rivista anarchica
anno 45 n. 404
febbraio 2016


trasformazioni

Obiettivi e visioni

di Francesco Codello


Il rapporto tra la visione di una società futura e le strategie per realizzarla può sviluppare contraddizioni e problematiche all'apparenza insanabili.
Per riuscire ad uscire da questo impasse è bene porsi degli obiettivi che siano sempre concreti. Anche se, talvolta, limitati.


In un articolo del 1996 Noam Chomsky esemplificava in modo chiaro la differenza tra un “obiettivo” e una “visione” scrivendo: «Con visioni intendo la concezione di una società futura che anima quel che facciamo realmente, una società ove possa voler vivere un essere umano dignitoso. Con obiettivi mi riferisco alle scelte e ai compiti che sono alla nostra portata, che perseguiremo in un modo o in un altro, guidati da una visione che potrebbe essere lontana e indistinta». In questa breve ma efficace distinzione, sono contenute numerose questioni che sono sicuramente interessanti per le nostre riflessioni.
Innanzitutto appare chiaro che per chiunque si ponga il problema di sostenere e promuovere un cambiamento in senso libertario è indispensabile avere una visione. Questa si configura in qualche modo come una proiezione in un “altrove” dei desideri e delle aspettative del qui e ora. Si tratta pertanto di un tempo e di uno spazio che si disegnano come diversi da quelli nei quali stiamo vivendo oggi. Ma quanto condizionante e quanto invece indispensabile può essere agire secondo una visione? Condizionante sicuramente, indispensabile ancor di più. Una visione innanzitutto non è un progetto definito, né tantomeno un programma dettagliato: ci appare di più come un'utopia, un sogno dai contorni non specificati e delimitati, un'ipotesi a maglie larghe. Si tratta di un insieme di sentimenti e di situazioni concrete che ci appaiono in modo spesso sfumato ma non per questo indefinito e caotico.
La visione non ci turba, nasce da un desiderio profondo, si alimenta della speranza e del ragionamento consapevole. È però qualche cosa che non c'è compiutamente, talvolta ci appare lontana, persino impossibile e quindi anche non realizzabile. Questo aspetto, questa dimensione conturbante, può pesantemente condizionare e frustrare il nostro desiderio, fino all'abbandono e alla perdita della speranza. Dobbiamo pertanto essere consapevoli di queste dimensioni, talvolta contraddittorie, che ogni visione può indurre nei nostri pensieri. L'utopia allora non è tanto importante perché ci fa apparire quello che dovrebbe essere, o meglio quello che vogliamo, quanto, piuttosto, perché svolge un continuo lavoro di destabilizzazione in quello che viviamo quotidianamente.

Una prigione inconsapevole

Un altro aspetto importante sul quale riflettere è quello relativo all'analisi che il soggetto compie rispetto alla sua visione, cioè a quanto di condizionato e di determinato dal qui e ora (la società esistente) è presente nella nostra proiezione. Insomma fino a che punto il nostro immaginario sociale si può liberare da se stesso quando pensiamo e immaginiamo l'altrove.
Perché una visione non diventi una prigione inconsapevole e un'ipoteca messianica della nostra vita, è indispensabile porsi queste domande, mettere in discussione e a prova della verifica questa proiezione. Non è certamente inseguendo un'impostazione millenaristica o escatologica che possiamo garantirci un'idea “altra” che ci aiuti veramente nel processo di auto-emancipazione e di auto-liberazione.
Infine non è pensando e abbandonandosi compiutamente a questa visione che possiamo sperare nel cambiamento della nostra condizione di sofferenza e di frustrazione. Appare sempre più necessario, nonostante tutto, veramente nonostante tutto, nutrire l'altra dimensione della vita, partendo da questa che stiamo vivendo. E se è indispensabile, nella dimensione della rivolta (Albert Camus), rompere con l'immaginario dominante, scardinare i limiti e i confini delle logiche del dominio nelle sue più svariate forme, è altrettanto qualificante liberare tutte quelle dimensioni positive e altruistiche che connotano le nostre relazioni e qualificano le nostre esistenze. L'odio e la violenza producono e alimentano se stessi, l'amore e la com-passione altrettanto. È fuor di dubbio che violenza e amore hanno un potere di contaminazione e di diffusione della propria pratica, quindi dobbiamo essere consapevoli di questa enorme responsabilità. La rivolta è l'azione necessaria e inevitabile, ma la degenerazione dei suoi effetti in nome di una visione autoritaria produce e ha prodotto i mostri del totalitarismo.
Quando si passa al tema del rapporto tra una visione e gli obiettivi, spesso nascono e si sviluppano contraddizioni e problematiche che appaiono insanabili. Se l'arroccamento nella proiezione può portarci all'impotenza o, peggio, all'isolamento elitario e inconcludente, l'enfasi esclusiva sull'obiettivo, può determinare una rottura radicale e incontrovertibile con la dimensione strategica dell'altro dal qui e ora. E qui gli esempi sono talmente tanti, ed evidenti a tutti, che appare persino superfluo elencarli ed evidenziarli.

Capacità e responsabilità etica

Nel nostro caso, nella tradizione consolidata del pensiero anarchico, siamo soliti, giustamente, ricorrere alla nota convinzione che fini e mezzi devono essere tra loro legati da una relazione coerente. Dato un certo fine, i mezzi che mettiamo in atto per perseguirlo devono contenere già le caratteristiche salienti del fine stesso. Il mezzo è un fine in potenza. Ma, se ciò in determinate situazioni è chiaro e facilmente definibile, in altre occasioni tutto questo è quantomeno più problematico e non così rigidamente connesso. E anche qui gli esempi sono molteplici e noti.
In questo caso ciò che fa la differenza è la capacità e la responsabilità etica del singolo e del gruppo che deve intervenire, nel prendere atto della contraddizione che si sta esprimendo e, al contempo, nel monitorare con continuità e con severità gli effetti che un determinato mezzo sta producendo. In questo caso, mi pare utile una riflessione fatta da Paul Goodman quando scrive: «Supponi di aver fatto la rivoluzione di cui stai parlando e che sogni. Supponi che la tua parte abbia vinto, e che tu abbia quel genere di società che volevi. Personalmente, come vivresti in quella società? Comincia a vivere in quel modo adesso! Qualunque cosa faresti allora, falla adesso. Quando ti imbatti in ostacoli, persone o cose che non vogliono lasciarti vivere in quel modo, allora comincia a pensare a come potresti superare o aggirare quell'ostacolo, o a come potresti spingerlo fuori dalla strada, e la tua politica sarà concreta e pratica».
Ci sono situazioni però che appaiono difficilmente comprensibili e, soprattutto, modificabili in senso libertario, non tanto se collocate nello spazio e nel tempo della visione, quanto in quello dell'adesso e ora, come il dover rispondere a domande precise, il dover scegliere comportamenti immediati nei confronti di altri, con i quali condividiamo lavoro, amicizia, frequentazione, svago, ecc. In questi casi allora che fare? Come prendere posizione, in che modo reagire? Talvolta siamo costretti a mettere in atto una resilienza più che una resistenza, siamo propensi ad aderire a una condizione di compromesso che non ci appare per niente soddisfacente, ma che diviene di fatto inevitabile. Quante volte, ogni giorno, ci troviamo in situazioni di questo tipo e quante volte sentiamo una profonda insoddisfazione interiore e un bisogno di ribellarsi a tutto ciò! Ma lo stesso agiamo, viviamo, intrecciamo relazioni, subiamo sconfitte e accumuliamo frustrazioni e, allo stesso tempo, non fustighiamo la nostra visione!

Dare voce alla disobbedienza

Tracciamo il limite, ecco ciò che facciamo in questi casi. Tracciare il limite significa essere consapevoli che c'è un momento, uno spazio, un tempo, oltre il quale non possiamo e non vogliamo andare. Significa impegnare la nostra coerenza a definire concretamente il limite di sopportabilità del dominio e della contraddizione, in pratica vuol dire trasformare la resilienza in resistenza e dire no. Non è facile, non è sempre automatico, ma è necessario.
Tracciare il limite, come ci suggeriva proprio Paul Goodman, è dare voce alla disobbedienza, liberare la nostra energia, non soccombere all'asfissia del dominio e del servilismo. Questa azione, però, da sola non è sufficiente se non si accompagna a una di pari intensità ma collettiva. Ma, molto si può fare per segnare obiettivi concreti, seppur limitati, ma che sono, nella vita di ogni giorno, gli unici che ci permettono di vivere dignitosamente la nostra approssimativa autonomia e libertà. Perché, in fondo in fondo, aveva ragione Alexander Herzen quando scriveva: «Una meta che si situi infinitamente lontana da noi, non è una meta, è una mistificazione».
Noi abbiamo bisogno sempre di raggiungere degli obiettivi che vadano nella direzione di avvicinarci a una maggiore libertà e a una più compiuta uguaglianza. Ne abbiamo bisogno ora e questo non ci impedirà di mantenere, e anzi di potenziare, la nostra visione. Perché non c'è solo una lotta, ci sono tanti luoghi e tanti tempi nei quali è possibile tracciare il limite.

Francesco Codello