rivista anarchica
anno 46 n. 406
aprile 2016


società

Libertà: metamorfosi del senso

di Andrea Papi


È in atto un'offensiva di regressione culturale su più fronti. Gli autoritarismi - vecchi e nuovi - sono sempre in agguato. E i mezzi che utilizzano sono sofisticati e non sempre facili da identificare.


Mentre nel mondo stanno aumentando situazioni e contesti liberticidi, accresciuti da un sistematico ampliamento di circostanze e ambiti di guerra, nella percezione generale il problema della libertà sembra sempre più intricato, a tratti enigmatico. Il suo significato, per ogni anarchico elemento imprescindibile e sostanziale di chiarezza, purtroppo viene percepito in maniere spesso fumose o contrastanti. Una giungla significante che determina appositamente caos psicologico e mentale, soprattutto per gli influssi insinuanti di vari tipi d'imbonitori semantici, facitori di spot e non pochi mestieranti della politica in primis. Se rispetto al senso ci sono confusione e obnubilamento, non chiarezza problematica, il potere dei profittatori delle nostre esistenze non può che esultare e non può essere contrastato con efficacia.
Mi soffermerò brevemente su due elementi emblematici dell'oggi. Uno è un tipico esempio di classica limitazione della libertà. Pur obsoleto per i contenuti che veicola, conserva una vitalità sorprendente, probabilmente per la “reazionarietà” pervicace dei suoi sostenitori, assimilabile a un conservatorismo clericale di vecchio stampo. L'altro si colloca all'opposto nelle frontiere post/censorie, che vorrebbero proporsi più efficaci nell'annichilimento del pensiero e della libertà di scelta, superando la classica dimensione repressiva per approdare a forme di annessione e subordinazione seduttive, non più coattive in senso stretto.

Paradossi conservatori

Il primo è inerente alla polemica che si è scatenata attorno al ddl Cirinnà, in particolare rispetto alle problematiche relative alla “surrogazione di maternità”, più diffusamente nota con la dicitura “utero in affitto”. Nonostante in Italia sia vietato e la Cirinnà non lo preveda, si è scatenata una canea senza fine, il cui significato più sottolineato è che non si può incentivare una presunta “mercificazione del corpo della donna e del bambino”. Un bailamme ben presto divenuto parossistico, che ha raggiunto il paradosso nel momento in cui la reazione conservatrice ha invocato a gran voce la libertà e la liberazione dalla mercificazione. Tra il pubblico fruitore di un tale pollaio è così diventato difficile raccapezzarsi su chi effettivamente si vuole imporre e chi invece ha veramente voglia di libertà.
La “surrogazione di maternità” in pratica si ha quando una donna si presta a portare a termine un'intera gravidanza, fino al parto, su commissione di single o coppie incapaci di generare o concepire un bambino. La confusione, guarda caso soprattutto italiana, è incentivata dal fatto che ogni stato, tra quelli che l'ammettono, affronta la questione in modo diverso. Per alcuni si può ospitare il bambino solo in forma altruistica, per altri anche guadagnandoci, alcuni la ammettono solo per le coppie eterosessuali sposate, altri anche per omosessuali e donne single.
Nel mondo non c'è quindi un approccio univoco, ben identificabile, lasciando spazio a diversità di genere e differenziazioni morali che vengono intese come offensive dai monocrati sostenitori di un'etica clericale conservatrice. Questi vorrebbero inchiodare la molteplicità delle visioni umane a un unicum definito secondo i criteri di conservazione della famiglia monogama eterosessuale, pretendendo che sia l'unica “naturale” ed eticamente sana. Le statistiche sociologiche stanno invece mettendo in grande evidenza come questo stereotipo famigliare sia profondamente in crisi e rispecchi ben poco i criteri che gli vengono attribuiti.
Nonostante sapessero perfettamente che il ddl Cirinnà lo escludeva, questi autoproclamatisi “tradizionalisti” sostenevano di temere che con l'articolo 5, che proponeva la stepchild adoption, cioè la possibilità per le coppie gay di poter adottare un figlio già avuto da uno dei due componenti in una precedente relazione, si sarebbe aperto un varco giuridico pericoloso, capace di spianare la strada al temuto “utero in affitto”. Per contrastarlo hanno accampato l'accusa, infamante e in malafede, di voler legalizzare la mercificazione dei corpi materno e filiale. Innanzitutto non è affatto vero che una “surrogazione di maternità” si debba per forza ottenere attraverso il commercio di uno scambio monetario. In Canada e nel Regno Unito per esempio è consentita solo in “forma altruistica”, cioè come donazione. In ogni caso comunque tra chi richiede e chi concede c'è accordo consenziente, su base di reciproca comune volontà. Invece, come succede in Italia, la compravendita dei corpi è favorita proprio perché è una pratica clandestina condotta per lo più all'estero.
Ciò che trovo più sconcertante è che una tale questione, accampata ipocritamente in nome della libertà, venga sollevata per la maternità surrogata, non in vigore nel nostro paese, quando la mercificazione del corpo è sistematica, consentita e non contestata, se non qualche volta e in modo episodico, in altri ambiti di normale fruizione sociale. La pubblicità in questo senso è un'autentica regina. In tv, sul web, nei cartelloni pubblicitari, in ogni dove possa essere insinuato, l'uso del corpo della donna, più raramente quello maschile, viene propinato per solleticare appetiti e invogliare a comprare e consumare prodotti. Una mercificazione costante e sistematica dei desideri e dei corpi, base delle relazioni commerciali, delle vendite di ogni tipo, degli scambi finanziari.
Questo è il vero schifo, la più profonda corruzione morale e umana. Ma rispetto ad essa non vedo nessuna rivolta. Anzi, i “crociati del no all'utero in affitto” vanno volentieri a sputare le loro sentenze in programmi televisivi costantemente interrotti dalla pubblicità, dove il corpo è tranquillamente esibito, usato e commercializzato.
Il secondo elemento è inerente a uno spot pubblicitario della Tim, costantemente sparato a tutti i livelli in ogni dove. Nell'offrire un universo televisivo sconfinato, senza limiti (parole cadenzate durante lo spot), a un certo punto sottolinea con vera enfasi: “le nuove tecnologie ti stanno dando la libertà di non dover scegliere”. Appena l'ho sentito ne sono rimasto colpito perché ribalta di 180 gradi l'impostazione originaria del concetto di libertà caro a tutti noi. Una delle prime cose che ho infatti imparato aderendo alle idee anarchiche è che la libertà più importante è quella di scelta, che si esercita liberi da vincoli e obblighi di qualsiasi tipo.

Regressione culturale

In questo spot al contrario la libertà di scelta viene presentata come un peso, una specie di catena che crea impedimenti. Tim allora si offre per alleggerirti proprio di quel peso, presentato come “terribile”, e con enfasi garantisce la libertà di non dover scegliere. Da notare la finezza della “scelta” diventata “dovere”, pesantissimo perché smette di essere una possibilità. Con Tim potrai librarti felice, senza responsabilità e senza sentirti costretto a scegliere, mentre qualsiasi scelta sarà fatta da lei per te al posto tuo. Se pensiamo che la libertà di scelta è una delle basi fondanti di ogni democrazia e di qualsiasi condizione libertaria, si rimane allibiti da questo colpo di spugna che vorrebbe riportarci a quando scegliere era proibito, quando la volontà individuale non contava nulla perché feudatari, monarchi, preti e chiunque si ponesse al di sopra degli altri erano gli unici a poterlo fare, per se stessi e per tutti i loro sottoposti. La stessa modernità si fonda sulla conquista della scelta come possibilità reale e concreta.
Sono due momenti emblematici che mostrano come sia in atto un'offensiva di regressione culturale. Avvolti da una suadente sofisticazione tecnologica, ci si vorrebbe riportare al clima di quando veniva dato per scontato che l'individuo non aveva importanza perché ne aveva solo chi era legittimato a tirare le fila, o per censo o per prepotenza. L'uno ripropone l'antico vizio clericale per cui si può fare solo ciò che “io penso sia giusto fare”, base di ogni impostazione teocratica, dalla più blanda alla più terribile. Come a suo tempo ben sintetizzò Salvemini: “I cattolici rivendicano la loro libertà in base ai nostri principi (quelli laici) e negano le nostre libertà in base ai loro principi (quelli religiosi)”. L'altro tende a “sollevarci” dalle responsabilità, in nome di una leggerezza che nasconde la terribile insidia per cui “lor signori” si assumono le responsabilità per noi, per decidere al nostro posto, nella speranza di lusingarci e farci contenti nel cullarci con gli svaghi che ci offrono.
Anche dopo la sconfitta del fascismo la libertà continua ad essere in pericolo, perché gli autoritarismi vecchi e nuovi continuano ad essere in agguato con strumenti e mezzi sofisticati non sempre facili da identificare.

Andrea Papi
www.libertandreapapi.it