rivista anarchica
anno 45 n. 403
dicembre 2015 - gennaio 2016




Un futuro già presente

testo e foto di Orsetta Bellani

Mural nel Municipio Olga Isabel


Si conclude qui la serie di corrispondenze dal Chiapas iniziate nell'estate 2014 e uscite su ogni numero (a parte lo scorso). In quest'ultima puntata si parla di frugalità, produzione e sviluppo, buen vivir, immaginario alternativo.


Il parlottare di un gruppo di donne che sgrana pannocchie di mais mi scuote dal sonno. La notte non è ancora finita ma nella comunità c'è un via vai di persone come fosse pieno giorno. Alejandro1 mi spiega che quando il sole sorge bisogna già essere nei campi, in modo da poter interrompere il lavoro quando la calura non permette di continuare.
Mi invita a salire sul cavallo e ridiamo della mia goffaggine. Attraversiamo sentieri di terra rossa circondati da mucche e campi coltivati. Incontriamo persone a cavallo o a piedi, alcuni portano sulle spalle sacchi di mais o attrezzi da lavoro. Sorridono e alzano leggermente il bordo del cappello abbassando il mento, in segno di saluto.
Il terreno che la comunità coltiva collettivamente si arrampica su una montagna scoscesa. Alejandro mi spiega che non ci sono macchine, si semina e si raccoglie con metodi tradizionali.
Si tratta di una milpa, un agrosistema molto utilizzato presso i popoli indigeni mesoamericani e in cui si coltivano mais, fagioli e zucche. La dieta delle comunità indigene del Chiapas è composta quasi solo da questi tre elementi, non sono molte le famiglie che coltivano altri ortaggi, e mi chiedo perché l'organizzazione non promuova un'alimentazione più ricca e variata.
Alzo il bordo inferiore della maglietta per creare una saccoccia, che Alejandro riempie di chicchi di mais. Mi spiega che si semina affondando un bastone nella terra e, senza accucciarsi, si fa cadere un chicco nel solco che poi si ricopre con il piede. Mi porge il bastone e mi dice che devo camminare lungo una linea immaginaria facendo i buchi, uno dietro l'altro, ad una distanza di circa un metro. Non so se sarò d'aiuto, ma spero almeno di non fare danni.
Tutti lavorano duro ma nel frattempo chiacchierano, scherzano. Almeno una persona per ogni famiglia del villaggio lavora nel terreno che si coltiva collettivamente, e in assemblea decidono come gestire il raccolto.
Nelle comunità zapatiste il collettivismo, la reciprocità basata sulla mutua fiducia, è la relazione sociale basica2. Storicamente molti villaggi indigeni sono sorti in habitat ostili all'agricoltura e alla vita, come la selva o montagne che superano i 2mila metri sul livello del mare, luoghi in cui la solidarietà divenne necessaria alla sopravvivenza3. È quella che viene normalmente definita come “comunalità”.

“Siamo comunalità, l'opposto dell'individualità, siamo territorio comunale, non proprietà privata; siamo compartizione, non competizione; siamo politeismo, non monoteismo. Siamo intercambio, non commercio; siamo diversità, non uguaglianza, malgrado anche in nome dell'uguaglianza ci opprimano. Siamo interdipendenti, non liberi. Abbiamo autorità, non abbiamo sovrani4”.

Il lavoro collettivo è un collante che favorisce la costruzione di legami e socialità, di un senso di appartenenza a un gruppo e a uno scopo. Si tratta di un modo di gestire i rapporti lavorativi differente da quello presente nelle società capitaliste, fuori dalla logica di sfruttamento della manodopera. Il lavoro collettivo è, quindi, parte della resistenza e della lotta per l'autonomia, è la materializzazione del mondo differente che lo zapatismo costruisce con la sua prassi.
Spiega Roberto, integrante della Giunta di Buon Governo de La Garrucha:

“Il mal governo ha visto che non può distruggere l'autonomia. Perché? Perché sappiamo che sta nei nostri cuori. Quando la coscienza è matura, quando la coscienza non è debole, allora possiamo continuare a camminare lavorando in collettivo, tutti insieme, uomini, bambini, donne, anziani, tutti lavoriamo5”.

Verso le 11 il sole brucia e smettiamo di lavorare, si riprenderà nel tardo pomeriggio. Ci sediamo sotto un albero e mangiamo fagioli, tortillas di mais e uova, bevendo Coca Cola. Le bibite non mancano mai nelle comunità zapatiste, spesso anche in luoghi così isolati da chiedersi come facciano ad arrivarci.
Mi sento bene. Chiudo gli occhi e godo del sole che mi scalda, mentre un vento leggero muove le nuvole rade. Guardo la loro ombra correre sulle montagne verdi di prati, pascoli e campi di granoturco. Penso che domani tutto questo finirà, tornerò alla città.
Lascerò questa pace per il caos, ma finalmente dormirò in un materasso morbido, con un piumone caldo. Non mi dovrò tirare addosso secchiate di acqua fredda per bagnarmi ma basterà aprire un rubinetto per farmi la doccia con acqua tiepida. Potrò leggere le notizie seduta di fronte al computer e nel supermercato davanti a casa comprare tutto quello che voglio; tutto quello che qui mi manca.
Osservo le persone intorno a me e non sembrano invidiare la mia vita, non desiderano tutto quello che possiedo e senza cui io non potrei stare. Mi chiedo come sia possibile e non trovo risposta.

“La frugalità è il tratto distintivo delle culture libere dalla necessità di accumulare. Al loro interno, le necessità quotidiane sono soddisfatte soprattutto da una produzione di sussistenza, e solo una piccola parte è stata comprata dal mercato. Ai nostri occhi le persone hanno poche cose – una capanna, qualche pentola e un vestito da mettere la domenica – e il denaro ha un ruolo secondario. Ma tutti hanno accesso ai campi, ai fiumi e ai boschi; la parentela e la comunità offrono i servizi che, in altri luoghi, devono essere pagati. (...) In un villaggio messicano tradizionale, ad esempio, l'accumulazione privata porta all'ostracismo sociale: il prestigio si raggiunge nello spendere in opere necessarie alla comunità. Malgrado queste persone appartengano alla “fascia a basso reddito”, nessuno patisce la fame. Tutto ciò si converte in “povertà” quando soffre la pressione di una società basata sull'accumulazione6”.

Cucina di una casa zapatista
Produzione e sviluppo

Il 20 gennaio 1949, nel suo discorso di insediamento alla Casa Bianca, l'ex presidente Harry Truman presentò una visione del mondo che avrebbe avuto molta fortuna. Il vincitore della Seconda Guerra Mondiale divise i paesi del pianeta tra un piccolo gruppo di “sviluppati” e una maggioranza di “sottosviluppati”, presto più gentilmente ribattezzati “in via di sviluppo”.
Il modello economico e sociale dei paesi occidentali, eretto grazie al capitale accumulato con lo sfruttamento coloniale, era presentato come l'esempio a cui aspirare. “A chi non piacerebbe essere come noi?”, sembrava chiedersi l'ex presidente statunitense.

“Riconoscersi come sottosviluppato implica accettare una condizione umiliante e indegna. Non si può più aver fiducia nel proprio naso; bisogna affidarsi a quello degli esperti, che ci porteranno allo sviluppo. Non è più possibile sognare i propri sogni: sono già stati sognati, i sogni degli “sviluppati” vengono considerati come se fossero i propri sogni, anche se poi si trasformano in incubi7”.

La dicotomia che attraversava il mondo dell'era Truman opponeva la produzione alla scarsità.
La “crescita economica” era la meta da raggiungere. Scarsità e sottosviluppo potevano essere superati seguendo ricette che avrebbero portato, per tappe, al decollo economico8.
Governi, istituzioni finanziarie internazionali, banche e organizzazioni non governative si sarebbero presi la briga di promuoverle e metterle in pratica. Gli esperti dello sviluppo avrebbero eliminato l'economia basata sull'intercambio e la proprietà collettiva dei paesi sottosviluppati per creare società di consumatori voraci. La capacità produttiva divenne il metro per misurare il grado di civilizzazione di una società9.
Gli Stati Uniti promisero di accompagnare con rispetto i paesi sottosviluppati nel loro processo di emancipazione. “Il vecchio imperialismo – lo sfruttamento da parte di esterni – non ha nulla a che vedere con le nostre intenzioni. Ciò che è un programma di sviluppo basato sull'idea di un negoziato giusto e democratico”, assicurò l'ex presidente statunitense durante il suo discorso di insediamento alla Casa Bianca.
La potenza nordamericana avrebbe aiutato i colonizzati a liberarsi dai colonizzatori, e promise che il progresso avrebbe ridotto la forbice tra i paesi “sviluppati” e quelli “sottosviluppati”. In realtà, se nel 1960 i paesi ricchi lo erano 20 volte in più di quelli poveri, nel 1980 erano 46 volte più ricchi. Dopo 20 anni di sviluppo, i poveri erano sempre più poveri10.
Ma la bontà del paradigma della produzione e dello sviluppo per decenni non venne messo in discussione nei paesi capitalisti. E neppure nel blocco socialista sovietico: produzione e sviluppo erano le parole d'ordine anche dall'altra parte del muro.

Alla ricerca del buen vivir

Furono altri governi socialisti11, quelli latinoamericani, a maturare per primi una riflessione sull'impossibilità di una crescita economica infinita, e sui danni ambientali irreversibili causati dallo sviluppo capitalista.
Nel decennio scorso la protesta sociale, in buona parte indigena, portò Evo Morales al governo della Bolivia e Rafael Correa a quello dell'Equador. A partire dalla svolta a sinistra entrambi i paesi approvarono nuove costituzioni (nel 2008 e 2009), che garantiscono come diritti alcune rivendicazioni storiche dei movimenti indigeni e contadini12. Negli anni seguenti molte organizzazioni indigene si sono distanziate dai due governi che accusano di non essersi, nella pratica, allontanati dalle politiche “sviluppiste” delle amministrazioni neoliberali precedenti, basate sullo sfruttamento massiccio delle risorse naturali13.
Le costituzioni di entrambi i paesi sudamericani affermano che il nuovo stato si basa sulla ricerca del buen vivir o vivir bien, termine che cerca di tradurre il concetto indigeno aymara suma qamaña, e il quechua sumac kawsay14.
Il buen vivir è un filosofia di vita presente nella cosmovisione e nelle pratiche dei popoli nativi americani, e si modella a partire dal contatto tra la cultura indigena ancestrale e la civilizzazione europea. Non esiste una definizione univoca di buen vivir, ogni cultura lo costruisce a partire della sua visione del mondo, ma presenta dei tratti comuni presso tutte le nazioni indigene15.
Si tratta di un concetto olistico che vede gli esseri umani stabilire fra loro relazioni di solidarietà e reciprocità, e vivere in integrazione ed equilibrio con la natura secondo una logica cosmocentrica piuttosto che antropocentrica16. Si ha buen vivir quando esiste armonia all'interno della famiglia e della comunità, quando si hanno salute, educazione e una casa dignitosa, quando vengono rispettate la propria cultura e le tradizioni.
Un concetto molto simile è presente anche nella filosofia greca, nell'Odissea di Omero come in Sofocle, Euripide e nell'Etica Nicomachea di Aristotele, secondo cui solo la saggezza che nasce dall'armonia con il mondo e gli altri esseri umani può portare alla felicità17.
Buen vivir non è vivere bene, ma è avere una vita degna, che dev'essere conquistata. Non è un'idea romantica di ritorno alla vita silvestre, ma una proposta politica che implica una critica al concetto di sviluppo e all'insostenibile stile di vita occidentale. Il buen vivir è uno strumento di resistenza all'estrattivismo capitalista, e sempre più frequentemente nei comunicati dell'EZLN. Nelle lingue e tzotzil dei maya del Chiapas, il concetto di buen vivir viene designato con il termine lekil kuxlejal.

Il lekil kuxlejal è la buona vita per antonomasia. Non è un'utopia perché non si riferisce ad un sogno inesistente. Il kuxlejal è esistito, si è degradato però non si è estinto, ed è possibile recuperarlo”18.

Il lekil kuxlejal non è azione soggettiva ma collettiva. Si manifesta nella vita comunitaria che tiene la sua base nell'assemblea, è il lavoro collettivo e la partecipazione alle feste, è difesa del territorio e resistenza a valori e modelli di vita non accettabili dalla comunità19.
Secondo l'antropologo Jaime Schlittler Álvarez del Centro de Investigaciones y Estudios Superiores en Antropología Social (CIESAS), il lekil kuxlejal è un orizzonte di lotta, per le comunità zapatiste e per tutti coloro che si battono per la propria autonomia. “Esiste una relazione tra l'idea di autonomia e la buona vita. Nel 1994, quando insorse in armi, l'EZLN presentò delle richieste allo stato, come garantire educazione e salute alle comunità indigene”, spiega Jaime Schlittler Álvarez20. “All'interno del loro percorso di lotta gli zapatisti trasformarono queste richieste in linee guida di quello che vogliono e stanno costruendo, che è l'autonomia. E perché la vogliono? Perché l'autonomia garantisce una buona vita, il lekil kuxlejal”.

Partita di calcio in una comunità zapatista
Un frammento, fragile ma tangibile

Il buen vivir dei popoli indigeni americani non propone solo una critica al concetto di sviluppo, ma offre un'alternativa alla crisi della nostra civiltà. Il modello attuale è arrivato a un punto di non ritorno, non sappiamo cosa verrà dopo, ma siamo chiamati a riflettere sul nostro ideale di buona vita e a muovere i passi a partire da esso. Dobbiamo immaginare le caratteristiche del nuovo mondo postcapitalista.
Come possiamo raggiungere la nostra idea di buen vivir, di una vita di qualità? Cosa va contro quest'idea? È possibile il buen vivir all'interno del sistema capitalista?

“La fine di un'era esige l'abbandono del tipo di pensiero nel quale ci siamo formati e il riconoscere che per centocinquanta anni siamo rimasti intrappolati nella disputa ideologica tra capitalismo e socialismo. Abbiamo smesso di pensare. (...) La cosa interessante è che, in vista del fatto che stiamo modificando le nostre relazioni con la scienza, il progresso e il potere, stiamo finendo in una situazione molto particolare, nella quale dobbiamo guardare verso il passato per incontrare risposte sul futuro21”.

Negli anni '70 nacque l'idea di un capitalismo rispettoso della natura e dei cicli naturali, il cosiddetto “sviluppo sostenibile”. Ma lo sviluppo è insostenibile per definizione: lo sfruttamento degli esseri umani e della natura è una delle caratteristiche fondamentali del sistema attuale e il buen vivir – allo stesso modo della decrescita resa celebre dal lavoro di Serge Latouche22 – è un progetto che non può muoversi al suo interno.
Fuori dal capitalismo quindi, ma anche fuori dalla città? Sembra infatti impossibile poter godere del buen vivir nei grandi centri urbani, in cui vive l'80% della popolazione mondiale. In questo caso, la sfida è pensare quale tipo di città vogliamo e come la costruiremo, dibattendo sulla funzione degli spazi pubblici e sul loro senso al di là dell'aspetto estetico23.
Occorre inoltre allontanarsi dall'idea di umanità caratteristica della modernità occidentale, di un essere umano interessato al solo interesse personale. Non si tratta di accogliere l'idea ingenua di un'umanità altruista e pacifica, ma di considerare che, come afferma Marshall Sahlins, la natura umana è un divenire culturale e come tale può essere modificata.
È necessario, in conclusione, costruire un immaginario alternativo al presente capitalista a partire dalle forme sociali già esistenti, e in opposizione a quelle che rifiutiamo. Scrive Jérôme Baschet:

“Iniziare a sognare e dibattere collettivamente quello che vogliamo costruire è parte del cammino. Un cammino che si fa camminando e si cammina chiedendo, con l'energia che ci muove verso ciò che ancora non è. (...) Esperienze come quella zapatista sono un frammento, fragile ma tangibile, di un futuro già presente24”.

Orsetta Bellani
@sobreamerica

Note

  1. Nome fittizio, per motivi di sicurezza.
  2. Dania López Córdova, La reciprocidad como lazo social fundamental entre las personas y con la naturaleza en una propuesta de transformación societal. In Boris Marañón Pimentel (a cura di), Buen Vivir y descolonialidad. Crítica al desarrollo y la racionalidad instrumentales, Universidad Autónoma de México, 2014, pag. 99-120.
  3. Raúl Zibechi, Il paradosso zapatista. La guerriglia antimilitarista in Chiapas, Elèuthera, Milano, 1998, pag. 45.
  4. Jaime Martínez Luna, Eso que llaman comunalidad, Colección Diálogos, Pueblos originarios de Oaxaca, Conaculta, Messico, 2010.
  5. Quaderni di testo della prima Escuelita Zapatista, Resistencia autónoma, pag. 45. I quaderni si possono scaricare all'indirizzo http://anarquiacoronada.blogspot.it/2013/09/primera-escuela-zapatista-descarga-sus.html.
  6. Wolfgang Sachs, Planet Dialectics - Explorations in Environment & Development, Zed Books, Londres, 1999.
  7. Gustavo Esteva, Más allá del desarrollo: la buena vida. In América Latina en Movimiento (ALAI), 1 giugno 2009. Consultabile in www.alainet.org/es/active/38110.
  8. Pablo Dávalos, Reflexiones sobre el sumak kawsay (el buen vivir) y las teorías del desarrollo. In América Latina en Movimiento (ALAI), 5 agosto 2008. Consultabile in www.alainet.org/es/active/25617#sthash.bjQZPnmm.dpuf.
  9. Wolfgang Sachs, Planet Dialectics - Explorations in Environment & Development, Zed Books, Londres, 1999.
  10. Gustavo Esteva, Más allá del desarrollo: la buena vida. In América Latina en Movimiento, 1 giugno 2009. Consultabile in www.alainet.org/es/active/38110.
  11. Il cosiddetto “Socialismo del XXI Secolo”.
  12. Prevedono, ad esempio, il rafforzamento del ruolo dello stato nell'economia e garantiscono importanti diritti ai popoli indigeni: gestione autonoma del loro territorio, possibilità di esercitare il sistema politico e giudiziario indigeno e di partecipare dei benefici dello sfruttamento delle risorse naturali presenti nei loro territori.
  13. Pablo Stefanoni, Evo, “el modernizador”. In settimanale Brecha, ottobre 2014. Consultabile in: http://www.sobreamericalatina.com/?p=1652.
  14. Cletus Gregor Bailé, Nuevas narrativas constitucionales en Bolivia y Ecuador: el buen vivir y los derechos de la naturaleza, Latinoamérica. Revista de estudios latinoamericanos, Messico, febbraio 2014. Consultabile in: http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S1665857414717247.
  15. Aldo Zanchetta, Il Buen Vivir come paradigma del mondo nuovo?, marzo 2013. Consultabile in: https://liberauniversitapopolare.files.wordpress.com/2009/11/il-buen-vivir-come-paradigma-del-mondo-nuovo.pdf.
  16. David Choquehuanca Céspedes, Hacia la reconstrucción del Vivir Bien. In América Latina en Movimiento (ALAI), febbraio 2010. Consultabile in: http://www.plataformabuenvivir.com/wp-content/uploads/2012/07/ChoquehuancaReconstruccionVivirBien2010.pdf.
  17. Olga Abasolo, Reflexiones sobre el concepto de buen vivir en la cultura occidental. Entrevista a Emilio Lledó, CIP-Ecosocial, Boletín ECOS n. 11, aprile-giugno 2010. Consultabile in: https://www.fuhem.es/media/cdv/file/biblioteca/Entrevistas/Entrevista_Emilio_Lledo.pdf.
  18. Antonio Paoli, Educación, autonomía y lekil kuxlejal: aproximaciones sociolingüisticas a la sabiduría de los tseltales, Universidad Autónoma Metropolitana (UAM) – Xochimilco, Ciudad de México, 2003.
  19. Jaime Martínez Luna, Eso que llaman comunalidad, Colección Diálogos, Pueblos originarios de Oaxaca, Conaculta, 2010.
  20. Intervista di Orsetta Bellani a Jaime Schlittler Álvarez, San Cristóbal de Las Casas, ottobre 2015.
  21. Gustavo Esteva, Antistasis. L'insurrezione in corso, Asterios, 2012, pag. 27 e 29.
  22. Secondo Serge Latouche, è necessario ristrutturare l'apparato produttivo e cambiare il modello di consumo per ridurre l'impatto dell'impronta ecologica, oltre a modificare il sistema di valori di riferimento della società, per crearne una basata sulla convivenza e sullo spirito del dono.
  23. Florencia Yanniello, Vivir bien en las ciudades, rivista Tinta Verde, 12 gennaio 2014. Consultabile in: https://tintaverde.wordpress.com/2014/01/12/debates-en-torno-al-extractivismo-y-el-buen-vivir/.
  24. Jérôme Baschet, Adiós al capitalismo, Futuro Anterior, Buenos Aires, Argentina, 2014, pag. 78-79.



Una riflessione di Eduardo Galeano

“Dov'è che pagano il reddito medio pro capite?
C'è più di un morto di fame che vorrebbe saperlo.
Dalle nostre parti, i numerini hanno miglior fortuna delle persone.
Quanti se la passano bene quando va bene l'economia?
Quanti ne sviluppa lo sviluppo?
A Cuba, la rivoluzione trionfò nell'anno di maggior prosperità
di tutta la storia economica dell'isola.
In America Centrale, più la gente era fottuta e disperata
più le statistiche sorridevano e ridevano.
Negli anni '50, '60 e '70, anni tremendi, tempi tumultuosi,
l'America Centrale vantava l'indice di crescita economica più alto del mondo,
il più rapido ritmo di sviluppo regionale nella storia dell'uomo.
In Colombia, fiumi di sangue intersecano fiumi d'oro.
Economia florida, anni di facili guadagni: al culmine dell'euforia,
il paese produce cocaina, caffè e crimini in grande quantità.

Eduardo Galeano

Eduardo Galeano, Il libro degli abbracci, Sperling&Kupfer, Milano, 2008