rivista anarchica
anno 45 n. 401
ottobre 2015


Grecia

Per un'autonomia tecnologica

di Stefano Boni


Solo la paziente, ma urgente, ricostituzione di un tessuto sociale che pratica forme di faticoso artigianato e di agricoltura contadina, garantisce una sovranità tecnologica, premessa indispensabile per non essere ricattabili. La proposta di un nostro collaboratore, antropologo.


I ricatti finanziari al governo greco sono inconcepibili se proiettati indietro nel tempo. Nessun organo avrebbe potuto, fino a metà Novecento, piegare una nazione minacciando restrizioni delle elargizioni monetarie. Oggi, invece, organismi non eletti possono esigere tagli, privatizzazioni, precarietà del mercato del lavoro usando transazioni finanziarie internazionali come arma vincente del ricatto. Eppure, il governo greco non potrebbe semplicemente stampare una propria moneta e decidere di non pagare i suoi debiti?
La cancellazione del debito è stata, ci ricorda Graeber in Debito: I primi cinquemila anni, una soluzione praticata a più riprese nella storia. Oggi per i Greci questa soluzione eviterebbe sofferenze popolari e l'ulteriore concentrazione di capitale nella rendita, ovvero in tutti quegli enti privati e persone, già potenti, che si arricchiscono ulteriormente, incassando interessi enormi pagati da una popolazione impoverita, in alcuni settori ridotta alla fame.
Non pagare produrrebbe un minimo di equità in un contesto in cui la disparità di ricchezza assume nuovamente l'intensità che distingueva aristocratici e plebei nella età moderna. Si consolidano cerchie ristrette di potenti improduttivi, scissi dalla realtà sociale, attorniati da nuovi servi: incassano rendite che permettono loro di vivere un lusso che si fa difficoltà ad immaginare.
Si può dire, semplicemente, questa gente non la paghiamo? Si può dire che il debito accumulato da governi corrotti che usavano i soldi per comprare voti, sviluppare clientele, prendere tangenti sugli appalti, fare enormi opere inutili (e spesso devastanti), non ci riguarda? Si può dire, oggi, che, piuttosto che alimentare rendite, la priorità è garantire dignità e servizi essenziali in un periodo di depauperamento e incertezza? Sembra che non si possa dire. O se è ancora concesso dirlo, non si può fare. Non lo possono fare neanche governi nazionali, che su tale programma hanno ottenuto la maggioranza dei voti. La democrazia elettorale rivela ancora di più il suo carattere retorico e mistificante, la sua inevitabile sudditanza alle relazioni di potere, oggi principalmente di ordine finanziario.

Un circolo ristretto di persone

Perché si deve stare agli ordini di istituzioni quali la Unione Europea, il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Centrale Europea e innumerevoli altre? Chi rappresentano? In breve, i potentati del capitalismo neoliberista contemporaneo. Questi sono interessati ad alimentare la rendita, mediante il pagamento degli interessi su debiti privati e pubblici; a espropriare ulteriormente le case e i terreni dei cittadini e i patrimoni dello Stato; a spostare gli investimenti dove ci sono profitti; a renderci dipendenti dai prodotti che controllano e che ci offrono come beni di consumo. E che potere hanno su di noi? Hanno la capacità di condizionarci che abbiamo delegato loro in decenni di comodo consumismo: ci siamo affidati alle imprese, ai prodotti, ai servizi, ai carburanti, al cibo, alle medicine, agli elettrodomestici, al riscaldamento offerti da un sistema che è stato meticolosamente controllato dalle stesse forze che esprimono le loro pretese attraverso le istituzioni che oggi stanno tirando il collo alla popolazione greca. Domani, chissà a chi toccherà ma pare che l'Italia sia tra le prossime possibili vittime.

Nessun controllo della globalizzazione

Nella questione greca debito o moneta non sono il problema reale: i debiti si possono non ripagare e le monete stamparle (in fin dei conti, è carta). La controversia finanziaria (le modalità di restituzione del debito pubblico) e monetaria (l'uscita o meno dall'euro) nasconde una questione economica, ovvero: quale è la capacità del tessuto sociale dello società europee contemporanee di generare quello che serve per sopravvivere? Negli ultimi decenni si è consolidato un sistema produttivo interamente innestato su flussi globali di circolazione dei prodotti. Il controllo di questi flussi, delle sue parti costitutive (le industrie, i campi, le miniere, i pozzi petroliferi) e dei movimenti, delle sue regole e dei suoi finanziamenti, è detenuto da un circolo ristretto di persone che hanno interessi convergenti, ostili a quelli del 99%.
E non potremmo gestire democraticamente, come popolazione mondiale, i flussi di produzione globalizzati? Credo di no. Se il commercio su lunghe distanze è stato un tratto dell'umanità da millenni, la sua strutturazione odierna, la sua complessità, la sua velocità, la sua assenza di considerazioni morali ed ecologiche, ne fanno una dimensione indistricabilmente legata a organizzazioni verticistiche, finalizzate al profitto esponenziale. La logica della globalizzazione è incompatibile con l'equità sociale e ancora di più con aspirazioni libertarie. E non possiamo fare a meno di ciò che viene prodotto dalla mega-macchina? Decenni in cui ci si è accomodati su prodotti industriali, secoli di progressivo abbandono dei faticosi lavori artigianali e contadini, hanno generato un'umanità dipendente. Senza i prodotti e i servizi controllati dalla globalizzazione neoliberista non siamo in grado di vivere, probabilmente neanche per qualche settimana.
Combattiamo una lotta in cui le entità che dovremmo abbattere per liberarci sono le stesse che ci garantiscono ciò che ci è necessario per vivere. Possiamo scagliarci contro i supermercati, le pompe di benzina, i gasdotti quando questi garantiscono la nostra comoda esistenza quotidiana? Non possiamo farlo con coerenza. Infatti, la maggior parte delle azioni politiche (tra cui il voto), anche quando presentate come “lotte“, sono vani appelli ai potentati contemporanei per pregargli di essere un po' più umani, un po' meno ecologicamente devastanti, di stringerci la corda al collo con gentilezza.
Questa è la drammaticità della azione politica odierna, la sua impotenza. Quando si esce dall'irrilevanza con l'azione diretta, la mannaia repressiva colpisce con severità inaudita, lo sa bene il movimento NoTAV e i compagni che hanno cercato di inceppare la macchina. Ma sono casi sporadici. Nel complesso oggi non ci si augura il collasso di un sistema che genera discriminazioni planetarie, decenni di accentuazione delle disuguaglianze, e soprattutto una devastazione ecologica mai vista nella storia del nostro pianeta, perché non sappiamo più fare a meno di questo intricato sistema che possiamo odiare ma rappresenta quello che ci garantisce la comoda esistenza che ci appare irrinunciabile. Il nostro livello di dipendenza è tale che facciamo difficoltà anche solo ad immaginare una vita senza prodotti e servizi che ci offrono i potentati.
La questione vera dietro la crisi greca, in ultima analisi, è quella della sovranità tecnologica. Avere il potere di gestire le macchine, le energie e quindi i prodotti e i servizi, come collettività protagonista e non più solo come passivi consumatori. Avere la conoscenza e la possibilità di determinare e di decidere quali siano i processi economici che vogliamo, quelli che riusciamo a monitorare e quelli che alienano e inquinano.
Avendo perso completamente la nostra autonomia tecnica, perdiamo anche l'illusione di poter esercitare una sovranità politica. Questa non dipende dalla capacità di assumere il controllo della globalizzazione, visione illusoria e tossica, ma di svuotarla sviluppando forme di autonomia produttiva locale, innestata nel tessuto sociale. In breve di autogestire, come collettività cosciente, quello che ci serve per vivere: cibo, riscaldamento, medicine, mobilità. Non propongo un ritorno al passato: la storia si muove necessariamente verso il futuro; sfortunatamente non abbiamo l'ambiente che avevano i nostri nonni ma abbiamo delle competenze tecniche che potrebbero risultare utili.
Non propongo un'autarchia nazionale: reti regionali di autogestione, anzi dissolvono i confini nazionali. Sostengo piuttosto che solo la paziente, ma urgente, ricostituzione di un tessuto sociale che pratica forme di faticoso artigianato e di agricoltura contadina, garantisce una sovranità tecnologica, premessa indispensabile per non essere ricattabili, per ritrovare una dignità politica, per affermare come collettività la possibilità di scegliere e di determinare il futuro che vogliamo. L'alternativa è una moderna servitù, una confortevole schiavitù, che si dimostrerà, col passare dei decenni, sempre più tossica, sempre meno dignitosa, sempre più soggetta agli insaziabili appetiti della nuova aristocrazia.

Stefano Boni