rivista anarchica
anno 46 n. 407
maggio 2016





Al confine tra città e periferia


In questa puntata della rubrica propongo una conversazione con Giuliano Santoro sui temi da lui trattati nel suo ultimo libro uscito per Alegre edizioni, un testo che sta al confine tra letteratura, reportage e ricerca sociale.

Come nasce l'idea di scrivere Al palo della morte? Spieghiamo ai lettori brevemente le tematiche centrali del testo.
Avevo raccontato per Il manifesto l'omicidio di Shahzad. Seguendo la storia di questa tragica uccisione ad opera di un ragazzo di Tor Pignattara, quartiere a sud est di Roma a cavallo tra periferia e gentrification, mi sono trovato a seguire il filo di diverse storie. Da quella morte, che tragicamente avviene nel contesto di uno scontro tra le diverse anime del quartiere, si possono osservare tendenze storiche e si può comprendere cosa stanno diventando le nostre città, il nostro vivere in comune. La storia della morte di Shahzad è la scintilla d'innesco di una macchina narrativa scostante e spiazzante, che divaga continuamente e si muove a cavallo del tempo e dello spazio.
Così nasce il libro, che è un Oggetto narrativo non identificato del Quinto Tipo, un testo ibrido che secondo il motto della collana punta a raccontare storie «con ogni mezzo necessario». Ove, per dirla con le parole del manifesto della collana scritto dal suo direttore, Wu Ming 1, «necessario è ogni mezzo che consenta alla narrazione di rimanere tale, senza sbordare e diventare un mero cut-up o una poltiglia di sintagmi». E l'ibridazione «dev'essere al servizio della storia che si vuole raccontare, deve porsi come obiettivi l'efficacia, l'empatia, la condivisione, e illuminare l'esemplarità di una o più vicende umane».

L'ho trovato un libro estremamente interessante, una specie di reportage della città invisibile, non solo il racconto di una morte tragica ma dal mio punto di vista una etnografia interpretativa su una Roma nascosta dai riflettori dei media, che metodo hai usato per costruire questo lavoro?
Mi sono trovato immediatamente di fronte a una vicenda – quella di Roma e del suo rapporto con “i poveri“, con le loro lotte e le loro asprezze – molto complessa, con epoche stratificate e miriadi di aneddoti ed eventi di cui rendere conto. L'effetto che volevo ottenere richiede un equilibrio molto difficile da raggiungere. Non sono un saggista e neppure un romanziere, sono una specie di ibrido. Tra i miei libri precedenti, ce ne sono due che costituivano precedenti utili, metodi dai quali attingere. Scrivendo, nel 2012, «Su Due Piedi» (sorta di reportage composto durante una camminata di trenta grioni per la Calabria: www.wumingfoundation.com/giap/?p=8338) mi ero reso conto che il territorio si può “leggere“ come un testo. E che questa operazione di lettura, se si vuole tenere conto della complessità della storia e delle storie, è frenetica. Più avanti, quando assieme a tre co-autori ho composto la «Guida alla Roma Ribelle» (http://www.voland.it/voland/scheda.aspx?titolo=489) ho imparato a tener conto della polifonia delle voci che vengono dalla metropoli. E quindi ho iniziato a scrivere questi frammenti, mettendo sulla pagina una specie di «ipertesto squadernato», che procede per analogie e differenze, spostandosi arbitrariamente.
Le tessere di questo mosaico tentano di restituire una storia tutt'altro che lineare: la narrazione procede a scossoni e non si può sintetizzare, ma presenta delle «risonanze». Per quanto si tenti di rimuover certi elementi, questi si ripresentano, seppure sempre in forme differenti e mutate. Accade fin dall'Unità d'Italia, anzi per certi versi dall'antica Roma: la dialettica centro-periferia, quello tra ribellione e consumo, tra crescita e speculazione, tra cultura popolare e gentrification, le retoriche securitarie e l'uso ideologico delle campagne contro il «degrado», lo svuotamento dello spazio pubblico e la sua invasione da parte di soggetti via via considerati «indecorosi», il razzismo prima verso i migranti interni (provenienti dal Sud Italia) e poi verso quelli che vengono da altri paesi.

Oltre ad essere una fantastica fotografia dei marginali della capitale l'ho trovata una vera e propria opera letteraria, mi ha incuriosito molto il tuo continuo rimando al cinema e mi hai fatto vedere sotto una differente luce l'opera di Carlo Verdone, cosa c'entra con il tuo libro?
In mezzo a questa pluralità di spunti, storie e voci il libro ha forse soltanto un vero filo conduttore: è una specie di reportage nella lingua, sulle parole che usiamo per definire le cose. E sulle dinamiche che queste innescano o ci aiutano a individuare. E allora, ragionando attorno all'iconografia pop di Roma e del «coatto» romano, non potevo tralasciare Pasolini (che lascia tracce di una scena evocativa dell'incompiuto «Petrolio» proprio a Tor Pignattara. Ma mi sono imbattuto anche in «Un sacco bello», film che come è noto deve moltissimo a Sergio Leone. In fondo, i tre episodi che compongono l'esordio di Verdone raccontano le storie di tre persone che, come Shahzad, cercano di fuggire dalla metropoli e dalle sue miserie: il fricchettone Ruggero in fuga dalla famiglia, l'ingenuo mammone Leo che deve andare a Ladispoli e il coatto Enzo, per l'appunto, che deve incontrare il suo compagno di viaggio per andare a Cracovia, carico di calze di nylon e penne biro. Si danno appuntamento «al palo della morte» che diventa nell'iconografia roman(esc)a la frontiera della metropoli.
Quell'espressione nel libro diventa metafora del confine, della sua natura arbitraria e soggettiva, frutto sicuramente di costruzioni culturali e storicamente determinate: trovo assurdo ad esempio che la narrazione dominante raffiguri il Pigneto come una specie di Tribeca, di parco a tema per radical chic e Tor Pignattara come una jungla urbana, quando è evidente che non è vera né una cosa né quell'altra. Ma chi stabilisce dove finisce uno e dove comincia quell'altro, chi traccia i «pali della morte» che separano questi due territori attigui. Ecco dunque il confine della città con la periferia come espressione di dinamiche di potere e rapporti di forza da decostruire e indagare anche dal punto di vista delle narrazioni. Ecco il filone delle storie evocate dalla morte di Shahzad.

Il libro non ci racconta solo le negatività di una zona «depressa» della città, ma anche le possibilità reali che possono emergere dal basso, hai voglia di farci qualche esempio?
Il libro non racconta le negatività di una zona «depressa» perché nonostante l'abbandono delle istituzioni, le difficoltà della crisi, le asprezze della strada, di tutto parla tranne che di «depressione» economica o psicologica! Le nostre città sono animate da una ricchezza di reti informali e circuiti solidali che spesso sono invisibili secondo i canoni tradizionali e operano sottotraccia e che prima e dopo la morte di Shahzad a diverso titolo si sono attivate per respingere l'attacco al quartiere e ripopolarne le strade. Una delle storie più rappresentative, a Tor Pignattara ma non solo, è quella della scuola elementare Carlo Pisacane, che è stata letteralmente assediata da politici e razzisti, messa sotto accusa per la sua composizione multietnica, che si dipingeva come un handicap. E invece, grazie all'impegno dei genitori e degli insegnanti in primo luogo, è diventata una scuola di eccellenza, un centro nevralgico per un pezzo di Roma, un laboratorio della città che verrà.

Ci sono dei colpevoli e non intendo gli assassini di Shazad, intendo che la marginalità viene creata e a Roma sono tanti gli esempi, tu nel tuo libro parti da lontano...
La storia della morte di Shahzad non poteva essere lasciata soltanto alla narrazione processuale, alla ricostruzione compiuta nelle aule di tribunale. Ci sono concatenazioni sociali dietro quella morte, elementi che nessun articolo del codice penale può cogliere. La tensione costruita attorno alle periferie in questi anni è il contesto che genera la tragedia: lo “stress test“ al quale in quei mesi di fine estate del 2014 Roma e l'Italia erano sottoposte tra emergenze sicurezza, allarmi terrorismo, paranoie da invasione.

Andrea Staid