bisogno di trovare un senso in analisi storiche epocali, riflessioni che aiutino a comprendere, oltre le apparenti urgenze del momento, dove è indirizzato il modello che ci viene imposto e la sorte delle resistenze che hanno cercato di opporsi. Se i media ci propongono solo notizie che evaporano in un presente frenetico che tende a distrarci da analisi ponderate, abbiamo bisogno di sguardi eretici e profondi. Mignard stimola proprio questa ricerca di senso che scardina la cacofonia imperante.
Per individuare le dinamiche che ci hanno portato all'attuale impotenza politica e sull'orlo del collasso ecologico, si deve uscire dal chiacchiericcio somministrato dalla retorica della politica istituzionale e analizzare la storia contemporanea senza aggrapparsi alle letture e agli alibi ai quali siamo assuefatti, in grado solo di convincerci ad accettare il prossimo fallimento o farci compiacere dei contentini ceduti dai potenti, peraltro di questi tempi sempre più scarsi e tossici. Ci viene offerta un'analisi senza sconti delle sconfitte nelle lotte, delle cooptazione di partiti e sindacati rivoluzionari, degli insuccessi delle mobilitazioni e delle corruzioni dei movimenti contro il potere di capitale e stato. Se la schiettezza dell'analisi è estrema, la sua lettura è condivisibile, anzi irrinunciabile se si vuole immaginarsi un futuro in cui il protagonismo storico sia diffuso e non concentrato nei palazzi dei potenti.
Mignard, da un lato, dice cose evidenti, dall'altro ciò che evidente è al contempo sconvolgente. Le “lotte” dal secondo dopoguerra in poi sono stati un susseguirsi di tentativi fallimentari, quando in buona fede, e con il passare dei decenni, si sono trasformati sempre più in forme di mistificazione e di sostanziale appoggio al mantenimento dell'ordine sistemico, come ormai reso evidente dal ruolo della maggior parte dei sindacati, essenziali per svuotare di radicalità ed efficacia le mobilitazioni dei lavoratori. Perseverare con le tattiche e le strategie del Novecento è masochismo. Eppure, paradossalmente, è proprio l'affermazione globale e incontrastata del neoliberismo (ideologico, produttivo, massmediatico, istituzionale, neocoloniale) che genera le condizioni non tanto della fine del capitalismo (che continua ad accumulare profitti, investimenti, proprietà a scapito del tessuto sociale) ma della sua messa in crisi in termini di credenza e adesione. Nel momento in cui la prima arma di affermazione del sistema che ci ha dominato, il comodo consumismo, comincia a limitare la sua capacità di diffondere l'agognato agio, si aprono inedite prospettive per chi da sempre ha sostenuto la perversità sistemica del dominio criptico della merce e dello stato.
È un'epoca in cui, se da un lato, la prospettiva di una uscita dal dominio del capitale e del sistema mercantile appare problematica come non mai, dall'altra parte, se ne stanno creando le premesse sia per la sua irrinunciabilità (è oggi in pericolo la nostra stessa esistenza come specie) sia perché le menzogne che hanno contribuito ad inibire un conflitto risolutivo appaiono, ad un numero crescente di persone per quel che sono. Il Potere riesce sempre meno ad egemonizzare il senso, ad offrire compromessi socialdemocratici, a produrre merci ammalianti e riassume, quindi, la forma del controllo e della forza bruta contro qualunque opposizione sociale.
La sfida oggi è di creare un attivismo sociale che non sia teorico né di testimonianza. Ci sono le premesse sociali, il disagio e la disillusione per le verità egemoniche, che rendono le proposte radicali e anarchiche – dopo decenni di marginalità strutturale – attraenti, sensate. Come Mignard giustamente nota, non bastano più le manifestazioni. Le recenti riflessioni anarchiche sul superamento del concetto di rivoluzione appaiono quanto mai utili. Se la storia insegna che “prendere il palazzo” rischia di generare nuove gerarchie, spesso più brutali di quelle che sostituiscono, allora si tratta di cercare nuove strade per svuotare le istituzioni, evadere da prassi mercificanti, ignorare i media, interrompere processi di delega dal tessuto sociale alle istituzioni.
Abbiamo delegato la nostra sovranità politica, ed oggi appare evidente a molti l'inganno epocale della nozione di democrazia, nella sua forma rappresentativa. Abbiamo delegato la stesura delle norme sociali a politicanti senza scrupolo e ci ritroviamo sovrastati da un sistema legislativo e burocratico sterminato, incomprensibile, pervasivo, impenetrabile. Abbiamo delegato la capacità tecnica a multinazionali e ora siamo umanità priva di competenze tecniche direttamente applicabili, dipendenti dai loro prodotti e servizi. Abbiamo delegato la salvaguardia dei nostri territori, con risultati drammatici per fauna, flora e per la stessa salute umana. Abbiamo delegato la produzione di alimenti, siamo praticamente costretti al cibo industriale e malsano dei supermercati. Abbiamo delegato l'educazione dei nostri figli e delle nostre figlie a istituzioni che più di formarli si preoccupano di disciplinarli.
La lista delle deleghe potrebbe proseguire: ce ne sono innumerevoli. Per chi oggi sente le deleghe come una mortificazione della sua creatività, un'amputazione della sua socialità, una minaccia per la sua salute, una prevaricazione delle sue libertà, un'offesa alla sua dignità, l'uscita dai meccanismi di affidamento alle istituzioni che ci governano è problematica. L'aspettativa di un processo di riforma che parta dalle istituzioni stesse appare, oggi più che mai, illusoria: ormai i potentati costituiscono un blocco omogeneo, coordinato a livello globale che lascia scarsissimo spazio di manovra ai singoli governi. La prospettiva di una insurrezione, oltre che remota, appare con l'attuale configurazione del tessuto sociale, a forte rischio di derive neo-autoritarie: una sollevazione popolare oggi assumerebbe verosimilmente toni razzisti e l'esaltazione di leader carismatici. La strada che appare più plausibile, in questa fase storica, è una paziente trasformazione culturale che limiti le deleghe e restituisca protagonismo e sovranità al tessuto sociale. La distanza tra ciò che desideriamo e ciò che abbiamo oggi sotto gli occhi è grande; è quindi lungo il sentiero da percorrere per arrivarci. Non ci sono scorciatoie: un cambiamento culturale non si ottiene vincendo elezioni, conquistando il palazzo militarmente, fondando un nuovo partito o elaborando una nuova teoria politica. Si fa insieme e si fa nel quotidiano. Si tratta di innestare i principi libertari dove ci conducono le nostre esistenze, seminando processi autogestionari nelle imprevedibili trasformazioni che segnano le società europee in questa fase prolungata di stagnazione e recessione.
Mignard arriva al suo Manifesto per una alternativa partendo dalle sue conoscenze storiche ma l'antropologia indica le medesime dinamiche: i cambiamenti epocali sono mutazioni culturali; impiegano più generazioni a concretizzarsi; generano prassi di vita nel loro insieme innovative; investono ogni ambito del vissuto. Non si tratta di produrre un Uomo Nuovo ma una nuova cultura, una nuova organizzazione della vita. Una trasformazione culturale epocale significa fortificare esistenze che si liberano dalla delega non come critica teorica ma come prassi quotidiana. È difficile immaginarsi trasformazioni radicali in grado di dissolvere le istituzioni se la società si trova a dipendere da queste per infiniti aspetti, dalla banca al supermercato, dal telefonino ai combustibili, dal salario alle pensioni, dalla farmacia alla polizia, dagli alimenti alla scuola. Pare sensato ritenere che solo una forza sociale che ha riacquistato autonomia, che si è rimpossessata della gestione di diversi aspetti della propria pratica quotidiana, possa sviluppare il desiderio e trovare l'energia per sovvertire l'attuale configurazione dei poteri. Finché sono attive, come è il caso ora, dipendenze molteplici che ci vincolano al sistema, siamo ricattabili. Finché siamo ricattabili, la lotta assumerà tendenzialmente toni riformisti: non ci si augura il collasso di un sistema senza il quale crollerebbe l'insieme dei nostri riferimenti operativi. Una delle ragioni della impotenza delle lotte contemporanee è proprio la loro fragilità in termini di indipendenza dalla mega-macchina.
Per minimizzare progressivamente i processi di delega è quindi importante lavorare sulle nostre esistenze, intese come tracce, minime ma significative, deboli ma continue, che lasciamo nella storia, impronte in grado di contribuire, assieme a quelle di altri, a direzione processi sociali più ampi, a generare alternative concrete. Ogni nostro voto o assemblea, ogni conformismo o ribellione, ogni compera o dono, ogni merce o auto-produzione, sono minuti contributi all'orientamento complessivo che prende il corpo sociale.
Lavorare sulla prassi ha una serie di vantaggi. Il cambiamento auspicato è sí più lontano nel tempo, rispetto ad una prospettiva rivoluzionaria, ma al contempo più accessibile a tutti e più inclusivo: non a caso l'idea di un protagonismo diffuso e variegato, costituente della nozione di rivoluzione sociale, è parte di ideali anarchici consolidati da più secoli. L'anarchia messa in pratica permette la sperimentazione, ovvero la verifica dei principi politici e morali rivendicati, nella loro concretizzazione quotidiana. La prassi, rispetto alla elaborazione astratta, richiede infiniti aggiustamenti e ricalibrature, che non sono sconfitte ma costruzioni di consapevolezza e aggiornamenti indispensabili rispetto al contesto del tutto peculiare in cui ci muoviamo oggi.
L'uscita dalla delega nella quotidianità, inoltre, contribuisce a generare ibridazioni, relazioni di affinità e alleanze nel fare che sono il canale di diffusione più diretto e coerente della prassi libertaria. La diffusione dell'autogestione, come specifica Mignard, richiede non solo autonomia gestionale (anche le aziende capitalistiche sono in un certo senso autogestite) ma la distribuzione egualitaria del potere decisionale e l'accesso inclusivo agli strumenti produttivi. La strategia consiste nell'innestare modalità libertarie in tutte le esperienze che escono dal connubio ormai sempre più indistinguibile di stato e capitale, generare quella rete di solidarietà e scambi indispensabile per il funzionamento dell'autogestione. In Italia, dopo decenni di lotte difensive, scontri ideologici, faide intestine, inizia a vedersi un nuovo interesse diffuso per le pratiche libertarie. È evidente nelle modalità di organizzazione di molte delle mobilitazioni pubbliche degli ultimi anni ma anche, forse soprattutto, come ricerca di uscita dalle deleghe portata avanti da gruppi e singoli che non vengono, per lo più, da una formazione teorica e intellettuale anarchica. Ogni stretta antisociale dei poteri allineati di stato e capitale, impegnati nel taglio ai servizi pubblici e nell'aumento di tasse, norme e burocrazia, produce risposte autogestite, per ora incipienti e fragili ma con notevoli prospettive di attrazione di settori sociali. È il caso di accennare ad un paio di fermenti che il tessuto sociale italiano ha cominciato ad esprimere in modo significativo: la filiera alimentare e le proposte in ambito educativo.
Per quanto riguarda la circolazione di cibo al di fuori della mercificazione egemonica (industria agroalimentare-supermercato), a partire dal nuovo millennio si sono moltiplicati esponenzialmente i Gruppi di Acquisto Solidale (GAS). Sono costituiti da gruppi di consumatori che entrano in un rapporto con piccoli produttori e, nelle loro espressioni più coerenti e convincenti, ri-localizzano la filiera produttori-consumatori, saltando tutti i mediatori della distribuzione mercificata; intendono la tracciabilità non come etichetta ma come rapporti di fiducia tra persone che si conoscono; inventano propri processi di certificazione dei beni; coniugano il rapporto commerciale con criteri solidali ed ecologici. In alcuni casi consentono la circolazione di prodotti di contadini, allevatori, pastori, apicoltori, raccoglitori di frutta che producono al di fuori delle normative statali e dei requisiti fiscali, permettendo forme di autogestione rurale illegale. La forma più coerente e radicale di questo movimento che salda ruralità solidale e classi medie urbane è Genuino Clandestino e Terra Bene Comune, movimenti in rapida espansione.
Federano informalmente gruppi locali che scelgono di sottrarsi dalle imposizione burocratiche, dalle regolamentazioni insensate, dal gioco fiscale generando, oltre ad una partecipata rete nazionale, una autocertificazione che rivendica la clandestinità dei prodotti, proprio come premessa indispensabile della loro genuinità. Una conseguenza di questa nuova ondata di attivismo contadino è il superamento della legislazione astratta e insensata del biologico, un movimento che era nato dal tessuto sociale ma ormai completamente legalizzato, istituzionalizzato e mercificato. Si scegli di insediare mercatini e proporre pranzi e cene sociali nelle piazze delle metropoli così come in piccoli paesi. Se alcuni GAS iniziano ad essere cooptati dalle istituzioni che propongono leggi e facilitazioni, dall'altra altri non rinunciano a forme integrali di autogestione. Queste modalità di ripensare il nesso tra produttori rurali e acquirenti cittadini sono interessanti perché nascono spontaneamente dal tessuto sociale; perché i gruppi sono autonomi, privi di una direzione centralizzata; perché generano relazioni nel rispondere ad esigenze concrete; perché si fondano sull'idea della responsabilità piuttosto che della delega; perché funzionano.
L'altro ambito in cui si stanno rafforzando dinamiche interessanti è l'uscita dalla istituzione scolastica. La qualità della istruzione pubblica, nonostante l'impegno e la dedizione di tanti insegnanti, è in caduta libera in seguito al taglio dei finanziamenti pubblici, a programmi scolastici sempre più competitivi (fin dalle elementari) e all'aumento della burocrazia ministeriale (ad esempio, le prove Invalsi). È stata mortificata l'offerta alimentare (in seguito alla chiusura di molte mense scolastiche), aumentato sensibilmente il numero di bambini sotto la responsabilità di una singola maestra, introdotto un uso (a volte massiccio) della televisione, minimizzate le ore di gioco all'aperto e le attività creative. La pervasiva paranoia legale ha raggiunto livelli tali da impedire di portare torte fatte a casa a scuola per festeggiare i compleanni. In questo contesto, si sviluppa un'uscita sempre più cospicua dalla istruzione pubblica (la cui attrattiva principale per molti utenti non è più la qualità ma i costi contenuti) verso percorsi formativi emancipati dai finanziamenti pubblici e quindi anche dalle direttive e limitazioni statali.
Con diverse ispirazioni (scuola familiare, libertaria, Steineriana, Montessori) si creano piccole comunità di insegnanti-genitori-alunni libere di elaborare e sperimentare un proprio percorso formativo non fondato sulla delega ma sulla partecipazione. In genere sono esperienze che stabiliscono un rapporto tra docenti e studenti che permette un'attenzione personalizzata e previene la massificazione. I programmi sono creativi, variegati e improntati alla sperimentazione diretta in chiaro contrasto con la rigidità, monotonia e autoritarismo della didattica pubblica. La formazione prevede, soprattutto per i più piccoli, numerose ore all'aria aperta. Si cercano interazioni con le competenze sociali e artistiche presenti nel territorio circostante. Si valorizza l'irriducibile singolarità dei bambini. Si torna a cucinare autonomamente, a volte con alimenti forniti dai genitori. Insomma, tutta un'altra scuola fondata sul rifiuto della delega e sulla costruzione dal basso di alternative operative.
La pratica di ciò che si desidera spesso assume carattere sistemico nel senso che la ricerca di modalità che travalichino la delega, implicita nell'offerta egemonica che pare ormai unica opzione possibile, riguarda diversi campi. Questo rifiuto complessivo del cammino già tracciato per noi, costituisce esistenze singolari e collettive che effettivamente riescono a evadere, in parte contenuta ma non irrisoria, processi di delega che a molti appaiono indispensabili. L'alternativa intesa come prassi, inoltre, ha la grande potenzialità di essere un canale di costruzione di affinità politica che non richiede adesioni ideologiche e quindi rafforza una disponibilità ad accogliere e includere soggettività variegate che raramente le iniziative più teoriche raccolgono. È una politica che non può essere accusata di essere solamente “contro” il sistema: ciò che rivendica, è ciò che porta avanti nella prassi quotidiana. L'alternativa è già presente, efficiente e funzionante e i principi libertari su cui si basa risultano evidenti nell'azione. È una modalità di trasformazione sistemica che risulta accessibile a settori insospettabili del corpo sociale, perché intesa come impegno a costruire praticamente alternative che siano portatrici di nuovi principi e, per la loro stessa esistenza, sabotatrici della modalità egemonica.
L'auspicio di Mignard è che questo testo sia un contributo ad un processo di trasformazione epocale. Me lo auguro anch'io. Si tratta di smettere di delegare anche i sogni di trasformazione ma portarli avanti nella nostra quotidianità. Non c'è progetto più ambizioso, non c'è progetto più accessibile di quello che vede il conflitto politico iscritto nelle nostre stesse esistenze.

Stefano Boni



Uranio impoverito
a teatro

Le storture della guerra si sono spinte, in anni recenti, fino al nostro sistema linguistico: chiamare bombardamenti, soprusi e morti con termini quali missioni di pace, missioni internazionali o missioni umanitarie, oltre a essere un fallace toccasana per la coscienza, mostra una grande padronanza nell'uso delle figure retoriche, le quali però, quando non sono usate a fini letterari o poetici, propongono solo una visione deformata e pericolosa della realtà.
Miles gloriosus... ovvero: morire d'uranio impoverito di Antonello Taurino prende spunto proprio dalle “missioni di pace” degli anni '90 in Kosovo e Bosnia per indagare un lascito della guerra che torna a casa con i reduci per poi colpirli, una volta dispersi nello spazio e nel tempo: la morte per uranio impoverito. Una microstoria lontana dai riflettori perché orfana dei crismi che servono a un evento per farsi mediatico e quindi guadagnarsi la ribalta del grande pubblico: l'immediatezza e la violenza. Ma anche le morti per uranio impoverito se non fosse stato per Striscia la Notizia, ribattezzata TAR: Tribunale Antonio Ricci, non avrebbero mai goduto di alcuna attenzione: uno spaccato che fa riflettere sui modi di condurre le narrazioni più scomode in Italia e sulle modalità di ricezione dell'opinione pubblica: pigre e ormai inermi di fronte a qualsiasi cosa.
In scena, Taurino e Orazio Attanasio, che cura anche le musiche, sono due giovinastri sospesi tra la necessità di sbarcare il lunario e la voglia di fare uno spettacolo impegnato e utile. I nostri, nel destreggiarsi tra un'offerta di lavoro in nero e il pigliatutto Marco Paolini, che non ha lasciato più nessun argomento d'inchiesta libero da trattare, ma nei cui confronti si percepisce un omaggio, menano fendenti verso il pubblico snocciolando numeri, lettere anonime, documenti e imbarazzi del governo italiano. I pugni sono ricoperti dal dolce guanto del sorriso; gli spettatori sembrano poter reggere l'urto, ma alla fine sono rintronati e con una maggiore consapevolezza e indignazione rispetto a quando erano entrati in sala.
Se la leggerezza dell'uranio impoverito è insostenibile perché uccide, la leggerezza di una divulgazione puntuale, comprensibile e non pedante sostiene la nostra capacità di discernere e pensare.

Matteo Pedrazzini



Le donne della resistenza
nel Piacentino

È uscito per le edizioni Le Piccole Pagine il libro di Iara Meloni Memorie resistenti. Le donne raccontano la resistenza nel piacentino (edizioni Le Piccole Pagine, Calendasio - Pc, 2014, pp. 235, 18,00) di cui pubblichiamo la prefazione di Daniella Gagliani.

Questo è un libro che parla della Resistenza, ma è un libro che parla anche delle resistenze successive al 1945 messe in campo – si può dire – nello spirito della Resistenza.
La mia osservazione dovrebbe essere conclusiva e, invece, con essa ho preferito aprire questa nota per evidenziare da subito l'importanza del lavoro di Iara Meloni.
Centrale è la Resistenza, quella del 1943-1945, contro il nazifascismo e nel libro se ne parla dalla prospettiva delle donne, una prospettiva che, non solo ridà corpo e voce a soggetti per lungo tempo dimenticati o trascurati, quelli femminili appunto, ma consente anche di rivisitare la Resistenza – la Resistenza tout court – e di leggerla come un «evento», insieme normale ed eccezionale, che ebbe per protagonisti uomini e donne comuni, i quali seppero opporsi a un potere che praticava ed esaltava l'odio, la discriminazione, la sopraffazione, la guerra. Perché il fascismo, anche quello italiano, non dimentichiamolo, aveva fatto dell'odio, della discriminazione, della sopraffazione, della guerra un proprio fondamento etico. Opporsi al fascismo significava dunque opporsi all'odio, alla discriminazione, alla sopraffazione, alla guerra che, negli anni 1943-1945, si inscrivevano nella guerra totale e si sostanziavano nella distruzione di uomini e di cose, e in una crescente brutalizzazione umana. Resistere significava aprire la strada a un mondo ri-umanizzato di pace e di ricostruzione solidale e, per molti uomini e donne, anche di liberi ed eguali.
La prospettiva femminile mostra che la Resistenza fu essenzialmente un fenomeno politico prima che militare, come Lidia Menapace e Marisa Ombra hanno da tempo sottolineato. Ridurre la Resistenza a fenomeno militare ha comportato e comporta una sua sottovalutazione e, perfino, una mistificazione, perché per la maggior parte dei resistenti, uomini compresi, la Resistenza fu una «guerra alla guerra», anche se paradossalmente combattuta con le armi. Il fascismo era il regno della guerra, non la Resistenza che gli si opponeva. Non sarebbe altresì comprensibile l'art. 11 della nostra Costituzione che recita: «L'Italia ripudia la guerra».
Che per alcuni decenni l'immagine della Resistenza sia stata identificata con il partigiano in armi deve farci riflettere. È un fatto che meriterebbe un'analisi particolare, specialmente per comprendere come un grande fenomeno politico e sociale abbia potuto essere circoscritto e limitato a un suo aspetto, non irrilevante, intendiamoci, ma comunque non costitutivo. Le armi nella Resistenza rappresentarono uno strumento per concludere al più presto la guerra, non un fine in sé. Al cuore della Resistenza c'era la volontà di chiudere con la guerra e con il regno della guerra, emblemi del fascismo. E in questo consiste il carattere essenzialmente politico della Resistenza e, insieme, il suo tratto periodizzante nella storia d'Italia (e, se vogliamo, anche d'Europa).
Giustamente Iara Meloni ha indicato, come centrale per esprimere la Resistenza delle donne, la «Resistenza civile», che, grazie agli studi di Anna Bravo, fa ora parte del nostro corredo storiografico come categoria di grande spessore. Le donne di cui Iara Meloni ha raccolto la testimonianza sono, con specificità diverse, con consapevolezze diverse, con impegno diverso, tutte inseribili nella Resistenza civile. E sono tutte resistenti, perché con le forze che avevano a disposizione hanno dato quanto potevano per chiudere con la guerra e con il regno della guerra. Senza di loro la Resistenza sarebbe stata un'altra cosa, forse non ci sarebbe nemmeno stata.
Il loro sguardo su se stesse e sul contesto di quei mesi mette in luce aspetti che lo sguardo puntato sulle formazioni armate e le loro azioni non riusciva a mettere in luce. Sono aspetti che ci introducono a considerare gli eventi in una prospettiva non eroica, antieroica anzi, in quanto le donne parlano di sé e anche degli altri come persone normali, non eccezionali. Persone normali inserite in un contesto eccezionale. Ed è proprio la «normalità» a consentire di stabilire un legame con noi oggi, noi di generazioni diverse, ma tutti «normali», sia che siamo uomini sia che siamo donne, di sessanta, quaranta, venti e perfino quindici anni.
Lo sguardo femminile, che in epoca di ideologismi poteva essere giudicato come insignificante (mentre noi sappiamo che non lo è), non indugia sulle entità astratte, si concentra sui corpi e riesce pertanto a distinguere le differenze e le similitudini, sapendo afferrare le peculiarità di ognuno e rilevarne anche le debolezze, le sofferenze, le paure perché sono condizioni proprie dell'essere umano. Da qui il loro parlare di sé e degli altri come esseri umani; da qui la possibilità di stabilire relazioni con noi, di generazioni diverse, ma sempre esseri umani. Direi che è la condizione umana a diventare centrale nel racconto.
Purtroppo, a distanza di settant'anni, molte delle protagoniste sono morte e alcune non sono più in grado di trasmettere la loro testimonianza. Non è più possibile scrivere una storia orale della Resistenza femminile nelle sue più varie articolazioni. Ma è importante che delle superstiti si sia voluto raccogliere la testimonianza, perché in una storia corale quale fu quella della Resistenza è attraverso le diverse storie di vita – e i tanti episodi particolari che ognuna può narrare – che possono emergere la ricchezza, la complessità e anche la semplicità di quel movimento e, insieme, i suoi momenti di forza e quelli di debolezza, le difficoltà, anche le tragedie, accanto al coraggio morale per farvi fronte. Resistere significò anche capacità di continuare a resistere e, dunque, richiese tenacia, fermezza, perseveranza al fine di non subire l'oppressione e di uscire da quel tunnel di morte per vedere finalmente la luce in un mondo rinnovato.
Prezioso è dunque il lavoro di Iara Meloni, che con grande sensibilità riesce a restituirci uno spaccato della Resistenza facendo parlare le protagoniste, inserendole nel contesto di quei mesi e al contempo ricostruendo un nuovo e più articolato contesto sia riguardo alla stessa Resistenza sia al periodo più generale che quelle vite hanno attraversato. Così si aprono squarci anche sulla società fascista, sul dopoguerra e sui decenni successivi fino a oggi.
La storia delle donne della Resistenza è una storia di rimozioni e di silenzi, ma è anche una storia di ripresa della parola, davanti a una nuova generazione che vuole sapere e ha capacità di ascolto.
Ero partita con l'osservazione che questo libro parla della Resistenza del 1943-1945 ma parla anche delle resistenze successive al 1945. Se a metà degli anni Sessanta si assiste a un tentativo di valorizzare l'esperienza femminile nella Resistenza, è solo un decennio dopo che quell'esperienza viene rivendicata addossando la responsabilità del silenzio sulle donne ai loro stessi compagni, che le avevano rese irrilevanti ponendo se stessi sul proscenio. Significativamente si intitolava La Resistenza taciuta il libro curato da Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina che raccoglieva dodici testimonianze di partigiane piemontesi (e che uscì nel 1976).
Ora, nel nuovo secolo, le donne della Resistenza non sono più avvolte dal silenzio, ci dice Iara Meloni. Anche in provincia di Piacenza, territorio ad «alta densità partigiana» ma che non aveva conosciuto uno sviluppo di analisi sulla presenza femminile, sono stati avviati e portati a termine negli anni Duemila progetti di ricerca, di didattica e di divulgazione centrati sull'argomento. Un'operazione culturale di grande rilevanza, che ha consentito il riannodarsi del filo tra le generazioni.
La retorica della Resistenza, da un lato, la delegittimazione della Resistenza in atto dagli anni Ottanta, dall'altro, stavano congiurando a rendere trascurabile quel movimento, a espungerlo dalla nostra storia. Le resistenze dei resistenti e delle resistenti e soprattutto le resistenze di chi è nato e nata dopo hanno consentito che il significato della Resistenza non andasse perduto: fili più esili agli inizi, fili più robusti successivamente, grazie a quell'«educazione alla memoria» che congiunge le generazioni, instaura nuovi legami comunitari e permette una nuova prospettiva sul mondo, mentre risarcisce le donne della Resistenza sottraendole al silenzio e alla solitudine che le avevano attorniate per tanti e tanti anni, e rendendole altresì consapevoli del valore del loro ruolo nel 1943-1945.
Anche di questo parla questo libro, un libro ricco, complesso, importante che, per di più, costituisce un tassello, e non piccolo, di quell'educazione alla memoria che si inscrive nella cultura della Resistenza.
C'è da apprendere, c'è da riflettere. Specialmente sul domani, quando non ci saranno più i protagonisti a testimoniare.
Il libro di Iara Meloni offre un contributo anche in questa direzione.

Daniella Gagliani



Scivolamento sociale
verso gli inferi

Presentato a Napoli, Let's go (Mariposa Cinematografica, 2014, 55 min.) è, in ordine di tempo, l'ultimo docu-ritratto della regista Antonietta De Lillo e racconta la caduta agli inferi di un esodato speciale: il fotografo e regista Luca Musella.
“Se fossi rimasto borghese mi sarei suicidato”. Le parole del fotoreporter Musella nel docu-ritratto di Antonietta De Lillo sono quasi il testamento di come una vita possa andare in rovina e ritrovare (nella stessa rovina) un'ancora di salvataggio.
Musella, attraverso la diretta testimonianza e un suo testo-lettera (ma la voce è dell'attore Roberto Di Francesco), affronta un viaggio dalla sua Napoli a Milano, città dove attualmente vive, narrando come da fotoreporter di successo (ha lavorato per L'espresso, Agenzia Grazia Neri, Contrasto) e scrittore e regista stimato (è suo un bel documentario di qualche anno fa su Giorgio Bocca) sia passato ad una condizione di assoluta precarietà. La sua è la parabola di un “esodato professionalmente ed emotivamente” che ha perso tutto, ma non certamente la dignità e la tenacia per provare la risalita. Una storia di solitudine e disagio dove Musella è portavoce di una condizione che non appartiene solo a lui, ma che affligge tanta umanità di ogni parte del mondo. Presentato al Cinema Astra di Napoli (dopo l'anteprima all'ultimo Festival di Torino), Let's go è uno di quei docu-ritratti con cui Antonietta De Lillo - come dimostrano anche i suoi due precedenti lavori sulla poetessa Alda Merini - è diventata una vera esperta del genere: la sua macchina da presa avvicina una persona e la lascia libera di raccontarsi senza interferenze anche per scoprire una linea oltre confine. Infatti, il lavoro della De Lillo nasce sì per narrare lo scivolamento sociale di Luca Musella, ma pure per mettere allo scoperto un lato debole della società: l'incapacità della collettività a sostenere chi si trova a vivere in uno stato di disagio. Prodotto da Marechiarofilm insieme a Rai Cinema, musicato da Daniele Sepe e fotografato da Giovanni Piperno, Let's go è uno sguardo per nulla indiscreto in un dramma personale che, sorprendendo, lascia sulla sua scia semi di commovente fiducia.

Mimmo Mastrangelo



Fatta l'Italia,
schediamo gli italiani

Il libro di Andrea Dilemmi, Schedare gli italiani. Polizia e sorveglianza del dissenso politico: Verona 1894-1963 (Cierre, Sommacampagna – Vr, 2013, pp. 560, € 24,00) prende in esame i documenti prodotti dalla polizia per sorvegliare gli oppositori politici da fine Ottocento ai primi anni Sessanta del Novecento, e li utilizza come fonte per studiare non gli oppositori ma gli apparati di controllo. Il Casellario politico centrale, istituito presso il Ministero degli Interni da Crispi nel 1894 arriva ai primi anni Sessanta, ma nello stesso arco di tempo ogni questura italiana ebbe il proprio casellario provinciale: Dilemmi prende in esame quello di Verona. La serie archivistica oggetto della ricerca è formata dai fascicoli degli individui “radiati” (cioè di quelli per cui si disponeva la fine della sorveglianza), e quindi è il risultato di uno scarto effettuato verso la fine del funzionamento dello schedario stesso: tuttavia, con le avvertenze di cui l'autore è consapevole, è sufficientemente ampio e rappresentativo per un'analisi della sorveglianza politica esercitata dalla polizia.
La prima figura di poliziotto che viene presentato è Ernesto Carusi, che a poco meno di trent'anni arrivò nel 1888 da Salerno a Verona, dove rimase fino a quando diventò questore, proprio agli inizi del regime fascista. La sua “capacità di dialogare con gli esponenti socialisti e con i responsabili del sindacato, di promuovere mediazioni, di prevenire e depotenziare le tensioni senza dover necessariamente fare uso della forza” (pp. 109-110) ne fa un modello di “poliziotto giolittiano”, in sintonia cioè con le direttive del sistema di governo di allora in tema di gestione dell'ordine pubblico. Il clima del primo dopoguerra, segnato dalla violenza fascista e da conflitti sociali molto aspri, mette fuori gioco ogni tentativo di mediazione, tanto che nell'estate 1922 Carusi chiede un congedo per malattia, per andare in pensione pochi mesi dopo, quando a Roma si è instaurato il nuovo governo Mussolini.
La seconda figura è il commissario politico Primo Palazzi, di Narni, che arriva a Verona nel 1926 all'età di quarantaquattro anni. Esempio di poliziotto fascista (anche in questo caso, non tanto per le sue convinzioni personali quanto per il modo di agire in sintonia con il clima dittatoriale e le direttive del regime), Palazzi comincia con il dirigere la squadra politica della Questura, mettendo in piedi una rete di confidenti e fiduciari e adoperandosi a scoprire associazioni di oppositori politici (a volte fabbricando prove o esagerando l'importanza delle scoperte). Esempio di “cacciatore di antifascisti” (p. 186), dopo la caduta del regime il 25 luglio 1943 Palazzi chiede un periodo di riposo presentando una prescrizione del suo medico: una prassi non nuova per i funzionari di polizia, come abbiamo visto per Carusi, nei periodi di forte instabilità politica. Grazie all'assenza dalla scena nel periodo della RSI, Palazzi ritorna in servizio dopo la Liberazione, diventando questore di prima classe nel 1946 (con la Repubblica), per andare in pensione l'anno dopo, suscitando il “vivo rincrescimento” di DC, PSI e PCI per la cessazione dal servizio di un uomo di “elevato senso del dovere” (p. 212).
A Liberazione avvenuta si forma per un breve periodo, anche a Verona, un corpo speciale di polizia formato da ex partigiani, mentre viene costituita una Corte di Assise straordinaria per individuare e perseguire i fascisti colpevoli di crimini. In questo periodo, tra il 1945 e il 1947, quasi tutti i nuovi fascicoli aperti nel casellario politico riguardano fascisti, “caso unico nella storia del dispositivo” (p. 268). Ma questa fase si esaurisce già nei primi mesi del 1946, per chiudersi in seguito all'amnistia concessa da Togliatti, allora ministro, nel giugno di quell'anno. Nel frattempo il personale di polizia rimane invariato: “Sciolta la polizia partigiana, viene riattivata la tradizionale catena di comando e si modificano nuovamente gli obiettivi della sorveglianza” (p. 270).
Dopo aver ripercorso le vicende in ordine cronologico, il libro analizza nella seconda parte “il dispositivo della sorveglianza [...] nei suoi diversi aspetti” (p. 273): uffici, struttura, organici, attività e competenze della questura di Verona. Risulta così che i due terzi dei fascicoli vengono aperti durante il ventennio fascista, con un picco nel 1925, anno “spartiacque tra una sorveglianza individualizzata ed episodica e una, invece, sistematica e costante” (p. 310). L'altro picco numerico di apertura dei fascicoli si registra nel 1945, questa volta a carico di fascisti, ma, come si è detto, il fenomeno si esaurisce subito. I fascicoli durano in media ciascuno 25 anni: in pratica seguono l'individuo fino ai 45-50 anni, ma in alcuni casi di più (pp. 313-314). A iniziare la sorveglianza sono gli apparati dello Stato: questure, stazioni di carabinieri, comandi militari, uffici addetti alla censura postale (l'intercettazione delle lettere durante il fascismo è “uno strumento quotidiano”, p. 344); durante il fascismo si aggiungono, oltre alle articolazioni del partito fascista, anche singoli cittadini, all'opera soprattutto nei luoghi di lavoro e del tempo libero, quando la delazione, a volte per rancori o vendette personali, diventa “uno strumento cardine di controllo sociale” (p. 503). Da una sorveglianza “circoscritta a un numero relativamente ristretto di soggetti ritenuti e pericolosi” all'inizio del Novecento, si passa così, con il fascismo, a una sorveglianza che riguarda “tendenzialmente, l'intera società” (p. 394). All'interno di queste pratiche di controllo totale dell'intero corpo sociale, Dilemmi ricorda che fu il regime fascista, nel 1926, a rendere obbligatoria la carta d'identità per le persone sospette e pericolose, e a estendere poi l'obbligo a tutti con il Testo unico di pubblica sicurezza nel 1931 (p. 357).
La terza parte del libro riguarda i sorvegliati. Sono quasi tutti uomini: secondo la polizia, “le donne non solo non si occupano di politica, ma non sono nemmeno in grado di farlo” (p. 398). Quanto alle idee politiche, fino al 1924 i sorvegliati sono anarchici e in misura minore socialisti; dal 1925 sono soprattutto comunisti (”comunista” diventa “quasi sinonimo di sovversivo”, p. 489), che nei primi decenni dell'Italia repubblicana costituiscono il gruppo più sorvegliato.
Merito del libro è di confermare, grazie a un'indagine minuziosa, la continuità degli apparati statali e delle pratiche di controllo di polizia in Italia dall'Unità alla Repubblica. Altra continuità, questa volta di lunga durata, si può cogliere nel permanere di alcuni caratteri del profilo del “sovversivo”: la polizia continua infatti ad andare a caccia del vecchio “untore”, che però a differenza di quello seicentesco diffonde nella società non più il germe della peste ma quello della protesta e della ribellione (p. 533). La polizia politica inoltre – e questo emerge bene nel libro – mantiene un residuo del vecchio ruolo di mediazione volto a disciplinare la società, grazie alla segretezza del suo comportamento (che i documenti non registrano, al pari della violenza esercitata, che si può solo intuire). Anche in un “contesto tendenzialmente totalitario” la polizia può infatti offrire al sovversivo “una riconciliazione con lo Stato, a condizione che abbandoni ogni velleità di dissenso e abbracci, pubblicamente, la causa fascista” (p. 504), e più in generale, si capisce, il comportamento di buon cittadino. Tutto questo è riassunto con efficacia nel titolo del libro Schedare gli italiani, che suggerisce una nuova versione del celebre detto risorgimentale: “Fatta l'Italia, bisogna schedare gli italiani”.

Piero Brunello



Non un eroe,
ma un essere umano

Leggendo il Libro di Olga Focherini Questo ascensore è vietato agli ebrei (Edizioni Dehoniane, Bologna, 2015, pp. 144, € 12,00) in cui racconta la breve e tragica vita del padre Odoardo, che si adoperò con tutte le forze per salvare ebrei nel periodo della repubblica di Salò e dell'occupazione nazista del nostro paese, ho compreso che Odoardo, che talora nelle lettere dalla prigionia si firmava Odo, era un uomo normale, non un eroe, non un eletto, ma un uomo innamorato della moglie e che adorava i suoi figli. Odoardo trovò normale rischiare la propria vita e accettare il martirio fino alla morte che gli derivò dall'impegno, dall'attivismo, testimoniando che l'urgenza di tendere la mano al più debole, all'oppresso, in sostanza, al prossimo perseguitato, non insorge da uno stato di eccezionalità, ma piuttosto da un impulso di insopprimibile umanità.
Olga Focherini, figlia di Odo e madre del curatore del testo, Odoardo Semellini, spinta dalla forza della verità, si è resa depositaria dell'epistolario del padre, per guidarci nella vicenda emblematica e nella storia di un uomo come tanti, non un eroe, non un eletto, ma un giusto che deve trovare un posto nella memoria di tutti noi. Nel libro si narra la storia di un uomo arrestato e deportato, con l'unica colpa di aver posto in salvo oltre un centinaio di perseguitati ebrei. Una storia con un finale terribile, raccontato per anni dalla figlia Olga che, vittima e testimone giovanissima, conserva ancora una memoria vivissima di quel periodo, testimoniando nelle scuole e ovunque venga richiesta ricostruzione della memoria storica, superando così una difficoltosa e traumatica elaborazione del lutto paterno.
Della storia di suo padre, Olga lascia traccia in diversi documenti, opportunamente trascritti e quindi adattati per il presente volume, tutti custoditi nell'Archivio della Memoria di Odoardo Focherini.
Nella trascrizione delle lettere clandestine, Olga scopre che suo padre è un uomo normale, come tutti, che si lascia andare, che sta male, che piange, che è combattuto tra le speranze del ritorno e il timore di non rivedere mai più i propri cari. Così la figlia Olga recupera l'immagine vera e reale del padre, come lo ricorda nella sua infanzia: un uomo giusto, sia per l'aiuto dato agli ebrei perseguitati, sia per quello che è stato come genitore. Odoardo Focherini, negli ultimi anni della seconda guerra mondiale, faceva parte di una rete clandestina di soccorso in provincia di Modena, per aiutare gli ebrei perseguitati dal nazifascismo, insieme ad altri uomini di diversa appartenenza politica e fede religiosa, che non esitarono a sacrificare la propria vita per salvare centinaia di persone, altrimenti destinate alla morte nei campi di concentramento e di sterminio nazifascisti.
Odoardo Focherini (1907-1944) era un giornalista cattolico e padre di sette figli. Venne arrestato, deportato e trovò la morte nel campo di lavoro di Hersbruck. Viene raccontato, in questo libro, dalla figlia primogenita Olga, che dagli anni '70, ha svolto un'intensa attività di divulgazione nelle scuole sui temi della deportazione e della Resistenza, dando così vita all'Archivio della Memoria di Odoardo Focherini.
Nella prefazione al testo, Moni Ovadia ricorda e rievoca la memoria di padre David Maria Turoldo, sacerdote cattolico, partigiano e poeta, che custodiva le lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana e europea. Ed è proprio con queste lettere, testimonianza di resistenza e deportazione, che Moni Ovadia richiama un importante parallelismo con l'ingente epistolario di Focherini, un grande patrimonio storico di documenti, scritti, lettere, che tutti noi dobbiamo tenere presente sempre, nel corso della vita e in ogni momento che scandisce i nostri giorni di lotta per la pace, per un mondo più giusto, libero e vero, nella testimonianza antifascista e nell'impegno sociale e civile, tramite la forza della verità, per la memoria storica... per non dimenticare.

Laura Tussi



Zolfatari e contadini/
Due sguardi sulla Sicilia dei primi del '900

Due narrazioni molto diverse, una letteraria, l'altra fotografica, “leggono” con mirabile acume, la medesima realtà: quella della provincia di Enna della prima metà del secolo scorso. Nella Sicilia degli anni cinquanta, nel suo ombelico e centro geografico, nelle terre dell'ennese o meglio nel sottosuolo profondo e buio delle sue miniere di zolfo, prende corpo la storia che racconta Davide Orecchio nel suo Stati di grazia (Il saggiatore, Milano, 2014, pp. 320, €16,00), un romanzo bello e impegnativo, dal contenuto forte e dalla scrittura incisiva e originale, perché - si dice bene nel risvolto di copertina - è “lucida e meravigliata, ipnotica e visionaria, innervata di continui cambiamenti di ritmo, pause riflessive e accelerazioni vertiginose”. Unendo sapientemente il metodo dello storico e del detective, con il talento e la tecnica del bravo narratore, Orecchio racconta la vita agra di un maestro elementare di Enna che precipita verso una desolata e amara cupezza, quando apprende della tragica sorte capitata ad un suo alunno, costretto dalla miseria e dalla fame a lasciare lo studio (verso cui è avvezzo) per aiutare il padre in miniera, dove muore, travolto dalla caduta di un enorme masso. Il fatto diventa, per il maestro, un'ulteriore e dolorosa occasione di conoscenza della realtà che lo circonda, di un mondo del lavoro afflitto e disumano, di cui prende nota nel suo diario: “ho visto gli uomini scendere nelle tonsille di Sicilia, a cinquecento metri da quassù, a mille”; “chiestomi come sia fatto un inferno, di che colore sia e quanti inferni ci sono. Risposto che l'inferno è il camaleonte, e se ha un nome si chiama Sicilia”. Sempre più estraneo ai suoi familiari (moglie e figlia che sente distanti e diverse) e impotente rispetto ad una realtà che gli appare difficile e immodificabile, perché collocata in un territorio interno, remoto, duro e ostile alla presenza umana ( “al tramonto salito sulla torre del castello di Enna e dalle sue fessure guardato verso le valli tristi di Caltanissetta una terra che, si tratti di un aratro o del passo di un uomo, ostacola il cammino”), il maestro cerca nella miniera Zambulio, ad Assoro, il padre del suo piccolo alunno morto. A lui consegna un biglietto di viaggio per l'Argentina, che aveva comprato per sé, quando il desiderio di cambiare vita s'era fatto in lui irreprimibile e a tutti aveva detto che sarebbe andato via, per un viaggio senza ritorno.
Il padre che ha perso il figlio prende il biglietto e parte: “A trent'anni saluta i suoi morti, il nero della valle di Enna, il lezzo dell'antimonio e spreme i ricordi sul labbro ed è già buio, si getta dal buco dov'è cresciuto verso il passaggio della vecchia vita che guida alla nuova col nome nuovo, sente la spinta, il travaglio nasce e niente più argano, calcherone, fiato della discenderia, ustioni sul corrimano, punte di trapano, scoppi della dinamite, nudità sotto terra perché lascia l'isola e raggiunge Napoli”. Da lì, dopo lungo viaggio, sarà a Mendoza, in Argentina: lo aspetta ancora lavoro duro e sfruttamento. Ed è l'inizio di un'altra storia e di altre vicende umane e politiche, che Davide Orecchio intreccia in una girandola narrativa, varia e appassionante, di personaggi ed eventi che si svolgono nel tempo lungo del '900 e sullo sfondo dell'Argentina dei campi di zucchero e dello sfruttamento degli emigranti, della dittatura, di Peron e dei desaparecidos, ma anche dell'Italia e delle lotte sociali e politiche degli anni '70, per concludersi comunque, il tutto, nuovamente in Sicilia, a Enna, dove nulla s'è più saputo del maestro, ufficialmente all'estero, lontano. Tutt'altra, sorprendente e tragica verità, svelerà, invece, la conclusione del romanzo.
Romanzo da leggere magari avendo in mano il bel volume, curato da Arnaldo Bonzi, che raccoglie le fotografie di Giovanni Pozzi Bellini, Viaggio in Sicilia (Squilibri edizioni, Roma, 2014, pp. 144, €40,00). L'album d'immagini di Pozzi Bellini mostra infatti i luoghi siciliani da cui parte la storia di Orecchio: i paesi, le campagne, le miniere dell'ennese.
Nella Sicilia dei primi anni del '40 Giacomo Pozzi Bellini, promettente cineasta fiorentino, vi approdò, per girarvi un film. Aveva ricevuto incarico, da un illuminato e colto direttore del Ministero dell'Agricoltura, di filmare, con obiettività e senza pretese propagandistiche, la colonizzazione dei latifondi siciliani voluta da Mussolini. Il film (il cui soggetto doveva scrivere lo scrittore ennese Nino Savarese), a seguito di intricate vicende, non venne mai neanche iniziato: ma durante i viaggi nell'isola, preparatori alla realizzazione della pellicola, Bellini realizzò più di centocinquanta immagini che mostrano i luoghi desolati e arsi della Sicilia interna - e della campagna ennese in particolate - e i volti, scavati e duri, dei contadini che la abitano lavorando in terreni quasi mai floridi e generosi. Sono il ritratto di una Sicilia, antica e sperduta, fatta, come scriveva in quegli anni Savarese, di ''paesi di sapore classico e rurale, impervi e alla mano, casalinghi e con quel tanto che basti di moderno; con le loro badie centenarie, le stradette confidenziali, le famose fiere e le feste agricole del calendario e l'aria fine; senza pretendere assolutamente di diventare come le solite città, rumorose, meccaniche e barocche, pieni di montature e di specchietti”. Nello scorrere delle foto, stampate tutte in un formato grande e di sicura presa artistica perché sapiente è la padronanza tecnica del mezzo che possedeva Pozzi Bellini, prende forma, in affascinante bianco e nero, la vita dei villaggi, con le sue presenze umane, il lavoro nei campi (la mietitura del grano, la trebbiatura), il mondo delle zolfare, la fiera del bestiame a Enna. A più di settant'anni, le foto di Pozzi Bellini - che piacquero a Vittorini, a Consolo e ad Enzo Sellerio, che ebbero modo di vederle ma che solo ora vengono pubblicate in volume - ci aiutano a capire le contraddizioni della Sicilia di quegli anni: come scrive nell'introduzione al volume Domenico Ferraro, l'obiettivo di Pozzi Bellini coglie le ''contrapposizione tra la semplicità, la saggezza e anche il disincanto delle popolazioni rurali e la vita artefatta, vuota e spersonalizzante delle città, mostrando una visione della natura, però, tutt'altro che consolatoria perché accanto alla sua raffigurazione come riparo dalle brutture e dai guasti della modernità c'è anche l'attestazione della sua componente infernale che, oltre si esprime nei paesaggi ricolmi di fumi e vapori delle zolfare” e nelle immagini del lavoro, duro e sfruttato, dei contadini. Inoltre, le foto di Pozzi Bellini che ritraggono i vicoli, le piazze, gli slarghi, le case di tanti paesi dell'interno, documentano, certo, le architetture sicuramente povere di un tempo ma rivelano anche come queste fossero animate, intrise di umanità e socialità; insomma ci rendono luoghi che, nella loro diversa e caratterizzata identità locale, nella loro cultura materiale, contadina e rurale, appaiono oggi molto lontani dalle caratteristiche attuali che hanno assunto e che non sempre sono di segno positivo, soprattutto laddove lo sviluppo non è stato ancorato alla trasformazione qualitativa dei lavori tradizionali (ma è stato favorito da un' economia assistita e slegata dalla risorse del territorio) e dove non si è pensato alla difesa dei centri storici (che si sono svuotati a seguito di un' espansione edilizia incontrollata che ha prodotto agglomerati abitativi moderni ma periferici e anonimi). Le foto di Pozzi Bellini ci permettono quindi di gettare uno sguardo al recente passato della Sicilia, offrendosi come stimolo ad una più approfondita valutazione sulla ''modernità” del suo presente o forse sul sogno di una modernità che ha sacrificato, in nome di un indefinito 'sviluppo', un ritmo antico e lento di produzione e di vita; un sogno di una Sicilia moderna che oggi, peraltro, s'è infranto sui crolli e le frane della sua rete autostradale, simboli ultimi ed eloquenti delle ferite sempre aperte della sua precarietà.

Silvestro Livolsi



Un comunista
sui generis

Un anno fa, il 23 aprile 2014, moriva prematuramente a 63 anni, nella sua casa di Ponte a Moriano, Francesco Giuntoli da molti conosciuto come il “maestro”. Molti cittadini comuni insieme ai parenti, agli amici, ai compagni di partito, ai sindacalisti e ad alcuni anarchici dettero il 25 aprile, in forma civile, l'ultimo saluto commosso, solidale e dolente all'uomo, al militante, all'amico.
Un anno dopo, gli stessi protagonisti di quell'evento si sono riuniti al Foro Boario di Lucca in una manifestazione nella quale hanno voluto rendere omaggio a Francesco, e nell'occasione è stato presentato il libro Caro Maestro (Edizioni La Grafica pisana - Società popolare di Mutuo soccorso G. Garibaldi, 2015, pp. 177, €13,00).
Ma chi era Francesco Settimo Giuntoli? Nasce a Ponte a Moriano il 28 giugno 1951, da Angela e Giovanni, che gli daranno altri due fratelli. Dal padre, piccolo commerciante e dirigente sportivo della squadra di “Saltocchio” e poi della “Lucchese F.C.”, eredita un pratico buon senso dell'economia quotidiana e la grande passione per il calcio, mentre dalla madre apprende l'amore per le radici del mondo contadino e la sua cultura.
Ponte a Moriano è una frazione di Lucca, popolosa e operosa, dove da sempre vi è un forte insediamento operaio. La realtà territoriale avrà un forte impatto nella formazione politica e culturale di Francesco ed è grazie alla frequentazione con l'ambiente locale e poi in quello studentesco della fine degli anni Sessanta che egli matura la sua scelta politica antifascista e comunista. Dopo una prima fase nella quale frequenta l'ambiente dei gruppi dell'estrema sinistra lucchese, a metà degli anni Ottanta aderisce a Democrazia proletaria e quando quest'ultima si scioglie aderirà al Partito della Rifondazione comunista, assumendo nel 1994 l'incarico di segretario provinciale. Va detto che la sua permanenza in Rifondazione comunista non sarà continua, uscirà dal partito quando la direzione guidata da Bertinotti abbraccerà la scelta politica filo governativa. Rientrerà nel partito solo nel 2008, con la segreteria Ferrero, a seguito del Congresso di Chianciano
Nel 2009 costituisce, insieme ad altre compagne e compagni, soprattutto giovani e immigrati, la Società popolare di Mutuo soccorso “Giuseppe Garibaldi”, con lo scopo di riproporre il mutualismo come strumento di lotta, resistenza e crescita politica contro la grave crisi economica e politica che investe il nostro paese. Ricoprirà fino alla morte il ruolo di presidente della “Garibaldi”.
Questo in sintesi l'aspetto politico della figura di Francesco, ma esiste un altro aspetto, forse meno conosciuto in ambiente militante, ma che ha fatto dell'uomo una persona amata e stimata dall'intera comunità del suo territorio, quella del maestro elementare. Francesco inizia la sua attività di maestro alla fine degli anni Settanta insegnando in molte scuole della provincia di Lucca e avviando con i propri alunni un rapporto profondo che si manterrà anche negli anni seguenti. Francesco concepisce il ruolo di educatore, come una “figura antica” depositaria di sensibilità e cultura umanista. Alcune generazioni di alunni hanno trovato in lui un creativo pronto a inventarsi percorsi didattici ricchi di stimoli e approcci culturali volti alla formazione dell'individuo libero da pregiudizi.
Francesco era anche un lettore accanito, un amante della cultura e della storia, e pur partendo da una formazione comunista non esprimeva una concezione settaria della politica, tanto che era sempre pronto a confrontarsi e a ideare iniziative dove idee e culture politiche della sinistra potessero trovare momenti di positiva contaminazione comune. In questa dimensione Francesco incontra gli anarchici di cui era affascinato. Era uno dei pochi coerenti comunisti che il Primo maggio preferiva andarlo a festeggiare a Carrara partecipando al corteo degli anarchici, dove secondo lui maggiormente si sentiva il vero spirito arcaico della festa dei lavoratori, piuttosto che ad altre iniziative legate al mondo sindacale e/o politico della sinistra.
Ciò che attraeva maggiormente Francesco verso l'utopia anarchica era forse l'essenza stessa delle sue contraddizioni: l'essere un'idea esagerata di libertà che si dipana tra un istinto antropologico distruttivo dell'ordine esistente e una spasmodica ricerca della costruzione di una nuova società.
Una contraddizione che Pier Carlo Masini, storico dell'anarchismo, così raffigura: “Una volta un giudice che gli chiedeva di definire in poche parole il suo ideale politico, un anarchico rispose con spirito biblico che per lui l'anarchia era l'arca di Noè senza Noè. Ma un altro anarchico subito protestò che quello era riformismo e che semmai l'anarchia era il diluvio universale senza l'arca. In questo scontro di battute si fronteggiano le due anime dell'anarchismo, quella ottimista e razionale e quella romantica e nichilista, le siècle des lumières e lo Sturm und Drang”. Masini poi continua: “Errico Malatesta nel primo dopoguerra, a qualcuno che chiedeva forche per i nemici del popolo sulle piazze, rispondeva che Åese per vincere dovessi innalzare delle forche, preferirei perdere'. Tutto il pensiero anarchico vibra fra questi due poli: l'individualismo e la solidarietà, l'irrazionale e il richiamo della ragione, l'apocalisse e la salvezza. Anche i colori nei quali gli anarchici amano riconoscersi sembrano riflettere questi contrastanti stati d'animo: rosso speranza e nero disperazione. Lo diceva anche Pietro Gori, salutando l'anno 1905: Che, i proscritti d'ogni patria ... di questa idea rossa come l'aurora invincibile, e di questo sudario, nero come la sciagura umana, sappiano farsi la simbolica bandiera della liberazione”.
Non a caso sono state richiamate le riflessioni di Pier Carlo Masini perché lo storico toscano fu uno dei principali protagonisti della bella serata organizzata nel 1992, proprio da Francesco e dagli amici del Circolo Utopia e dell'Istituto storico della Resistenza lucchese, per ricordare Carlo Cafiero in occasione del centenario della morte. Un'occasione quasi unica nel panorama di allora della sinistra italiana. L'iniziativa, dal titolo Carlo Cafiero 1892-1992: pensiero e azione nella Prima Internazionale, si svolse il 18 dicembre nel bel salone della Villa Bottini e vide la partecipazione di un folto pubblico attento e appassionato e, al tavolo degli oratori, oltre a Masini anche Johannes Agnolli, Adriana Dadà e Italino Rossi.
L'interesse per la storia del movimento operaio affascinava Francesco, il quale non perdeva occasione per richiamare l'attenzione dei compagni e degli amici sulla necessità di affrontare le lotte del futuro e del presente per una società egualitaria, libera e fraterna, avendo ben chiaro il proprio passato e senza dimenticare le proprie radici, quelle radici plurali e originali che avevano caratterizzato fortemente la nascita del primo socialismo italiano.
Francesco, infine, amava moltissimo un altro personaggio dell'anarchia: Pietro Gori, che riteneva ingiustamente, anche all'interno dello stesso movimento libertario, troppo presto dimenticato e accantonato. Questa passione avvicinò Francesco alla Biblioteca Franco Serantini con cui ha condiviso e promosso molte iniziative proprio dedicate al “cavaliere dell'ideale”.
Il libro Caro Maestro, che raccoglie 36 testimonianze sulla vita di Francesco, ci riconsegna per intero la complessa e ricca figura di un comunista sui generis che amava il mondo libertario, la sua storia e la sua cultura.
Per richieste rivolgersi a: Studio Bibliografico Pera, Corte del Biancone, 5 – 55100 LUCCA. Tel. 0583 955824 email: libreria@pera.it.

Franco Bertolucci



Medardo Rosso...
e Nero

Spirito anarchico e ribelle, anarchico e pacifista, con aspirazioni di socialismo umanitario e di anarchismo repubblicano, omaccione anarchico fin nel midollo: nei commenti alla bella mostra La luce e la materia che la Galleria d'Arte Moderna di Milano, in collaborazione con il Museo Rosso di Barzio, ha dedicato a Medardo Rosso si sprecano le declinazioni del termine “anarchico” per definire la personalità e l'opera del maestro.
Ma da dove viene la fama di anarchico a Medardo Rosso? Forse più dalle sue inclinazioni e dalle frequentazioni giovanili che da una sua reale militanza politica. Nato a Torino, si ribella sin da giovane alla famiglia che intendeva avviarlo alla carriera ferroviaria e marina la scuola per frequentare come apprendista la bottega di un marmista. Trasferitosi a Milano, si iscrive al'Accademia di Brera dove viene dopo poco tempo espulso per il suo carattere ribelle e per aver malmenato uno studente che non voleva firmare un appello di protesta da lui stesso redatto. Il suo stile ed il suo atteggiamento rivoluzionario vengono profondamente influenzati dal movimento della Scapigliatura che in quegli anni a Milano in funzione anti-romantica propugnava un'arte civilmente impegnata, laica ed anti-clericale che si scagliava contro l'accademismo e la retorica dell'arte monumentale. Gli scapigliati, vicini agli ambienti anarchici creavano eventi di critica corrosiva alle istituzioni artistiche dell'epoca. In contemporanea alle Esposizioni Nazionali ufficiali, ad esempio, organizzavano le “Indisposizioni di Belle Arti” con azioni, esposizioni ed happening che anticipano le provocazioni futuriste ed i ready made delle avanguardie. Con questo retroterra di ribellismo rivoluzionario Rosso, trasferitosi a Parigi influenza lo stesso mostro sacro della scultura francese, Auguste Rodin, che dapprima suo ammiratore ed amico entra con lui in contrasto dopo che la critica suggerisce un'influenza del Rosso sulla sua scultura, soprattutto nella famosa imponente figura del ritratto di Balzac. La modernità di Rosso sta anche nell'uso della fotografia e della creazione di esposizioni in cui si mescolano sculture, fotografie ed assemblaggi di oggetti, anticipando ciò che oggi definiamo “installazione”. Il Sacrestano realizzato nel 1883, nel suo periodo milanese, è la testa di un vecchio ubriaco, probabilmente il sacrestano della chiesa di San Marco, che ha come piedistallo un'acquasantiera di marmo rosso e una targhetta con la scritta “Indulgenza plenaria”. Rosso realizzò diverse versioni, in bronzo e in gesso della scultura, con diverse basi, una delle quali un vecchio mappamondo. Non solo realizzò anche una serie di stampe fotografiche con la testa del Sacrestano appoggiata su una sorta di altare con alle spalle un santino di Nostra Signora del Sacro Cuore. Sotto l'acquasantiera una scritta: se la fuss grapa! E tempo dopo, la riproduzione della stessa fotografia venne esposta con tracce di usura e macchie di vino e la dedica scritta dell'autore: “Alla mia amica Signora Rosa Rosso”, un'operazione concettuale in cui si mescolano il nome dell'autore, il colore rosso della rosa, fiore dedicato alla Madonna. Laico ed anticlericale rimase sempre fedele al suo detto: ci vogliono “meno madonne e più donne” nell'arte.
Per Rosso è importante vincolare l'opera di scultura ad un punto di vista ben preciso, anche per questo crea installazioni e costringe l'osservatore ad una posizione definita. Le sue opere seguono più i dettami della pittura che della scultura tradizionale attorno alla quale si poteva/doveva girare per una piena comprensione dell'opera. Rosso dichiara di voler affrancare la scultura dall'antica dipendenza dall'architettura e rifiuta il lavoro di bottega, di ascendenza rinascimentale, che prevedeva numerosi collaboratori, come faceva ad esempio ancora Rodin, per privilegiare la dimensione artigianale ed il lavoro individuale, escludendo sin dall'inizio la grande dimensione e la tronfia retorica della statuaria dell'epoca. La scultura di Rosso è stata anche definita pittura tridimensionale, per la sua scelta forzata del punto di vista e per il suo tentativo di dare corpo materiale alla luce di cui ogni corpo, secondo la sua poetica, è esclusivamente composto. Per questa sua tecnica fu considerato scultore impressionista e sicuramente il primo grande moderno che aprì la strada alle sperimentazioni del '900. Si dice che Edgar Degas, il grande maestro impressionista, davanti ad una sua opera esclamasse: “Ma questa è pittura! È Magnifico!”
I soggetti di Medardo Rosso non sono mai celebrativi o monumentali, le sue sculture ritraggono gente del popolo, macchiette come il Gavroche, sottoproletari, come El Looch o La Portinaia bambini, il Bambino ebreo, il Bambino malato e il capolavoro del 1897: Bambino alle cucine economiche. Soggetti colti in momenti della quotidianità, come La Rieuse, istantanee fotografiche come il Bookmaker o l'Uomo che legge.
Alcune sue opere “site specific” sono andate perse nel turbinare di nuove installazioni e di trasferimenti come Impressione d'omnibus, di cui resta solo una fotografia, in cui paga tributo al quadro Interno di un omnibus di uno dei suoi maestri, Honorè Daumier, come lui cantore della povera gente, ironico e ribelle. Altri suoi maestri furono Degas e gli impressionisti che conobbe a Parigi, insieme a Emilé Zola, Gustave Courbet e tanti altri. Nell'ultima parte della sua produzione Medardo Rosso fu ponte verso le avanguardie ed in particolare il Futurismo Italiano. Umberto Boccioni nel suo Manifesto tecnico della scultura Futurista definisce Medardo Rosso il “solo grande scultore moderno che abbia tentato di aprire alla scultura un campo più vasto, di rendere con la plastica le influenze di un ambiente e i legami atmosferici che lo avvincono al soggetto”.

Franco Bunc¨uga



L'ultima àncora
prima del vuoto

Brigitte Schwaiger, scrittrice e poetessa austriaca, classe 1949, esordisce giovanissima, con la sua prima opera Perché il mare è salato?. Ricompare dopo anni di malattia e cure psichiatriche con Lasciarsi cadere. Racconto da un mondo minore (traduzione di Giovanni Giri, Edizioni Gran vía, Narni – Tr, 2013, pp. 134, € 11,80). Molto più di un'autobiografia, la scrittura convulsa a tratti liberatoria di Schwaiger trova spazio nella Collana altrevie, aperta anche a nonfiction novel, memoir e alle autrici e autori meno omologati.
Il racconto da un mondo minore squarcia le ombre che si abbattono sulla psiche di una donna dalla scorza tenera, fagocitata da un padre medico, fanatico del lavoro, nazista, molestatore di bambini. Una nonna sopravvissuta al campo di Theresienstadt e una madre guardiana della morale, facciata da borghese. Donna rigida, ostile, chiusa, sempre da assecondare, morirà suicida a sessant'anni. Intanto, le mortificazioni attanagliano l'infanzia, un bambino è cattivo se non vuole bene ai genitori.
In seguito, sensi di colpa per la morte del padre, rimorsi per avere contratto un matrimonio cattolico non voluto, gli aborti, un figlio, il divorzio, l'omosessualità repressa confessata come un delitto. L'indigenza economica e l'umiliazione di una scrittrice che non riesce più a scrivere, la creatività trasformata in psicosi. La vergogna di andare per strada sbronza con il certificato di povertà. E da beneficiario di sussidio sociale a malato psichiatrico il passo è breve. Nelle pagine, una critica anche alla società e al sistema sanitario austriaco: “Come si può vivere in Austria con una malattia mentale, la burocrazia e la prepotenza dei suoi uffici?” Ancora: “In Austria, nessuno deve morire di fame, ma la gente muore di fame psichicamente”.
Poi il ricovero alla clinica Otto Wagner, nel Baumgarten Höle. A dispetto della bella architettura floreale, immersa in un parco boschivo con sentieri fin sulla cima della collina, qui finisce la dignità di ogni essere umano. Sozialschmarotzer, parassiti sociali, feccia dell'umanità. La malattia mentale deve essere nascosta.
Si gira con una chiave al collo, e chiusi nei letti gabbia quando non si prendono le medicine. L'accoglienza è un ferro freddo sul torace per scuotere i sensi, in attesa di vegetare nella struttura rifugio-lager dell'istituzione totale. Il risveglio comincia con il male di vivere. Farmaci producono senso di sicurezza, suppliscono all'assenza di chi dovrebbe prendersi cura. La malattia trascorre nel mutismo quotidiano del lavoro a maglia, alla ricerca spasmodica di una giustificazione per meritarsi il diritto a vivere, e strapparsi le sopracciglia per mostrare al mondo la propria ferita. Fino alla convinzione che solo chi è “normale” ha diritto alla vita.
Un sollievo la lettura, le camminate lente tra i sentieri del parco. La sopravvivenza nell'ergoterapia, a pelare le patate il giorno di turno in cucina o distrarsi nelle ore di uscita per la spesa, sempre con le medicine in borsetta come una carta d'identità.
Brigitte Schwaiger rimette a fuoco i materiali della sua psiche in continua lotta con le sovrapposizioni baluginanti di voci e immagini.
Sferzano come fulmini nella sua scrittura allo stesso tempo lucida ed eruttiva. Turbinii di pensieri e parole vagolano in tondo senza posa dentro una mente creativa e visionaria. Il tormento dell'anima si lenisce: “Scrivere è la via più lunga”, permette di ritardare l'ora del “diritto alla dolce morte”, con dignità.
Nel 2010, la forza generatrice e affannata approda al silenzio. Un'autobiografia del dolore, quindi, e di testimonianza della scrittura come un'ultima àncora, prima di lasciarsi cadere.

Claudia Piccinelli