rivista anarchica
anno 45 n. 400
estate 2015






Primo fu Georges, poi...

Quattrocento di questi numeri!
Quattrocento numeri... però però però: qui corre l'obbligo dell'autocelebrazione. E per quel che riguarda propriamente il sottoscritto, la rubrica su cui vi scrive in questo momento debutta sulla rivista nel numero 284 dell'ottobre 2002. Son dunque ben più di cento numeri e dieci anni che vi tedio su fatti più o meno musicali e con personaggi piuttosto libertari! C'è di che provare a spegnere qualche candelina...
Lo faccio alla mia maniera, riportando in poche righe alcuni “mostri sacri” e geniali sconosciuti (quantomeno per la cultura italiana) di cui v'ho parlato in tutti questi anni. Valga come centone, come zibaldone, come sprone ad andare a ripescare - facendo una mangiata di polvere sugli scaffali, magari online o anche ascoltando qualche brano su Youtube, che allora non s'usava - quelle antiche righe, che un po' sono ingiallite, ma - a scanso di qualche aggettivo entusiasta di troppo - testimoniano la mia fame e il mio entusiasmo di musica ribelle. Col tempo mi sono dato una calmata e non uso più “sublime” e “geniale” a ogni piè sospinto, ma credo di poter ancora affermare che questa è una rubrica fatta d'amore più che di conoscenza... sempre che le due cose non coincidano.

Georges Brassens (1921-1981), da qui si comincia sempre, e su di lui siamo tornati più e più volte, anche con un intero dossier del maggio 2012 (“A” 371). Il pedagogo libertario per eccellenza, l'individualista buono studiato, imitato, tradotto da generazioni su generazioni di cantanti, in tutte le lingue e i dialetti del mondo. A distanza di trentacinque anni dalla sua morte, ad appena 60 anni, la maniera garbata di far passare rivolta per ironia, ritmo per carezza e poesia per canzone (o il contrario) continua a convincere. C'è un rispetto del pubblico che diventa rispetto sommo per l'umanità, un modo sommesso di rivendicare dignità a ogni grano di sale, amore a ogni uomo e bellezza a ogni donna. Forse il suo sistema di valori appare quello di un signore un po' vecchiotto e inoffensivo, ma basta che il vento degli eterni ritorni dell'imbecillità levi un po' la polvere dai dischi, ed ecco che il vecchio leone impagliato tira fuori le unghie e graffia a fondo la stupidità becera del razzismo, del nazionalismo, dei guerrafondai. A 285.

Jacques Brel (1929-1977), e come ci si fa a non innamorare di lui? Era un punk, era un disperato braccato da se stesso, era la vitalità fatta persona. Sudava, perdeva litri ad ogni concerto, vomitava stretto nel fascio dei suoi nervi ogni volta prima di andare in scena. Nato nel milieu filisteo e alto-borghese di Bruxelles, rinnega i “sacri” valori di famiglia, per vivere un sogno bohème nei cabaret parigini degli anni '50. La gavetta miserabile, poi un successo universale. Ogni sua canzone è un teatro in miniatura di versi infuocati, d'impareggiabile energia interpretativa, e sconvolge anche le star del Rock and Roll (celebre la versione di Bowie di La mort/My death). All'apice del successo il ritiro a 35 anni, senza ripensamenti... o forse non ne ha avuto il tempo. Divorato da un tumore, rifugiato, come Gaugin e Stevenson, nelle isole del Pacifico, aspettava la morte, mentre milioni di francesi facevano la fila per acquistare il suo ultimo LP. A 287

Léo Ferré (1916-1993), il gigante monegasco torrenziale, apocalittico, visionario, ha un approccio del tutto diverso: musicista per formazione, aspira alla pienezza orchestrale, mettendo in musica i più grandi poeti francesi.
Timido come interprete all'inizio, affida la popolarità delle sue canzoni ad altre voci, poi - man mano che trova il proprio urlo e il furore e la carezza - ha sempre più parole, fino a prorompere nell'oceano inarrestabile dei suoi poemi monologhi-sinfonici.
Nel '68 non rifiuta il ruolo di profeta rivoluzionario, qualche volta lo contraddice... oggi emergono alcune pesanti allusioni al suo passato familiare che mostrano il lato di umana ambiguità di un genio che forse aveva più talento per l'arte che per la vita.




Paco Ibanez (1934), oh, interrompiamo la serie dei francofoni con un cantautore che per di più è vivo e che ha raggiunto, in piena forma artistica, una bella età! Viva Paco!
M'è capitato più d'una volta d'incrociare il suo cammino, la sua fiera anarchia bonacciona (un po' alla Brassens, tanto per cambiare), la sua passione per la poesia propriamente detta, quella che nasce per i libri e non per la chitarra.
L'impegno di una vita di Paco è stato quello di mettere in musica e cantare con la sua voce - da qualche anno ridotta a un filo, ma sempre profonda - i tesori della poesia castigliana, dai tempi del barocco a quelli più recenti in cui i poeti vivevano in esilio o morivano in carcere. A 285





Atahualpa Yupanqui (1908-1992) un nome da Dio per una divinità della musica... un nome che ispira una soggezione ancora palpabile per questo ricercatore del folklore, che con un'invidiabile tecnica di chitarra classica e un raschio vegetale nella voce, seminava per il vasto mondo versi su versi.
Si confonde in lui il poeta popolare e il popolo tutto, l'agitatore politico e il gaucho dai silenzi eloquenti, l'ambasciatore dell'arcaico stile della milonga, argentina e uruguayana, e il guardiano della memoria condivisa, cui un continente intero si abbevera di senso. A 289







Violeta Parra (1917-1967) a sedici anni avevo, come tutti, un numero consistente di sogni, fra questi c'era quello di sentire la versione di Gracias a la vida, la più bella preghiera laica mai scritta, cantata dall'autrice: ci era arrivata in moltissime versioni (Joan Baez, Mercedes Sosa, Gabriella Ferri, ecc.), ma proprio quella era irreperibile. Sapevo bene - ben prima che diventasse la trama di un film di successo - della vita difficile di questa donna dal carattere forte e impossibile, libero e intrattabile. Sapevo del suo impegno politico di militante comunista, sempre in viaggio per il mondo, della fama come pittrice, come ricercatrice, come tessitrice di arazzi. Sapevo dei suoi figli diventati cantanti, del suo sentirsi messa da parte, del suo appoggiarsi all'amore bugiardo fino all'ultimo giorno. Sapevo del suo suicidio a cinquant'anni e del fatto che poco prima aveva scritto una canzone che è il più bell'inno alla vita. Lo sapevo e volevo ascoltarlo dalla sua voce e quando l'ascoltai mi sconvolse, e mi sconvolge ancora. A 357



Bulat Okudzava (1924-1997) è nella memoria dei testimoni un mormorio teso nel pubblico di una conferenza stampa gremita all'inverosimile: quella del Club Tenco nel 1985 a Sanremo, quando dopo numerosi tentativi il direttivo riuscì a invitarlo per conferirgli il Premio. Era un mondo diverso, i russi erano sulla bocca di tutti: nemici o speranza, cruccio o attesa, dissidenza o servilismo.
Un cantautore russo era un marziano, quella società che si voleva liberata, ma che s'infagottava in uniformi mostruosamente piene di medaglie e patacche, aveva partorito un omino secco e dimesso, un gigantesco poeta che col linguaggio quotidiano, con ironia disillusa, con immagini e melodie popolari, faceva a pezzi la retorica del regime.
I poeti in Russia sono due secoli e mezzo che sfidano il potere, che muoiono malamente, e grazie tante se gli viene lasciata l'opzione del suicidio... Okudzava era lì, figlio di un fucilato e di una deportata, era lì a testimoniare che la poesia è una fragile lastra di ghiaccio in equilibrio fra un abisso e un altro. A 288

Aleksandr Galich (1918-1977) invece è un panzer, un carrarmato. Quanto Okudzava è soffuso e in fondo carico di speranza per un'umanità, magari silenziosa ma viva, tanto Galich è irridente, sarcastico, definitivo.
C'è stata una scelta precisa fatta al tempo degli assassini: da una parte il sacro, i poeti, quelli che si sono opposti e hanno pagato, dall'altra i torturatori, i servi, gli indifferenti... nessuna stretta di mano, nessun sorriso complice, il quieto vivere sarebbe la seconda morte di chi pagò cara la sua libertà di pensiero.
Galich, come russo, come ebreo, come uomo è stato tradito troppe volte dal potere e ha messo la sua patria in una cattedrale di parole a cui si tiene stretto, mentre il mondo va alla deriva. Costretto all'esilio, lo trovarono un giorno folgorato per un misterioso incidente domestico. A 351



Vladimir Vysockij (1938-1980) l'immensa popolarità di questo poeta cantante e attore è dovuta - come per i suoi maestri - al “samizdat”, alle cassette clandestine che circolavano in milioni di copie e ai concerti in case private, fuori dal controllo dello stato, che non essendo più tempo di purghe e di Siberia, si limitava a sommergere nel silenzio obbligatorio i suoi migliori artisti.
Vysockij, fisico da lottatore e carattere indomabile, sfidò con la sua fame di vita il silenzio bianco che lo circondava, alcolizzato e morfinomane, venerato e tenuto in disparte, durò finché era umanamente possibile durare. Il suo funerale, non annunciato, fu la più grande manifestazione spontanea nell'URSS: chilometri di coda per andare a vedere l'eroe del popolo. È lì che una crepa s'è aperta nel muro di un mondo che era già finito. A 338




Herbert Pagani (1944-1988) tanto in italiano quanto in francese, tanto in canzone quanto in pittura, tanto su disco quando in teatro, tanto in una radio commerciale quanto in un'arringa politica, ha abitato il destino di questo girovago eclettico e tragico. Ebreo libico di origini italiane, infanzia trascinata per mezza Europa da due genitori separati e litigiosi, uomo dalle incrollabili convinzioni umanitarie e internazionaliste, ma legato a un impossibile sogno sionista, Herbert è generoso quanto ferito, un talento popolare nelle movenze di una principesca grazia. Oggi gli italiani lo hanno dimenticato, perché è più comodo piangere che capire. A 295





Giovanna Marini
(1937) è una compositrice, una cantante, una ricercatrice, una poetessa e una straordinaria pedagoga. Che un personaggio del genere non abbia nel suo paese un conservatorio da dirigere, uno spazio permanente dedicato alle sue creazioni, è il segno del maschilismo sempre strisciante negli ambienti culturali e della diffidenza nei confronti degli artisti impegnati.
Il fatto che Giovanna, oltre che nei teatri di tutto il mondo, continui a portare la sua arte e il suo sapere nelle piazze, nei centri sociali, nelle associazioni culturali e politiche più periferiche e oscure, è la riprova dell'umiltà e della generosità del genio. A 353






Paolo Ciarchi
(1942) chitarrista jazz di formazione, accompagnatore e testimone della migliore stagione del Cabaret (Jannacci e Milly), collaboratore principale del Teatro Politico di Dario Fo. Ciarchi s'è inventato una forma di arrangiamento basato sull'ordine del caos e sulla rivoluzione formale dei suoni, che fa da contraltare giocoso alle seriose canzoni del repertorio politico dei Dischi del Sole.
Questo musicista fantasioso ha toccato, con la grazia e la danza di un Re Mida della cultura, tutti i generi di spettacolo (le canzoni di Della Mea, il teatro di Franco Parenti, il cinema, l'improvvisazione pura) ed è rimasto invisibile ai più. A 356

Non saprei e non vorrei concludere questo compendio senza segnalarvi tre nuove uscite, di tre cari amici e inestimabili colleghi di musica... perché che senso avrebbe parlare di canzoni se tutto fosse passato?


Gang, il gruppo marchigiano capitanato dai fratelli Marino e Sandro Severini, dopo un secolo di attesa, ha finalmente partorito un disco di nuove canzoni dal titolo “Sangue e Cenere”. I fratelli si amano e si seguono senza discuterli, la loro arte è senza tempo ma racconta del nostro tempo, la loro urgenza punk s'è fatta monumento quotidiano alla memoria, attenzione al minuto. Delle virtù rivoluzionarie pare abbiano distillato il meglio: il sorriso e la pazienza si sono aggiunte alle radici e alle ali.

Marco Rovelli, quest'intellettuale non pacificato, mette coi suoi libri profondità filosofica e narrativa al servizio di cause buone e necessarie. Fra le molte frecce al suo arco ci rivela un pugno di grandi canzoni nel nuovo CD “Tutto inizia sempre”. La produzione musicale, del mio storico collaboratore Rocco Marchi, cuce narrazioni cantate e spunti lirici in una sorta di trasparenza armonica, una sinfonia di suoni inaspettati che nell'insieme hanno un incedere classico. Il brano d'apertura Il tempo che resta offre la consolazione lancinante di un diamante pazzo.

Davide Giromini, il più talentuoso e caotico scrittore di canzoni in attività, è appena uscito con un libro/CD che, come sempre, merita la massima attenzione.
Su un doppio indecifrabile binario corre la narrazione cibernetica del romanzo di (de)formazione di un robot e l'assalto a parole armate di una serie di canzoni memorabili, che portano nell'oblio “pixellato” del presente gli incubi mal digeriti del passato coloniale (Volto nascosto) e delle “Rivoluzioni Sequestrate” (Esilio di Lev, Un treno per Lenin, Robespierre) che danno il titolo al progetto.

Alessio Lega
alessiolegaconcerti@gmail.com