rivista anarchica
anno 46 n. 405
marzo 2016


diserzione

Io la penso così

di Silvia Papi, Santo Barezini, Agostino Manni, Andrea Papi


A quattro nostri collaboratori abbiamo chiesto un parere sulle testimonianze dei renitenti, pubblicate in questo dossier.
Sono venute fuori opinioni anche tra loro differenti.
Se altre/i lettrici/lettori vogliono dire le loro, il nostro indirizzo è questo.


L'ignoranza, spartiacque tra ricchi e poveri

di Silvia Papi

Niente di nuovo mi veniva da dire leggendo... e la lettura mi riportava immagini di Full metal Jacket, quel grande film di Stanley Kubrick del 1987 ambientato in un campo di addestramento per marines dove un gruppo di giovani viene addestrato ad uccidere nella guerra in corso allora - 1960/1975 - tra Stati Uniti d'America e Nord Vietnam. Son passati più di quarant'anni e poco è cambiato, perlomeno nella sostanza dei fatti che quel film denunciava, quella di un paese dove le guerre fanno girare l'economia (solo negli Stati Uniti?) e falsità ed ipocrisia costituiscono la strategia diffusa per giustificarle. L'altra faccia del buonismo americano che un altro regista, David Lynch, ha mostrato in maniera magistrale in diversi suoi film: il retro, il lato oscuro della provincia americana, quell'enorme territorio dove agisce la propaganda per reclutare soldati.
Questa è una delle grandi contraddizioni del nostro tempo - la tragedia ma anche, forse, l'opportunità - cioè che si compiono le peggiori nefandezze e le più acute denunce delle stesse senza che nulla cambi. Come se fossimo inscritti in una macchina che rigira tutto in continuazione creando un miscuglio nel quale poi si fa fatica a districarsi e distinguere le sfumature per capire come comportarsi.
Eppure penso che si possa sempre trovare il modo di comprendere, di tessere i fili che collegano le esperienze, personali e collettive, nella storia più recente e non solo. Lo possiamo fare anche provando a non assolutizzare e osservando il continuo mutare degli eventi così da riflettere sul come e perché non si è potuto/non si può – non si è voluto/non si vuole – modificare almeno in parte lo stato di cose dove la guerra viene aborrita con le parole e sostenuta con i fatti.
Ma cosa succede allora? Succede che le generazioni si susseguono e la memoria del passato evidentemente perde forza in un contesto sociale che alimenta l'ignoranza per creare un terreno fertile alla propaganda: “gli spot pubblicitari funzionano davvero per adescare i giovani. Come me, che pensavo che l'esercito non fosse una macchina da guerra ma solo un posto per fare qualche soldo [...] Allora espressi le mie idee, e per tutta risposta mi dissero di smetterla di pensare così tanto.”
L'ignoranza - e non solo negli Stati uniti - è lo spartiacque tra ricchi e poveri che si è provato a colmare in quel breve periodo storico che sono stati gli anni ‘60/70, e che, di nuovo, le politiche sulla scuola, ad es., stanno allargando a vista d'occhio. È sui poveri, ignoranti e frustrati che attecchiscono le peggiori ideologie, per cui credo – e le testimonianze di questi ragazzi disertori non fanno altro che confermare – che l'unico antidoto che abbiamo per combattere violenza, razzismo e ingiustizie di ogni genere (compreso il militarismo travestito da “arrivano i buoni”, stile far west, che l'America ha costruito come propria immagine) sia la cultura e che l'impegno vada messo lì, in una cultura alternativa a quella finta e massificata, dove ognuno possa trovare gli strumenti utili a ricercare la propria identità e dignità.
In questo senso all'interno della tragedia ci sono ancora opportunità da non perdere e su cui è imperativo ingegnarsi per insistere e far sì che qualcosa cambi.

Silvia Papi



Ma non criticano l'esistenza degli eserciti

di Santo Barezini

Nel 1940 William Thompson, classe 1912, insegnante di latino e greco a Londra, rifiutò la coscrizione dichiarandosi obiettore di coscienza. Subì per questo vari processi e l'ostracismo di parenti, amici e colleghi. La sua non era una posizione facile, in Europa imperversava il nazifascismo, l'Inghilterra era sotto attacco e in quei giorni il postino gli recapitò una cartolina anonima con su scritto: “I codardi sono già morti molti anni prima di morire”. Nel 1996, quando ho avuto la fortuna di conoscerlo, ancora la conservava, assieme a tanti altri ricordi di una vita lunga, coraggiosa, ricca di umanità.
Il disertore è davvero una figura tragica nella nostra cultura: disprezzato da quasi tutti, specialmente da chi in guerra non deve andare. Accusato di tradire la patria per vigliaccheria, il disertore rifiuta di uccidere e di morire per la causa che il suo governo ha deciso essere superiore alla vita di tanti. Mette così in crisi i miti fondativi, rompe con la cultura militarista che chiede ubbidienza cieca, infrange, spesso inconsapevolmente, il mito dell'eroe pronto all'estremo sacrificio.
Ma Thompson era tutt'altro che un codardo e il disertore, nel mio orizzonte ideale, non è affatto una figura tragica, umanissima semmai, perché nella follia della guerra, fra esseri umani che si scannano quasi sempre senza sapere perché il disertore, che sia spinto da alti principi morali o dalla semplice necessità di salvarsi la pelle, dal rifiuto di rendersi colpevole di un'inutile carneficina o dalla pura e semplice paura, prende una decisione, smette di essere una divisa, torna ad essere individuo.

Il grande inganno

Le testimonianze di questi disertori americani a mio parere sono davvero importanti perché non vengono da persone con una formazione etica e politica contraria alla guerra e al militarismo. Se per un qualche scherzo del destino mi fossi trovato io nella loro condizione, avrei osservato tutto con l'occhio critico di chi ha da sempre fatto una scelta, rigettando tutto ciò che riguarda il militarismo, la guerra, la violenza. La mia testimonianza sarebbe stata poco credibile.
I protagonisti di questi racconti provengono da una condizione assai diversa: chi trascinato da un ideale, chi spinto dall'interesse, tutti hanno scelto di partire, accettato la loro condizione, approvato le regole d'ingaggio, talvolta con entusiasmo. Tutti hanno seguito un percorso di formazione che ha costruito in loro la convinzione fortissima di star facendo la cosa giusta, per una giusta causa. Tutti sono andati con la determinazione di fare il loro dovere. La loro testimonianza è perciò tanto più credibile.
A dispetto del feroce indottrinamento essi hanno sviluppato una consapevolezza nuova, non si sono lasciati disumanizzare completamente, sono stati capaci di dare ascolto alla voce della coscienza, si sono ribellati a un meccanismo che non prevede ripensamenti e ne stanno pagando amaramente le conseguenze. Per tutto questo credo che questi disertori, che forse restano molto distanti dal mio modo di vedere, molto diversi da me, meritino rispetto, ammirazione e sostegno.
Da nessuna delle testimonianze qui riportate si avverte che questa esperienza abbia portato a scelte radicalmente pacifiste: credo che queste persone restino in genere convinte della necessità di difendere e servire il proprio paese in questo modo. Non criticano l'esistenza degli eserciti, non mettono in dubbio la liceità di invadere un territorio straniero, se il proprio governo lo ritiene necessario per difendere gli interessi nazionali. Ma essi si sono ribellati alla situazione concreta in cui si sono venuti a trovare, alle ingiustizie e alle atrocità di cui sono stati testimoni e protagonisti, ai crimini che il loro governo li costringeva a perpetrare, alle menzogne che, molti hanno intuito, nascondevano interessi assai diversi da quelli ufficiali. Questi ragazzi, partiti per un ideale o solo per garantire ai figli buoni studi e assistenza sanitaria, hanno rifiutato di farsi disumanizzare, di odiare il nemico in quanto tale e hanno continuato a vedere esseri umani simili a loro nella popolazione che, durante l'indottrinamento, avevano imparato a detestare. Essi dimostrano che, anche nella condizione più drammatica, è possibile ribellarsi, restare umani.
Queste testimonianze sono per me anche la conferma di quello che vedo ogni giorno qui negli Stati Uniti, dove abito da tempo: una società fortemente indottrinata, militarista, dove abili manovratori diffondono il germe di un patriottismo acritico che ben serve gli interessi di politicanti, industriali e militari. Qui, nelle grandi metropoli come nelle campagne più sperdute, milioni di bravi cittadini afflitti da bassa scolarizzazione, disinformati, acritici, stupidamente patriottici, sono ancora fortemente ancorati al mito americano e God Bless America resta il loro orizzonte. Anche quelli che fanno fatica ad andare avanti restano fermamente convinti che questo paese sia stato scelto da Dio per compiere una missione salvifica nel mondo. Gente che crede che l'America sia sempre schierata dalla parte giusta, che bombardi e invada per liberare altri popoli e portar loro la democrazia; facili prede dei falchi reclutatori, convinti della buona fede dei propri governanti e della perfidia di chiunque non sia amico degli Stati Uniti.
In sostanza queste testimonianze sono preziose per capire come funzionano certi meccanismi di indottrinamento in una società apparentemente libera e certamente complessa, ma anche fortemente irreggimentata e tesa alla conservazione del potere esercitato da quel complesso militar-industriale da cui già Eisenhower aveva messo in guardia nel 1961 e che da allora è divenuto assai più potente e onnipresente.
La lettura di queste vite spezzate è testimonianza delle conseguenze di una cultura che introietta nei suoi figli sentimenti patriottici fin dalla tenera età. Un training che inizia da piccoli con l'alzabandiera a scuola e continua da adulti con il costante instupidimento televisivo. Non mi sorprende quindi l'ingenuità dei tanti, partiti nella convinzione di andare a liberare un paese o a difendere il proprio da un fantomatico nemico e che, solo faticosamente, si sono resi conto che quella guerra era una truffa.
Mi inorridisce il sadismo che affiora nei ricordi dei disertori. È evidente da queste testimionianze che, a fronte di un esiguo numero di ribelli e dei molti che, pur non ribellandosi, sicuramente restano traumatizzati dai crimini che si trovano a commettere e testimoniare, l'esercito americano, come del resto ogni altro esercito al mondo, è un ricettacolo per i molti che vi trovano un ambiente ideale per mettere a frutto il loro sadismo distruttivo, senza doverne pagare le conseguenze. L'indottrinamento fa il resto cosicché fra gli invasori vi saranno sempre anche individui senza morale, senza principi, pronti a uccidere e distruggere per il puro piacere di farlo.
La società americana conferisce una grande importanza, nei rapporti quotidiani, alla sincerità e all'onestà. Dichiarare il falso ha conseguenze molto gravi e porta a una totale perdita di credibilità. Una bugia raccontata a scuola da uno studente, magari per coprire un compagno di classe, può portare a severi provvedimenti disciplinari. Mi colpisce allora pensare che la guerra in Afghanistan è stata fondata su presupposti debolissimi e quella in Iraq è nata dalla grande bugia sulle “armi di distruzione di massa” raccontata al mondo intero. L'ex presidente Bush, però, non ha mai pagato per le bugie raccontate alla nazione e al mondo intero, menzogne che sono costate tante vite umane e tanto dolore, compreso il dolore di questi disertori, la cui speranza è andata delusa e la vita distrutta. Perché Bush non ha pagato e non è stato disonorato? Dov'è finita in questo caso l'indignazione? Questi disertori sono testimonianza anche di questa ingiustizia del mondo: i potenti non pagano quasi mai per i loro enormi crimini.
William Thompson rifiutò la divisa e le armi ma era tutt'altro che un vigliacco. Ad ogni nuovo bombardamento si aggirava per le vie di Londra, sotto una pioggia di fuoco nazista, a estrarre feriti dalle macerie. Tante furono le prove del suo coraggio e tante le vite umane salvate. Difatti, alla fine della guerra, quando, licenziatosi dal suo incarico, era in procinto di partire per l'Italia come volontario per la ricostruzione, gli stessi colleghi che gli avevano spedito quell'infame cartolina gli fecero una gran festa di saluto e gli regalarono una macchina fotografica, affinché testimoniasse gli orrori della guerra. Anche quella la conservò fino all'ultimo giorno della sua lunga vita. Penso che non sarebbe troppo contrario a passarla come testimone a questi giovani disertori che hanno preferito la galera o l'esilio al continuare ad esser parte di una menzogna assassina.

Santo Barezini



Storie praticamente identiche

di Agostino Manni

Ho letto un libro, qualche anno fa, che parlava di una storia simile: era una specie di racconto, scritto da un altro di questi giovani disertori nordamericani. Il libro, nella versione italiana, si intitola proprio così, “Il racconto del disertore”; l'autore, Joshua Key, è nato a Guthrie, Oklahoma, nel 1978, nel cuore dell'America “rurale e conservatrice”, e qui è cresciuto, “tra baracche e roulotte, tra famiglie frantumate e aggrappate a lavori incerti”. Finché si è arruolato, nel 2002, per “imparare un mestiere, ottenere uno stipendio fisso” e garantire alla sua famiglia (moglie e tre figli) “l'assistenza sanitaria”.
Un anno dopo Joshua è in Iraq, con una compagnia del Genio militare, convinto di ciò che gli raccontano il suo presidente (Bush) e i suoi superiori, e cioè che “...qualcuno deve liberare il mondo dalle armi di distruzione di massa...qualcuno deve deporre il malvagio tiranno Saddam Hussein...qualcuno deve salvare il mondo dai terroristi che stanno... minacciando la nostra vita.”
Quando parte per l'Iraq, Joshua è convinto che per lui è “un dovere” fare la sua parte e “farla il prima possibile, per non lasciare il problema in eredità” ai suoi figli.
Qualche mese dopo, durante una licenza, diserta, stanco di assistere a continue morti e violenze, percependosi come un “criminale”, sentendosi il “braccio senza testa di una strategia insensata e tragica”.
Credo che oggi Joshua viva in Canada, paese al quale ha chiesto il riconoscimento dello status di “rifugiato politico”.
La cosa che più mi colpisce delle storie di questi ragazzi e di queste ragazze è che, il più delle volte, queste storie sono praticamente identiche: dietro la loro scelta di arruolamento c'è spesso un disperato bisogno di ruolo sociale, di lavoro, e di soldi; c'è il sogno dei privilegi concessi dall'esercito (”la paga regolare, la possibilità di viaggiare, la casa gratis, l'assicurazione sanitaria gratuita”), e c'è un reclutatore o una reclutatrice che facilmente li convince. Anche perché, il più delle volte, questi ragazzi e queste ragazze hanno già la testa piena delle menzogne che raccontano i media. E, il più delle volte, i media raccontano tutti le stesse.
Quando poi si trovano davanti al sangue e allo schifo, questi ragazzi e queste ragazze cominciano a riflettere: la loro dignità li spinge a rifiutarsi, a fuggire, la loro coscienza li convince ad opporsi al potere e alla violenza.
Quando avevo vent'anni, ho rifiutato di svolgere il servizio militare, che all'epoca in Italia era obbligatorio: mi hanno “punito”, e mi hanno condannato a scontare un po' di galera.
All'epoca io ero un ragazzo fortunato: non avevo una famiglia (non avevo figli, fondamentalmente), non avevo veramente bisogno di soldi, non avevo veramente bisogno neanche di un lavoro, e l'assistenza sanitaria me la garantivano i miei genitori, che lavoravano e pagavano le tasse.
Ascoltavo anch'io le menzogne che raccontavano i media e, anche se in Italia non c'erano i reclutatori (perché la coscrizione era obbligatoria, e non c'era nessun bisogno che qualcuno ti convincesse ad arruolarti), eravamo comunque tutti circondati da una mentalità autoritaria, guerrafondaia e razzista.
Ma, come ho già detto, io sono stato un ragazzo fortunato: fortunato, anche, a sentire per tempo qualche altra campana, qualche campana stonata (nel coro dei più) che mi ha fatto riflettere, e mi ha aiutato a capire.
Così oggi questa è diventata, se così si può dire, una delle mie “fissazioni”, uno dei miei impegni quotidiani: diffondere, cioè, attraverso le mie scelte e le mie pratiche (attraverso la mia vita di tutti i giorni, in altre parole) una cultura antimilitarista e antiautoritaria.
L'idea è che così, magari, in futuro, qualche altro ragazzo e qualche altra ragazza non avranno bisogno di vedere il sangue e lo schifo di una guerra per capire che una guerra è sempre e solo - sempre, e solo - devastazione e morte, e che solo dei criminali possono avere interesse a farla.

Agostino Manni



Disertare non solo il militarismo, ma anche...

di Andrea Papi

Le testimonianze qui riportate fanno emergere con grande evidenza come la ragione fondamentale per cui queste persone abbiano disertato risieda nel fatto che si sono sentite ingannate, osservando la realtà che avevano attorno e riflettendo sulle condizioni in cui si trovavano immerse. A un certo punto hanno preso coscienza che le ragioni per cui si trovavano lì a combattere, a uccidere arabi e iracheni, non erano quelle che erano state loro raccontate al momento del reclutamento prima e dell'addestramento poi. Quasi tutti denunciano un senso di smarrimento e totale incomprensione dei veri motivi per cui dovevano combattere una guerra cui si sentivano del tutto estranei, per conto di uno stato nei confronti del quale avevano maturato indifferenza. Alcuni hanno perfino la netta impressione di non stare neppure combattendo contro il terrorismo, come era stato loro raccontato, ma di trovarsi lì per conto di qualcuno o qualcosa totalmente sconosciuti. Dicono chiaramente di non sapere perché sono li.
Ciò che trovo interessante è proprio questo coro, praticamente unanime, che sostanzialmente identifica lo stato come un'associazione dedita a truffare i suoi cittadini, al fine di usarli per scopi che non dichiara, anzi dichiarandone altri che poi i cittadini stessi non trovano corrispondenti alla realtà delle cose.
Io penso che tutto ciò sia molto veritiero e traduca una rappresentazione realistica del rapporto che le istituzioni statali hanno nei secoli instaurato con gli individui loro sottoposti. Di fatto queste istituzioni non rappresentano nessuno se non se stesse, mentre operano per conto di poteri che frequentemente agiscono occultamente e in modo truffaldino, quasi sicuramente perché i loro interessi, oltre a non collimare sono in realtà antitetici a quelli di tutti noi. Chi comanda e s'impone di conseguenza è nostro nemico. Non agisce per il “bene comune”, come continuano a raccontarci, mentre complotta alle nostre spalle per truffarci ed espropriarci della nostra vita.
Ecco perché è giusto disertare, non solo rispetto al militarismo, ma a tutta la condizione sociale e antiumana continuamente imposta dai poteri egemoni.

Andrea Papi