rivista anarchica
anno 45 n. 400
estate 2015


No Tav

I tanti perché di una lotta

testi del Controsservatorio Valsusa, di Livio Pepino e di Luca Perino
foto di Luca Perino


Della più che ventennale lotta delle popolazioni della Valsusa contro la ferrovia ad alta velocità ci stiamo occupando fin dagli inizi e con una certa frequenza. Si tratta di un movimento “di massa”, multicolore, al cui interno confluiscono componenti politiche e “non-politiche” tra le più varie.  In questo servizio riferiamo dell'attività del Controsservatorio Valsusa, un'associazione costituitasi in sostegno alla lotta No Tav.
E pubblichiamo alcune delle fotografie realizzate da un valligiano, che per protesta contro le menzogne propalate dai mass-media si è messo a documentare, dal basso, le molteplici attività di chi a quel progetto faraonico, assurdo e inquinante, concretamente e quotidianamente si oppone.
Come spiega lui stesso in un suo scritto.



Presidiare la democrazia

del Controsservatorio Valsusa

C'è l'Osservatorio Valsusa, messo in piedi dalle istituzioni. Da qualche anno vi si contrappone il Controsservatorio Valsusa, che a partire da una scrupolosa attenzione per la legalità sviluppa un'intensa e documentata attività di controinformazione e di denuncia. Pubblichiamo l'appello da cui è nata l'associazione.

La vicenda della progettata costruzione della linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione ha visto, negli ultimi mesi, un'offensiva senza precedenti contro il Movimento No Tav sul piano politico, su quello mediatico e su quello giudiziario. Ai ripetuti appelli alla razionalità e al confronto (unica strada utile per attenuare tensioni che hanno ormai raggiunto e superato il livello di guardia) la politica e le istituzioni hanno reagito in modo astioso, talora con insulti e false ricostruzioni della realtà. Alla protesta di un movimento popolare e democratico profondamente radicato nel territorio e duraturo nel tempo si sono opposte una delega incondizionata agli apparati repressivi, la militarizzazione della valle e la criminalizzazione del Movimento No Tav (a cui vengono disinvoltamente e apoditticamente attribuiti attentati e sabotaggi la cui matrice è tutta da accertare).

Mentre in tutti gli altri Paesi interessati è in corso una riflessione critica sull'utilità e la sostenibilità economica dell'opera (anche da parte di ambienti liberisti), in Italia queste doverose analisi sono state rimosse e sostituite con l'ossessiva ripetizione di luoghi comuni sulla necessità della nuova linea, sui benefici che la stessa determinerà, sul (supposto e inesistente) avanzamento dei lavori in altre realtà territoriali. Alla scelta della politica si è accodata la maggior parte della stampa, disinteressata a ogni approfondimento autonomo, concentrata sui soli aspetti scandalistici, sempre più impegnata nel presentare l'opposizione al Tav in termini di cronaca nera (enfatizzando anche fatti irrilevanti e stendendo, per contro, una cortina di silenzio su aggressioni e danneggiamenti in danno di esponenti o strutture No Tav).
In questo contesto l'intervento giudiziario non si è limitato alla doverosa (e da nessuno contestata) attività di indagine e di equilibrata repressione dei reati ma ha assunto aspetti di diretto coinvolgimento della magistratura nella gestione dell'ordine pubblico (simboleggiata, in ultimo, dalla presenza di due pubblici ministeri nel teatro delle operazioni, in evidente continuum con le forze di polizia il cui operato dovrebbe, anch'esso, essere oggetto di controllo). Si collocano in tale dimensione alcune contestazioni abnormi (che hanno finanche evocato, con effetti dirompenti, i fantasmi del terrorismo), l'uso a piene mani della custodia cautelare, il ricorso alla tecnica dei processi “a mezzo stampa”, i ritardi e la prudenza a fronte di argomentate denunce provenienti dal Movimento No Tav e altro ancora.
È questo insieme di elementi – e non una inesistente (pur se da taluno evocata) sottovalutazione della violenza – che alimenta il conflitto e accresce i rischi di un suo ulteriore aggravamento. La sopraffazione di un territorio e di una popolazione non cessa di essere tale se realizzata richiamando, impropriamente, la legalità, che, al contrario, si fonda sulla giustizia, sull'eguaglianza e sul rispetto dei principi costituzionali fondamentali (a cominciare da quelli di tutela dell'ambiente e della salute e di partecipazione dei cittadini alle scelte che li riguardano).
L'aggravarsi della situazione, le strumentalizzazioni e le falsificazioni, l'inasprimento repressivo richiedono una risposta ferma e urgente. I cittadini devono sapere che cosa sta accadendo in Val Susa e chi ha a cuore la legalità. Di qui la necessità, anche a Torino, di un'opera di controinformazione puntuale e documentata e, in prospettiva, di un controsservatorio permanente sul punto. In quest'ottica intendiamo muoverci promuovendo in tempi brevi, unitamente alle realtà cittadine che condividono la nostra analisi, un dibattito sulle modalità con cui la questione Tav è affrontata dagli organi di informazione, un seminario sui caratteri della repressione giudiziaria in atto e un libro bianco sui principali profili implicati dalla questione Tav.

Controsservatorio Valsusa
www.controsservatoriovalsusa.org




Intanto il movimento è cresciuto

del Controsservatorio Valsusa

Ecco una scheda illustrativa dell'esposto sulla situazione in valle che il Controsservatorio Valsusa ha presentato al Tribunale permanente dei Popoli (ex-Tribunale Russell).

Nello scorso mese di aprile il Controsservatorio Val Susa e un folto gruppo di amministratori locali hanno investito il Tribunale permanente dei popoli della situazione in Val Susa con richiesta di verificare se nelle questioni relative al TAV Torino-Lione siano stati rispettati i diritti fondamentali degli abitanti della valle e della comunità locale ovvero se vi siano state gravi e sistematiche violazioni di tali diritti.
Di seguito si riportano, in breve, i termini del problema.
La Val Susa collega l'Italia con la Francia mediante ben quattro valichi alpini ed è situata nella parte
occidentale del Piemonte, a ovest di Torino. Essa comprende 39 Comuni e conta complessivamente, in tutta la sua estensione, circa 97.000 abitanti. La valle è attualmente attraversata dalla ferrovia internazionale del Frejus (c.d. linea storica Torino-Bardonecchia-Modane-Lione), dalla parallela autostrada A32 (i cui lavori si sono conclusi nel 1994) e da due strade nazionali, oltre che da strade minori.
Da venticinque anni, quando ancora non era ultimata l'autostrada che attualmente l'attraversa, essa è minacciata dal progetto di costruzione di una nuova linea ferroviaria per treni ad alta velocità/capacità, destinati al trasporto promiscuo di passeggeri e merci, della lunghezza di 270 chilometri, parte in territorio italiano e parte in territorio francese, comprensiva di un traforo di 57 km che dovrebbe bucare le Alpi alla quota di circa 600 metri. Ad oggi la costruzione del tunnel non è ancora iniziata ma in Francia sono stati realizzati, tra il 2002 e il 2010, tre cunicoli esplorativi (future discenderie) mentre in Italia, alla Maddalena di Chiomonte, è iniziato nel 2012 lo scavo di un tunnel geognostico che dovrebbe essere ultimato nel giro di cinque anni.

Sin dalla presentazione del primo progetto di nuova linea ferroviaria si è sviluppata in Val Susa una forte opposizione con il coinvolgimento massiccio della popolazione, di amministratori locali, di docenti universitari, di esperti di varie discipline che hanno evidenziato da subito molteplici aspetti critici. Le ragioni dell'opposizione riguardavano e riguardano:
a)    l'impatto ambientale e i gravissimi rischi per la salute degli abitanti derivanti dallo scavo del tunnel in una montagna ricca di amianto e di uranio e dai relativi lavori preparatori, con diffusione nell'atmosfera delle polveri sollevate;
b)    la conclamata inutilità dell'opera, voluta da grandi gruppi imprenditoriali e bancari, sia per la sufficienza della ferrovia già esistente (utilizzata oggi per meno di un quinto delle sue potenzialità) sia per la caduta verticale del traffico merci e passeggeri sulla direttrice est-ovest (in diminuzione anche su strada);
c)    lo sperpero di denaro pubblico, ammontando i costi dell'opera, in base ai preventivi, a 26 miliardi di euro (in un contesto in cui, nelle grandi opere pubbliche, i costi finali, nel nostro Paese, superano mediamente di oltre cinque volte quello preventivato);
d)    il mancato coinvolgimento del territorio, lo scavalcamento delle istituzioni locali e l'assenza di qualsivoglia meccanismo di consultazione o di partecipazione dal basso alle decisioni sia dalla fase iniziale (in cui è decisivo l'intervento delle popolazioni locali, anche alla luce della Convenzione di Aarhus del 1998).
Nel corso degli anni il movimento di opposizione è cresciuto e ha organizzato manifestazioni con una partecipazione plebiscitaria della popolazione (fino a presenze di 70.000 persone), diventando un punto di riferimento nazionale e internazionale. A fronte di ciò i poteri economici interessati e, con essi, la grande stampa e la maggioranza della politica nazionale e regionale hanno fatto muro respingendo ogni proposta di reale dialogo e cercando di trasformare l'opposizione di una popolazione in problema di ordine pubblico da gestire con forze di polizia e militari (fino all'utilizzo di reparti dell'esercito già impiegati in Afghanistan).
Il tema di cui l'esposto investe il Tribunale dei popoli travalica il caso concreto e pone questioni di evidente rilevanza generale: dalle crescenti devastazioni ambientali lesive dei diritti fondamentali dei cittadini attuali e delle generazioni future fino alla drastica estromissione dalle relative scelte delle popolazioni più direttamente interessate. Di tali questioni, comprensive del trasferimento a poteri economici e finanziari nazionali e internazionali di decisioni di primaria importanza per la vita di intere popolazioni e/o di quote significative di cittadini, il caso Val Susa è espressione e simbolo. Molte e crescenti, peraltro, ne sono le manifestazioni nel mondo e nel nostro Paese, a dimostrazione della loro centralità e attualità. Si tratta di situazioni in cui la violazione dei diritti fondamentali di persone e popolazioni avviene in modo meno brutale di quanto accaduto in altre vicende prese in esame dal Tribunale, ma che rappresentano – su scala locale e regionale – la nuova frontiera dei diritti a fronte di attacchi che mettono in pericolo lo stesso equilibrio (ecologico e democratico) del pianeta.

Controsservatorio Valsusa
www.controsservatoriovalsusa.org




Un conflitto aperto

di Livio Pepino

Ci sono segnali di grave involuzione in ampi settori degli apparati repressivi e della magistratura torinese.
La denuncia del presidente del Controsservatorio Valsusa.

La Val Susa e il movimento di opposizione alla linea ad alta velocità Torino-Lione stanno diventando sempre più il crocevia di questioni fondamentali per la nostra democrazia: il tipo di sviluppo, l'informazione, i processi di partecipazione alle decisioni politiche ed economiche, il rapporto tra i margini e le istituzioni centrali, il senso della dialettica tra maggioranza e minoranze (1) e, da ultimo, anche gli orientamenti della giurisdizione di fronte al conflitto politico e sociale. Conviene partire dai fatti.
C'è, in Val Susa, un movimento che dal 1989 si oppone alla costruzione della linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione: una linea della lunghezza complessiva di 270 km, di cui 57 in galleria, che, in prospettiva, dovrà/dovrebbe sostituire la linea storica (attualmente utilizzata al 30 per cento delle potenzialità) correndo a lato di un'autostrada di recente costruzione (conclusa nel 1994) e di due strade nazionali. Le ragioni dell'opposizione riguardano la tutela dell'ambiente e della salute della popolazione (essendo la montagna da scavare ricca di amianto e di uranio), l'inutilità della nuova linea in considerazione della caduta verticale degli scambi di merci sulla direttrice est-ovest, lo spreco di risorse in periodo di gravissima crisi economica, il carattere autoritario della decisione di costruire l'opera, avvenuta scavalcando popolazione e istituzioni locali. Il movimento è profondamente radicato nel territorio (come avverte qualunque visitatore anche superficiale e come dimostra la partecipazione di massa ai momenti di mobilitazione), composito ed eterogeneo al suo interno, egualitario nei processi decisionali, dotato di grande capacità attrattiva anche fuori dalla valle.
Per oltre vent'anni il conflitto apertosi in valle è stato del tutto pacifico e gli episodi di attrito tra il movimento e le forze dell'ordine sono stati quantitativamente e qualitativamente ridotti: e ciò anche nei momenti più aspri, come quelli di Venaus di fine 2005 (avvisaglia di quanto sarebbe accaduto sei anni dopo alla Maddalena di Chiomonte) (2). Ma in ultimo lo scenario è cambiato, proprio – e non casualmente – mentre nell'opinione pubblica e persino in settori della politica ha cominciato a crescere la consapevolezza dell'inutilità della nuova linea ferroviaria. Dopo un lungo periodo in cui il movimento è stato ignorato e trattato come un'armata Brancaleone composta da folkloristici montanari fuori dalla storia (moderni Obelix o Asterix) e nonostante l'atteggiamento di chiusura di tutta la grande stampa, il consenso nei confronti delle rivendicazioni No TAV si è, infatti, esteso, nel Paese, sino a toccare – secondo l'ISPO di Mannheimer per il Corriere della sera all'inizio del 2012 – il 44 per cento degli italiani. E, col tempo, hanno cominciato a prodursi significativi cambiamenti anche sulla scena politica: dopo l'irrompere della posizione nettamente contraria al TAV del Movimento 5 Stelle (giunto a chiedere una commissione parlamentare di inchiesta sul punto), sono emerse persino alcune incrinature all'interno del PD (è dell'8 marzo 2014 la dichiarazione del presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, effettuata nell'assemblea della Rete dei comitati per la difesa del territorio, di aver “cambiato idea” sul TAV e di voler “dare battaglia” per cambiare destinazione ai relativi investimenti) e della CGIL (il cui congresso provinciale di Torino, lo stesso 8 marzo, ha approvato, con 169 voti contro 82, una mozione in cui si afferma che «occorre riconsiderare, valutando attentamente le prospettive dei volumi di movimentazione delle merci in ambito transnazionale, l'opportunità, la praticabilità e i relativi costi delle grandi opere previste, a partire dalle opere costose come la TAV»).

Scenari che cambiano

È in questo contesto che, nel 2011, lo scenario cambia, in concomitanza con la decisione di LTF (la società costituita per la realizzazione dell'opera) di iniziare, alla Maddalena di Chiomonte, lo scavo di un tunnel geognostico (necessario per verificare le caratteristiche del terreno su cui si dovrà realizzare il tunnel di base). Il movimento, come già sei anni prima a Venaus, costituisce in loco un presidio e occupa l'area per impedire lo scavo.
Ma la mattina del 27 giugno un esercito di carabinieri e di agenti di polizia in tenuta antisommossa, con l'ausilio di ruspe e di altri mezzi da cantiere, procede allo sgombero del presidio con un intervento particolarmente violento, comprensivo dell'uso massiccio di gas per vincere l'opposizione e allontanare gli occupanti. Le tende del presidio vengono distrutte o imbrattate (vi si troveranno escrementi e urina) e scompaiono oggetti ed effetti personali degli occupanti. L'altopiano della Maddalena, sede di un importante sito archeologico e di una cooperativa di viticultori, viene trasformato in una sorta di base militare, con doppia recinzione e sorveglianza continua da parte di uomini armati. L'assessore alla cultura del Comune di Chiomonte (retto da un'amministrazione di destra favorevole al TAV...) si dimette tra le lacrime dichiarando: «La polizia si è piazzata lì, nelle stanze del museo, senza chiedere neppure il permesso. E lassù nei boschi della Maddalena c'è una devastazione vergognosa. È troppo».
Il movimento No TAV, la popolazione della valle, gran parte degli amministratori locali vivono lo sgombero, la violenza impiegata, gli sfregi subiti come un sopruso e la temperatura si alza. Il successivo 3 luglio, domenica, circa 70.000 persone – abitanti della Val Susa e manifestanti giunti da tutta Italia – danno vita a un grande corteo che si conclude intorno alla base militare recintata. All'esito della manifestazione e fino a sera si verificano diffusi e violenti scontri di una parte dei dimostranti con le forze di polizia. Inizia, così, un conflitto aspro e apparentemente senza soluzione. Il movimento non disarma e intensifica le iniziative di disturbo nei confronti del cantiere al fine di tenere alta la tensione e l'attenzione dell'opinione pubblica. In occasione di alcune di tali iniziative, finalizzate a “tagliare le reti”, spezzoni più o meno ampi di dimostranti lanciano verso il cantiere oggetti, sassi e fuochi di artificio mentre le forze di polizia rispondono con gas lacrimogeni talora sparati ad altezza d'uomo (3). I danni alle persone sono per fortuna limitati: non si segnalano gravi lesioni a operatori di polizia mentre alcuni manifestanti colpiti da lacrimogeni riportano ferite con postumi permanenti.

La costruzione del nemico

A fronte di ciò l'establishment pro TAV si scatena gridando alla guerra ed evocando, con irresponsabile reiterazione, il morto. Le forze politiche di governo rinunciano, in modo rigorosamente bipartisan, a ogni ricerca di dialogo e trasformano il conflitto in questione esclusiva di ordine pubblico, emanando comunicati prossimi a bollettini di guerra che criminalizzano l'intero movimento; il Parlamento vara (nel 2011 e nel 2013) leggi adhoc con cui il cantiere della Maddalena viene trasformato in «sito di interesse strategico» (con divieti penalmente sanzionati finanche di condotte ostruzionistiche, di riproduzione fotografica e via elencando); il territorio della valle viene militarizzato nel senso letterale del termine, addiritura con ricorso a forze armate già impiegate in missioni di guerra all'estero (4).
A ciò fa da supporto una informazione embedded (assolutamente prevalente seppur non esclusiva) arruolata dapprima nella attività di propaganda e, poi, onnipresente partecipe delle operazioni di ordine pubblico al seguito delle forze di polizia anche dove è inibito l'accesso a ogni altro (compresi i giornalisti non accreditati). Strumenti di questa operazione sono, in particolare, le pagine locali dei grandi quotidiani diffusi in Piemonte (La Stampa e la Repubblica) e del Tg3, con i relativi siti, sempre più simili a mattinali della Questura o a uffici stampa della Procura, talora con manifestazioni grottesche come il precipitoso ritiro (dai siti) di articoli fuori linea. Inutile dire che quando, poi, si verificano incendi e attentati in danno di alcune ditte impegnate, in maggiore o minor misura, nei lavori per la linea ferroviaria e l'invio di un pacco bomba a un giornalista de La Stampa, politici e giornali si precipitano ad attribuirne la responsabilità al movimento No TAV. E ciò, dimenticando (fingendo di dimenticare) la complessità di un quadro in cui, pur in presenza di posizioni favorevoli ad atti di sabotaggio (peraltro limitati alle cose), i principali siti del movimento hanno respinto ogni coinvolgimento, che le prevaricazioni mafiose sono in valle una realtà risalente, che incendi e danneggiamenti toccano da anni presìdi No TAV e auto o beni di attivisti, che la storia del Paese ci ha abituati a una moltitudine di attentati simulati, che i gesti sconsiderati di chi è interessato a pescare nel torbido o di schegge impazzite di diversa estrazione non sono una novità (tutte circostanze che renderebbero quantomeno opportuna un po' di prudenza). È un'ipotesi quasi scolastica di costruzione del nemico, secondo uno schema ricorrente nella storia, soprattutto nei momenti di grave crisi economica e sociale, nei quali c'è bisogno, anche, di diversivi da assumere come bersagli.
Un ruolo significativo in questa operazione ha l'intervento giudiziario, con effetti di sistema che vanno ben oltre il caso specifico. Ciò è in parte necessitato ché, in presenza di scontri e di reati di diversa natura, l'obbligatorietà dell'azione penale impone di procedere per tutti i reati, in qualunque contesto commessi: è un principio fondamentale dello Stato di diritto per garantire legalità e coesione sociale; di più, il criterio di valutazione di ogni intervento giudiziario non può essere la convenienza politica di questa o di quella parte, ma solo la conformità alle regole e l'attendibilità delle valutazioni effettuate. Ma non si tratta solo di questo.
L'intervento giudiziario presenta sempre, per definizione, ampi margini di discrezionalità o di scelta. La gran parte delle misure cautelari è facoltativa (cioè legata alla valutazione del caso concreto) e, sempre, la scelta tra le misure (più o meno afflittive) va effettuata dal giudice tenendo conto della gravità del fatto e delle caratteristiche dell'imputato; i confini di molte fattispecie delittuose sono incerti e labili; le pene previste per i reati variano da un minimo a un massimo, spesso con una forbice assai ampia (5); esistono attenuanti e cause di esclusione della punibilità legate a valutazioni che è il giudice a dover formulare sulla base dei princìpi generali dell'ordinamento e via seguitando. La stessa interpretazione delle norme, lungi dall'essere un sillogismo formalistico simile a un gioco enigmistico, è un'operazione che implica giudizi di valore, bilanciamento di princìpi, opzioni culturali. Il riferimento alla discrezionalità sta a significare che i provvedimenti assunti e le interpretazioni adottate o le scelte operate nell'ambito di una pluralità di opzioni (talora, sul piano strettamente tecnico, ugualmente attendibili) conferiscono all'intervento giudiziario complessivamente considerato segni assai diversi. Lo ha scritto cinquant'anni fa, con la consueta acutezza, Achille Battaglia come premessa all'analisi del ruolo della giustizia nel difficile passaggio dalla caduta del fascismo alla attuazione della Costituzione:

«Per comprendere veramente che cosa accada in una società durante un periodo di crisi poco giova l'esame delle sue leggi, e molto di più quello delle sue sentenze. Le leggi emanate in questi periodi ci dicono chiaramente quali siano state le volontà del ceto politico dirigente, i fini che esso si proponeva di raggiungere, le sue aspirazioni e le sue velleità. Le sentenze ci dicono anche quale sia stata la sua forza, o la sua capacità politica, e in che modo la società abbia accolto la sua azione, o abbia resistito» (6).

Orbene, è parso ad alcuni giuristi – non molti, in verità, avendo i più preferito un prudente silenzio – che, nell'esercizio della descritta discrezionalità, l'autorità giudiziaria torinese abbia impresso al proprio intervento in tema di TAV un carattere di diretta tutela dell'ordine pubblico, con significative sottovalutazioni del ruolo di garanzia che compete alla giurisdizione. Ne sono seguite critiche che hanno provocato nell'establishment giudiziario, politico e giornalistico delle reazioni spropositate e sopra le righe, quando non grottesche. È accaduto finanche che la competente Commissione della Corte d'appello di Torino abbia revocato l'autorizzazione, inizialmente concessa, all'uso di un'aula del Palazzo di giustizia per un convegno di studio, organizzato dall'Associazione giuristi democratici e rivolto prevalentemente agli avvocati, dedicato a «Conflitto sociale, ordine pubblico, giurisdizione: il caso TAV e il concorso di persone nel reato» (7), con la partecipazione di docenti universitari, magistrati, avvocati e operatori di polizia.
Tali reazioni dimostrano la fondatezza delle preoccupazioni di chi vede segnali di grave involuzione in ampi settori degli apparati repressivi e della magistratura torinese. Per questo il Controsservatorio Val Susa – coerentemente con le sue finalità di controinformazione – ha ritenuto di inaugurare la propria collana di quaderni di documentazione con questo volume dedicato all'intervento repressivo in Val Susa. In esso l'analisi dei vari profili che caratterizzano gli interventi istituzionali è accompagnata dalla pubblicazione di materiali giudiziari, per lo più inediti, utili a dare tutti la percezione diretta del segno e delle caratteristiche degli stessi.

Livio Pepino

Tratto dal primo quaderno del Controsservatorio Valsusa Come si reprime un movimento: il caso Tav.


Note

  1. Illuminanti, in proposito, le considerazioni di G. Zagrebelsky in Imparare democrazia (Einaudi, Torino, 2007): «La ragione d'essere e di operare delle minoranze è la sfida alla bontà della deliberazione presa, nell'aspettativa di prenderne un'altra diversa. Per questo, ogni deliberazione in cui una maggioranza sopravanza numericamente una minoranza non è una vittoria della prima e una sconfitta della seconda. È invece una provvisoria prevalenza che assegna un duplice onere: alla maggioranza di dimostrare poi, nel tempo a venire, la validità della sua decisione; alla minoranza, di insistere per far valere ragioni migliori. Ond'è che nessuna votazione, in democrazia (salvo quelle riguardanti le regole costitutive o costituzionali della democrazia stessa) chiude definitivamente una partita. Entrambe attendono e, al tempo stesso, precostituiscono il terreno per la sfida di ritorno tra le buone ragioni che possano essere accampate. [...] La massima: voxpopuli, vox dei è soltanto la legittimazione della violenza che i più esercitano sui meno numerosi. Essa solo apparentemente è democratica, poiché nega la libertà di chi è minoranza, la cui opinione, per opposizione, potrebbe dirsi vox diaboli e dunque meritevole di essere schiacciata per non risollevarsi più. Questa sarebbe semmai democrazia assolutistica o terroristica, non democrazia basata sulla libertà di tutti»
  2. Il riferimento è all'intervento delle forze di polizia, la notte del 6 dicembre, per sgombrare un presidio organizzato dal movimento a Venaus per ostacolare dei sondaggi del terreno ivi programmati. L'intervento fu particolarmente brutale con quindici presidianti feriti (alcuni dei quali con lesioni serie) e distruzione delle tende. Scriverà, sul punto, il giudice per le indagini preliminari di Torino nel decreto di archiviazione 16 giugno 2009 (infra, p. 80 ss.) che «numerosi fatti costituenti i reati di lesioni personali volontarie (talora concorrenti con il delitto di violenza privata) e percosse sono stati perpetrati da operatori di polizia. Ciò risulta incontestabilmente dalla descrizione fornita dai manifestanti riscontrata dalle certificazioni mediche: infatti tra le 21 persone che hanno presentato querela [...] e gli altri 14 manifestanti identificati [...] ben 18 (la metà) risultano essersi recati in ospedale per ricevere cure ([...mentre] tutti gli agenti ai quali sono stati rilasciati i certificati medici allegati all'annotazione DIGOS Questura Torino – con cui sono stati trasmessi gli atti relativi allo sgombero del cantiere TAV di Venaus del 6 dicembre 2005 – risultano essere stati feriti in altre circostanze») e addirittura 23 di essi riferiscono specificamente [...] di essere stati percossi dagli agenti, senza ragione, con manganellate, anche ripetutamente». Nei giorni successivi la valle si fermò e l'8 dicembre un corteo di 40.000 persone, partito da Susa sotto la neve, aggirò gli sbarramenti, arrivò a Venaus, abbattè le reti di recinzione installate dopo l'intervento della polizia e rioccupò l'area del cantiere. Interessante segnalare che i seguiti giudiziari furono pressoché inesistenti. Ci fu quasi l'impressione di una tacita compensazione tra l'impunità assicurata agli autori dei pestaggi di Venaus (di non impossibile identificazione) e l'inerzia nei confronti dei No TAV per le occupazioni e i danneggiamenti. Ma la vicenda lasciò il segno: da un lato rinsaldando il rapporto tra le diverse componenti (dai sindaci ai valligiani, dai centri sociali di Avigliana e Torino agli ambientalisti), dall'altro provocando sfiducia e diffidenza nei confronti delle istituzioni centrali e regionali e delle forze di polizia.
  3. La circostanza, attestata da numerosi articoli e filmati, risulta, in modo indiretto ma univoco, dalla stessa motivazione della misura cautelare 20 gennaio 2012 GIP Torino, in cui si legge: «Su via dell'Avanà, un grosso gazebo con scheletro metallico e tendaggi di colore bianco, veniva ribaltato a terra e utilizzato da decine di soggetti come scudo per avanzare verso lo sbarramento delle forze dell'ordine, riparandosi così dal lancio dei lacrimogeni» (vds. infra, p. 113).
  4. È del 1 novembre 2013 l'intervista rilasciata al quotidiano La Stampa dal generale Claudio Graziano, capo di stato maggiore dell'Esercito, per annunciare l'invio nel cantiere di Chiomonte di ulteriori «quattrocento soldati [...] tutti uomini di grande esperienza, che hanno prestato servizio all'estero, in Afghanistan, in altri scenari internazionali, alle prese con situazioni complesse e delicate».
  5. Basti segnalare, a mo' di esempio, che per il delitto di violenza a pubblico ufficiale la pena prevista dagli articoli 336 e 339 del codice penale varia da un minimo di quattro mesi (con la concessione delle attenuanti generiche) a un massimo di 15 anni (tenuto conto della aggravante della commissione del fatto in più di dieci persone riunite)...
  6. A. Battaglia, I giudici e la politica, Laterza, Bari, 1962, p. 3.
  7. Il convegno si è poi svolto, con grande partecipazione di pubblico, il 2 dicembre 2013 alla Galleria d'arte moderna di Torino e i relativi atti sono in corso di pubblicazione presso l'editore Giappichelli. Non è inutile segnalare che la gravità dell'intervento censorio dei vertici degli uffici giudiziari torinesi è stata sottolineata da centinaia di giuristi che hanno sottoscritto un documento in cui, tra l'altro, si legge: «La decisione ha dell'incredibile ché nessun intervento censorio di questo tipo risulta essere intervenuto dagli anni Settanta ad oggi. E ancor più indigna il fatto che ciò sia avvenuto con riferimento a un tema di grande rilevanza pubblica e in polemica con una associazione forense di solide e radicate tradizioni democratiche. In un assetto costituzionale in cui la giustizia è amministrata in nome del popolo i palazzi di giustizia sono per definizione la casa di tutti e non il fortilizio di alcuni. È assai grave che ciò sfugga ai vertici della giustizia torinese. La democrazia – per usare una felice espressione di Norberto Bobbio – «è il governo del potere pubblico in pubblico». È sorprendente che ciò venga ignorato da chi esercita la giurisdizione, che proprio dal dibattito e dal controllo pubblico trae alimento e credibilità. È una brutta pagina per Torino e per la giustizia. Come cittadini e come giuristi riteniamo doveroso denunciarlo pubblicamente auspicando che essa non passi sotto silenzio ma veda, al contrario, la ferma protesta di tutti i democratici».



Le mie fotografie contro la Menzogna

di Luca Perino

Un valligiano racconta perchè e in che modo ha saputo tradurre la propria rabbia per le continue bugie raccontate dai mass-media sulle lotte NoTav in una documentazione a tappeto, dal basso, delle azioni di chi a quel progetto si oppone. Quotidianamente.

Sono ormai 5 anni che, in veste di fotografo freelance, seguo in modo costante il movimento NoTav e la galassia di movimenti, associazioni e semplici cittadini che si ribellano alla costruzione della linea ferroviaria ad alta Velocità Torino Lione.
La molla che mi ha portato, nel tempo, alla realizzazione di alcune centinaia di reportage fotografici di cronaca è stata l'assoluta mancanza di verità oggettiva nelle notizie riportate dai maggiori mezzi di comunicazione mainstream nei riguardi dell'opposizione al Tav. Giornali e telegiornali hanno sempre evitato accuratamente di spiegare le motivazioni che hanno portato una valle intera a ribellarsi alle decisioni dei governi che si sono succeduti, mostrando unicamente immagini di violenti scontri con la polizia e prendendo sovente a prestito immagini di repertorio, talvolta anche riferite ad eventi non correlati con la notizia che stavano raccontando.
Ho quindi sentito l'esigenza di impegnarmi in prima persona per tentare di ribaltare questa situazione trasformando, all'occorrenza, il mio hobby per la fotografia in un vero e proprio lavoro di fotoreporter.

La mia idea è quindi stata quella di colmare il vuoto della comunicazione con “fotoracconti”, ossia reportage minuziosi che seguissero tutte le fasi delle manifestazioni e degli eventi in un susseguirsi di fotografie che alla fine potessero dare l'impressione, anche a chi non era presente, di aver partecipato all'evento. Donne e bambini, giovani e anziani, passeggini e stampelle, tutti insieme con ogni mezzo disponibile per sfilare sotto le bandiere NoTav. 10, 20, 50 mila persone col sole, con la pioggia o con la neve, di giorno e di notte, per strade o sentieri, sempre in marcia per ribadire la propria contrarietà al progetto. Tutto questo e molto altro è ciò che ho provato a raccontare. Una goccia d'acqua nel mare dell'informazione che, grazie alla diffusione di internet, mi ha portato a pubblicare più di 13 mila fotografie e superare i 16 milioni di click con pubblicazioni su siti internet e riviste in diverse parti del mondo.

Luca Perino