rivista anarchica
anno 45 n. 402
novembre 2015





Intervista a Jesùs Lizano/
Cultura come arma contro il potere

Si poteva incontrare Jesùs Lizano, con la lunga barba bianca da autentico profeta, nel piccolo studio sovraccarico di libri, carte e macchine da scrivere fuori uso. Era evidente che non possedeva alcun computer. In Italia era quasi sconosciuto, noto solo ai frequentatori del movimento barcellonese, in particolare dell'Ateneu Enciclopédic Popular. La sua opera, scritta fino al 2000, è riunita in Lizania. Aventura poética (ed. Lumen, 2000), un imponente lavoro di più di mille pagine. Ha pubblicato altre espressioni della sua singolare, schietta e forse ingenua maniera di vedere la vita, tra cui Cartas al Poder Literario, La vuelta del mundo en 80 años, ¡Hola compañeros! Manifiesto Anarquista, Lizanote de la Acracia o la conquista de la inocencia (ed. Virus).
Ci ha lasciati il 25 maggio, all'età di 84 anni vissuti in una ostinata solitudine, interrotta saltuariamente da manifestazioni pubbliche come quel corteo spontaneo di qualche anno fa quando, insieme a centinaia di giovani, sfilò sulle Ramblas di Barcellona con lo striscione Para un mundo poético y natural.
Riproduciamo parte dell'intervista di Antonio Orihuela, apparsa su CNT, n. 379, del giugno 2011. E altre sue dichiarazioni dello stesso periodo.

Claudio Venza

Jesùs Lizano (Barcellona, 1931-2015)

Qual è la novità del libro, appena pubblicato, ¡Hola Compañeros! Manifiesto Anarquista?
Più che una novità è il culmine del mio pensiero, cioè la fusione definitiva della creazione poetica con quella libertaria. In realtà questa fusione si intuiva già all'inizio dell'avventura che tuttora vivo e che mi ha fatto scrivere molte poesie oltre a diari, lettere, articoli. Questo culmine è la fusione a cui deve aspirare la nostra specie e alla quale solo il pensiero anarchico, unito a quello poetico insieme all'innocenza del dato naturale, può condurci superando il compromesso con la politica. A questa conclusione sono arrivato attraverso poesie e poesie, sofferenze e sofferenze, comprensioni e comprensioni.
Come ti senti agli 80 anni?
L'artista non vive per se stesso, bensì per la sua opera. E la sua opera non è per lui, ma per gli altri. Mi chiedo solamente: “Cosa ne sarà della mia opera, la Lizania? Fino a che punto sarà riconosciuta e compresa?”. Nel contesto culturale dominante, sono malvisto dal Poder Literario che peraltro ho duramente contestato nelle mie cartas (lettere).
Di cosa abbiamo bisogno per conquistare l'innocenza?
Non si tratta di conquistare l'innocenza, bensì del fatto che l'innocenza conquisti noi stessi. Questo è possibile solo avvicinandosi al dato naturale, vedendoci come frammenti della natura in quanto mammiferi e non della struttura dominatori-dominati che tuttora ci determina.
La cultura è un'arma del Potere?
È inevitabile che la cultura sia in mano al Potere, ai dominatori. Per i potenti è un'arma fondamentale con la quale possono manipolarci, imporci la loro mentalità, usarci e, se conviene, sacrificarci.
Di quale bussola avrebbe bisogno l'umanità per incontrare se stessa?
Già un secolo e mezzo fa, il primo Manifesto Anarchico la trovò: rifiuto di ogni potere e della politica che è lotta per il potere. Allora, e ancora oggi, occorre cominciare ad organizzarsi in comunità umane e non politiche, religiose o familiari.
Perché costa tanto riconoscersi come mammiferi?
È molto semplice. Durante secoli e secoli, il dominio ci ha fatto impazzire. Ci hanno impedito di vedere ciò che è naturale e reale. Hanno sottomesso le nostre vite all'idea centrale di ogni dominatore, quella che ostacola la presa di coscienza della necessaria conquista del naturale. Il Potere impedisce di vederci tutti come compagni, di considerare il mutuo appoggio come l'unica “legge”, l'unica “morale”, l'unica “verità”. Occorre vedere ciò che francamente siamo: mammiferi.
Resta lontano il Mundo Real Poético?
Il Mondo Reale Poetico è qui: nella sua bellezza, nella sua innocenza, nella fusione dell'unitario e del diverso. Solo la nostra progressiva pazzia ci nega il godimento di questo Mondo che ha le sue luci e le ombre sue naturali. Siamo sepolti nel pozzo della politica. È ovvio che dobbiamo avere fede in ciò che è umano, nel naturale per aspirare al possibile cambio di struttura.
Come vedi il ruolo di un poeta?
Penso che un poeta sia un messaggero di bellezza. Io cerco di esserlo. Anzi, non posso evitarlo, come non posso evitare di fare la pipì.
Credi che esistano falsi poeti?
Certo. Sono quelli che cercano premi, riconoscimenti, medaglie, incarichi di prestigio, poltrone di accademici... L'artista vero, come il poeta, non ha amor proprio, non conosce la vanità. In effetti, l'artista è consapevole di non avere alcun merito personale, ma sa che è l'energia creativa che lo fa vivere. Per questo motivo non si può conoscerlo senza leggere la sua opera.
Cosa si aspetta il Potere dagli artisti e dai poeti?
Al Potere fa piacere che si rispettino le forme, l'educazione, vuole che tu sia un adulatore e che lo esalti in vari modi. Da parte mia, non stiro i vestiti, non controllo l'aspetto, dimentico di curarmi. In sostanza conservo e sviluppo molto la vita interiore, per nulla quella esteriore. È normale che io non piaccia alla borghesia. Ma, per favore, si leggano i miei lavori!
Come hai potuto vivere, con quali fonti economiche?
Come laureato in filosofia, insegnai per qualche anno. Entrando in classe dissi agli studenti: “Siete tutti promossi. Seguite le lezioni solo se volete!”. Il direttore mi ordinò di cambiare atteggiamento. Non lo feci, naturalmente. E al terzo anno non mi rinnovarono il contratto.
E allora?
Trovai lavoro come correttore letterario in una casa editrice. Ma la necessità irresistibile di scrivere poesie diede fastidio al mio capo che mi denunciò al superiore. Quindi feci leggere al direttore i miei lavori. E lui mi comprese! Mi collocò in un piccolo ufficio dove ero da solo. Una volta terminato il lavoro di correttore, potevo dedicarmi a scrivere. Così feci per 22 anni.
Hai avuto molta fortuna...
Sì, certo. Infatti non si può creare senza disporre di tempo libero, di libertà di pensare e sentire. Per questo motivo la compagna della mia vita è stata la solitudine, il mio unico amore. Ora la mia consolazione è fare gli acquisti ogni mattina e salutare le venditrici del mercato che mi vogliono molto bene. Questo mi dà alimento all'anima. Penso di uscire un giorno per strada con un cartello “Ho bisogno di affetto”.
E come va la vita alla tua età?
Ho la leucemia. Sto morendo. Sono ammalato, esaurito. Però non sono depresso! La morte da vecchio è un fatto naturale. Ho avuto molte esperienze e ora comprendo meglio che non bisogna farne un dramma. Insomma ho vissuto abbastanza.
Vuoi recitare una tua poesia?
“Il capitano
non è il capitano.
Il capitano
è il mare...”

Antonio Orihuela



Caso Mastrogiovanni/
Sei anni alla ricerca di verità e giustizia

Dopo circa cinque anni di processi ci avviciniamo, finalmente, al momento della verità.
La sentenza del processo d'appello per la morte di Francesco Mastrogiovanni, insegnante libertario deceduto il 4 agosto 2009, presso l'Ospedale San Luca di Vallo della Lucania (SA), dopo 83 ore di contenzione e torture, sarà emessa, dalla Corte di appello di Salerno, molto probabilmente, entro la fine del 2015.
Prima della pausa estiva si sono svolte, presso il Tribunale di Salerno, due udienze: rispettivamente il 26 e il 30 giugno. Il primo a prendere la parola, nell'udienza del 26 giugno, è stato l'avvocato Raffaele Giorgio che difende l'Asl Salerno 3. A proposito dell'eventuale responsabilità dell'azienda sanitaria, Giorgio ha affermato che la stessa conta circa cinquemila dipendenti e che l'azione di controllo, su un numero così elevato di operatori, è praticamente impossibile per cui valgono le norme in materia e i regolamenti che sono a conoscenza sia dei medici che degli infermieri. Il secondo legale che è intervenuto è stato Francesco Bellucci, a difesa degli infermieri Antonio Luongo e Alfredo Gaudio. L'avvocato ha messo a dura prova la pazienza della corte parlando per circa un'ora di un fantomatico processo mediatico messo in atto dal “Comitato verità e giustizia per Franco” paragonando le legittime iniziative di movimento, giornalistiche e culturali promosse in tutta Italia da quest'ultimo, alla sovraesposizione mediatica dei protagonisti di altri processi quali quello di Avetrana, Cogne ecc.
Alla fine della sua arringa il presidente ha ricordato, a Francesco Bellucci, “maestro del giure e dell'eloquenza” come lo avrebbe definito Errico Malatesta, che la sua è stata “una introduzione pregevolissima sul processo mediatico ma che non è questo processo”.
Dopo una breve pausa, fallito il tentativo di spostare il dibattito su un tema non pertinente (quello del processo mediatico), Francesco Bellucci ha ripreso nuovamente la parola ed ha analizzato, dal suo punto di vista, le cause della morte dell'insegnante cilentano. L'udienza si è chiusa con l'arringa dell'avvocato Agostino Bellucci, figlio del più noto, il quale ha ipotizzato l'inammissibilità del ricorso della procura di Vallo. Più aderenti ai temi, le arringhe dell'udienza del 30 giugno nella quale si sono succeduti quattro avvocati. Il primo a prendere la parola è stato l'avvocato Francesco Maria Torrusio che difende gli infermieri Antonio De Vita e Maria Carmela Cortazzo, il quale ha ribadito che l'ordine della contenzione è partito dai medici di reparto e che l'applicazione delle fascette di contenzione è stata ritenuta evidentemente necessaria dagli infermieri per impedire a Mastrogiovanni di cadere dal letto, considerato il suo stato di agitazione.
Giovanni Laurito, difensore dell'infermiere Juan Josè Casaburi, assolto in primo grado per non aver commesso il fatto, ha ribadito l'estraneità ai fatti contestati del suo assistito.
A seguire, Claudio Mastrogiovanni, difensore di Raffaele Russo ha affermato che l'infermiere da lui difeso ha svolto bene il suo ruolo e che le cartelle cliniche erano tenute lontane dal luogo di cura, in una stanza lontana da quelle dei ricoverati, per cui gli infermieri non potevano accedervi.
L'avvocato Michele Avallone, difensore dell'infermiere Antonio Tardio, ha criticato l'atto d'appello dell'accusa e ha parlato, come aveva già fatto il suo collega Bellucci nella seduta del 26 giugno, di processo mediatico. In aula, a fianco dei familiari di Mastrogiovanni, erano presenti rappresentanti di Acad (Associazione contro gli abusi in divisa) e Gianfranco Malzone, fratello di Massimiliano, anche lui cilentano come Mastrogiovanni deceduto a seguito di un ricovero, in regime di TSO, presso il reparto di psichiatria di Polla-Sant'Arsenio, in situazioni poco chiare. Anche nel caso di Malzone il medico legale incaricato di eseguire l'autopsia è Adamo Maiese, lo stesso stimato professionista che eseguì l'autopsia sul corpo appartenuto a Franco.
Infine, dobbiamo segnalare con grande piacere che, nei primi giorni di agosto, in piazza Vittorio Emanuele a Vallo della Lucania, in concomitanza con il sesto anniversario della morte di Mastrogiovanni, il pittore Felice Pugliese ha dipinto la “pazzia” e il modo in cui viene recepita dal mondo. Pugliese, per disegnare usa solo un paio di lenti che, tenute ad una certa distanza da una tavola di legno, concentra i raggi del sole in un punto permettendogli di creare figure. La sua performance, che ha avuto il sapore di una dura critica al sistema dei ricoveri, ha suscitato grande interesse tra passanti e turisti.
Dopo quelle dello scorso 18 settembre e del 27 ottobre, le prossime udienze sono state programmate per i giorni: 3 e 6 novembre 2015.

Angelo Pagliaro
angelopagliaro@hotmail.com



Migranti/
Tra Isis e identificazione

Ciò che indigna è che il potere guardi alla gente che cerca riparo in Europa come se si trattasse di vittime di calamità naturali.
Giusto se l'esodo fosse causato da terremoti, tsunami ecc. che, se pur entro certi limiti prevedibili, necessitano dell'immediatezza di soccorsi, ma quest' esodo è tutt'altro che una calamità naturale. Questo ha alla base politiche delle quali si evita di indicare i responsabili. Questa differenza, poco decisiva per chi, intanto, si mette in salvo è fondamentale, invece, per chi, sia tra loro sia tra chi li accoglie, deve e vuole avere un ruolo positivo. Quando la causa della fuga è “naturale”, molti di coloro che fuggono e tutti coloro che li accolgono sanno che la causa avrà, in se stessa, un termine naturale e chi scappa, finita l'emergenza, vorrà tornare nella propria terra chiedendo ai soccorritori soltanto aiuti per ricominciare.
Ma un esodo di natura politica (e la miseria è sempre di derivazione politica) può aver fine per fatti altrettanto politici. Chi è scappato dalla Germania, dall'Italia o dalla Spagna o dalla Russia o dalla Cina, è tornato solo quando la situazione politica lo ha permesso (per gli ebrei ci son voluti migliaia di anni). Anche la fuga dalla miseria, non induce al ritorno raggiunta la semplice crescita economica (sic), se a questa non si aggiunge il cambiamento del fattore che ha generato la miseria.
Ora, né a loro né agli Europei viene detto se e quando potranno tornare nelle loro terre. Ma tacere non è privo di conseguenze. I popoli europei temono, non senza ragione, che il destino di buona parte dell'Europa si livellerà al presente degli emigranti se non cambierà la situazione politica nei paesi di provenienza. Questa presa di coscienza è tragicamente frustrante. È da questa frustrazione che nasce il senso di rancorosa impotenza che viene strumentalizzato contro gli incolpevoli profughi, ma mai contro i governanti europei che tacciono su quando, come e perchè finirà tutto questo. E nessuno ricorda che non è contro il sintomo che si deve combattere ma contro la malattia.
La protesta, male indirizzata, che vediamo disgustosamente crescere, si rende complice della politica che genera muri, arresti, morti ecc. Chi non vuole accettare questa complicità deve almeno denunciare le contraddizioni tra quello che i governi dicono e quello che veramente fanno.
C'è la guerra. Ci dicono che, perdurando, non si potrà fermare quest'esodo. Ci dicono che tutta la responsabilità è dell'Isis in certi posti, delle tribù in altri, dei dittatori siriani, iraniani, irakeni o dei russi. Ci dicono, però, che vogliono aprire trattative con i governi per il rimpatrio dei profughi ed anche di coloro che profughi non sono. (Come se non si sia profugo dalla miseria, freddamente indotta).
Ma dicono che vogliono combattere l'Isis. E come la vinceranno questa guerra:
- aiutando i turchi a bombardare i curdi, che hanno dimostrato di saperli contrastare e, soprattutto, di saper creare territori laici e democratici che attirano molti volontari dallo stesso medio oriente?
- esercitando, nei confronti dell'Iran, una politica di dissuasione promettendo la fine dell'embargo?
- aiutando i sunniti dello Yemen?
- non fermando i rifornimenti di armi all' Isis attraverso le democratiche Arabia Saudita, Qatar e Turchia?
- lasciando che i mercanti occidentali comprino il petrolio dall'Isis?
- accusando la Russia di mire espansionistiche, dopo che loro hanno invaso con i loro eserciti mezza Africa?
- non ostacolando l'esodo a pagamento che permette all'Isis, di sbarazzarsi di oppositori (se quelli che scappano fossero loro favorevoli non scapperebbero) e, forse, guadagnare con i trasporti?
Facilitare il depauperamento di quelle terre di giovani uomini e donne con un buon grado di istruzione e un barlume di formazione sociale laica (vedi Siria) è quello che serve? Va bene così? Non ci sono alternative? Se fosse vero il desiderio di creare in Africa le possibilità di democrazia e di vita, forse qualcosa di diverso da fare ci sarebbe. La gente che, pur di salvarsi, sfida la morte ogni giorno non sono turisti alla ricerca di buoni alberghi e luoghi ameni dove passare il resto della propria vita, come tendono a descriverceli i vari Salvini e Borghezi di turno. Sono gente giovane, spesso scolarizzata, e probabilmente, desiderosa di aver data una mano per aiutarli a creare una vita decente nei loro paesi.
Probabilmente, una forza armata multinazionale formata da una relativa minima quantità di operatori occidentali specializzati e da una quantità considerevole di profughi, potrebbe diventare decisiva per liberare e rifondare i loro paesi. Inoltre una forza militare autoctona avrebbe una forte capacità di attrazione verso i loro connazionali giovani uomini e donne. L'esperienza nelle guerre che man mano liberano i territori e ricostruiscono la vita, darebbe loro la possibilità di selezionare i futuri responsabili politici. È così successo in tutti i paesi che si sono liberati.
Questo progetto necessita di una selezione tra “coloro che arrivano” da fare nei paesi Europei di primo transito, come sul mare, organizzando corridoi protetti e centri di prima selezione. Va da sé che verranno, come oggi, famiglie intere da accogliere, non per farne ostaggi che costringano i combattenti ad essere fedeli e coraggiosi, ma per dar loro la sicurezza e la soddisfazione di sapere che finalmente rischieranno la vita per costruire qualcosa che vale e che, comunque, le persone a loro più care, saranno protette ed aiutate. In Europa la lotta partigiana ha insegnato che questo è possibile realizzarlo. L'Isis o i terroristi di tutto il mondo ci insegnano, quotidianamente, che, se motivati, addestrare in poco tempo ottimi combattenti è possibile.
Perchè nessuno propone qualcosa del genere? Eppure se si vuole un'Africa diversa è questa la strada da battere. Se no si avrà un Africa diversa, ma sarà quella del Califfato.
Si può credere che i “poteri” non sappiano quale sia la differenza tra una calamità naturale ed una tragedia politica indotta? E che non abbiano già contemplata una soluzione che però non viene comunicata forse perchè sanno che la cura è peggiore della malattia?
In verità ci hanno già descritto la direzione nella quale intendono muoversi. Per rimpatriare occorrerà stipulare trattati con governi, che dimostrino piena affidabilità. È stato già fatto con Gheddafi! I trattati c'erano, costavano un sacco di soldi, ma i rimpatri ed il fermo alle fughe erano realizzati. Non si accertava, naturalmente, che fine facessero coloro che rientravano o non partivano. Occhio che non vede... Soprattutto non provvede e non reca che scarsissimo turbamento nelle felici popolazioni europee e grande consenso politico per i governanti.
E chi potrà nel breve tempo, almeno in medio oriente, garantire il rispetto di trattati “liberamente” stipulati e finanziati? Si vede oggi una entità “affidabile” diversa dal Califfato? L'Arabia Saudita, il Qatar, la Turchia, in breve i nostri migliori amici, appoggiano già il califfato certamente non per vederlo sconfitto. Ma al di là della “totale accoglienza per i siriani”, ciò che turba molto è la fregola della Merkel di identificarli, tutti e subito.
Qualcuno spiega come funziona una operazione di identificazione internazionale? Stabilito che non si può credere a quello che ci dicono i migranti o ai documenti rilasciati dal dittatore Assad, bisogna svolgere indagini direttamente in Siria anche nella parte in mano all'Isis.
L' Europa ha affidabili canali diplomatici o di altra natura con l'Isis in quelle zone occupate? (andrà di moda chiamarle liberate). E se non li hanno questi canali, come fanno ad identificare? E comunque facciano, una volta identificati, come ne salvano la riservatezza per evitare che l'Isis ne venga a conoscenza ed eserciti nei confronti dei loro genitori (si vede dalle riprese televisive che sono per la quasi totalità giovani), dei loro parenti, dei loro amici, quel tipo di attenzione cui l'Isis ci ha abituati e che utilizza verso coloro che ritiene non siano accoliti fedeli?

Angelo Tirrito



”A” 400/ Qualcuno ne parla

Sul quotidiano “il manifesto” del 5 settembre è apparso questo articolo del vice-direttore Angelo Mastrandrea.