Al confine tra città e periferia
In questa puntata della rubrica propongo una conversazione
con Giuliano Santoro sui temi da lui trattati nel suo ultimo
libro uscito per Alegre edizioni, un testo che sta al confine
tra letteratura, reportage e ricerca sociale.
Come nasce l'idea di scrivere Al palo della morte?
Spieghiamo ai lettori brevemente le tematiche centrali del testo.
Avevo raccontato per Il manifesto l'omicidio di Shahzad. Seguendo
la storia di questa tragica uccisione ad opera di un ragazzo
di Tor Pignattara, quartiere a sud est di Roma a cavallo tra
periferia e gentrification, mi sono trovato a seguire il filo
di diverse storie. Da quella morte, che tragicamente avviene
nel contesto di uno scontro tra le diverse anime del quartiere,
si possono osservare tendenze storiche e si può comprendere
cosa stanno diventando le nostre città, il nostro vivere
in comune. La storia della morte di Shahzad è la scintilla
d'innesco di una macchina narrativa scostante e spiazzante,
che divaga continuamente e si muove a cavallo del tempo e dello
spazio.
Così nasce il libro, che è un Oggetto narrativo
non identificato del Quinto Tipo, un testo ibrido che secondo
il motto della collana punta a raccontare storie «con
ogni mezzo necessario». Ove, per dirla con le parole del
manifesto della collana scritto dal suo direttore, Wu Ming 1,
«necessario è ogni mezzo che consenta alla narrazione
di rimanere tale, senza sbordare e diventare un mero cut-up
o una poltiglia di sintagmi». E l'ibridazione «dev'essere
al servizio della storia che si vuole raccontare, deve porsi
come obiettivi l'efficacia, l'empatia, la condivisione, e illuminare
l'esemplarità di una o più vicende umane».
L'ho trovato un libro estremamente interessante, una specie
di reportage della città invisibile, non solo il racconto
di una morte tragica ma dal mio punto di vista una etnografia
interpretativa su una Roma nascosta dai riflettori dei media,
che metodo hai usato per costruire questo lavoro?
Mi sono trovato immediatamente di fronte a una vicenda –
quella di Roma e del suo rapporto con “i poveri“,
con le loro lotte e le loro asprezze – molto complessa,
con epoche stratificate e miriadi di aneddoti ed eventi di cui
rendere conto. L'effetto che volevo ottenere richiede un equilibrio
molto difficile da raggiungere. Non sono un saggista e neppure
un romanziere, sono una specie di ibrido. Tra i miei libri precedenti,
ce ne sono due che costituivano precedenti utili, metodi dai
quali attingere. Scrivendo, nel 2012, «Su Due Piedi»
(sorta di reportage composto durante una camminata di trenta
grioni per la Calabria: www.wumingfoundation.com/giap/?p=8338)
mi ero reso conto che il territorio si può “leggere“
come un testo. E che questa operazione di lettura, se si vuole
tenere conto della complessità della storia e delle storie,
è frenetica. Più avanti, quando assieme a tre
co-autori ho composto la «Guida alla Roma Ribelle»
(http://www.voland.it/voland/scheda.aspx?titolo=489)
ho imparato a tener conto della polifonia delle voci che vengono
dalla metropoli. E quindi ho iniziato a scrivere questi frammenti,
mettendo sulla pagina una specie di «ipertesto squadernato»,
che procede per analogie e differenze, spostandosi arbitrariamente.
Le tessere di questo mosaico tentano di restituire una storia
tutt'altro che lineare: la narrazione procede a scossoni e non
si può sintetizzare, ma presenta delle «risonanze».
Per quanto si tenti di rimuover certi elementi, questi si ripresentano,
seppure sempre in forme differenti e mutate. Accade fin dall'Unità
d'Italia, anzi per certi versi dall'antica Roma: la dialettica
centro-periferia, quello tra ribellione e consumo, tra crescita
e speculazione, tra cultura popolare e gentrification, le retoriche
securitarie e l'uso ideologico delle campagne contro il «degrado»,
lo svuotamento dello spazio pubblico e la sua invasione da parte
di soggetti via via considerati «indecorosi», il
razzismo prima verso i migranti interni (provenienti dal Sud
Italia) e poi verso quelli che vengono da altri paesi.
Oltre ad essere una fantastica fotografia dei marginali
della capitale l'ho trovata una vera e propria opera letteraria,
mi ha incuriosito molto il tuo continuo rimando al cinema e
mi hai fatto vedere sotto una differente luce l'opera di Carlo
Verdone, cosa c'entra con il tuo libro?
In mezzo a questa pluralità di spunti, storie e voci
il libro ha forse soltanto un vero filo conduttore: è
una specie di reportage nella lingua, sulle parole che usiamo
per definire le cose. E sulle dinamiche che queste innescano
o ci aiutano a individuare. E allora, ragionando attorno all'iconografia
pop di Roma e del «coatto» romano, non potevo tralasciare
Pasolini (che lascia tracce di una scena evocativa dell'incompiuto
«Petrolio» proprio a Tor Pignattara. Ma mi sono
imbattuto anche in «Un sacco bello», film che come
è noto deve moltissimo a Sergio Leone. In fondo, i tre
episodi che compongono l'esordio di Verdone raccontano le storie
di tre persone che, come Shahzad, cercano di fuggire dalla metropoli
e dalle sue miserie: il fricchettone Ruggero in fuga dalla famiglia,
l'ingenuo mammone Leo che deve andare a Ladispoli e il coatto
Enzo, per l'appunto, che deve incontrare il suo compagno di
viaggio per andare a Cracovia, carico di calze di nylon e penne
biro. Si danno appuntamento «al palo della morte»
che diventa nell'iconografia roman(esc)a la frontiera della
metropoli.
Quell'espressione nel libro diventa metafora del confine, della
sua natura arbitraria e soggettiva, frutto sicuramente di costruzioni
culturali e storicamente determinate: trovo assurdo ad esempio
che la narrazione dominante raffiguri il Pigneto come una specie
di Tribeca, di parco a tema per radical chic e Tor Pignattara
come una jungla urbana, quando è evidente che non è
vera né una cosa né quell'altra. Ma chi stabilisce
dove finisce uno e dove comincia quell'altro, chi traccia i
«pali della morte» che separano questi due territori
attigui. Ecco dunque il confine della città con la periferia
come espressione di dinamiche di potere e rapporti di forza
da decostruire e indagare anche dal punto di vista delle narrazioni.
Ecco il filone delle storie evocate dalla morte di Shahzad.
Il libro non ci racconta solo le negatività di
una zona «depressa» della città, ma anche
le possibilità reali che possono emergere dal basso,
hai voglia di farci qualche esempio?
Il libro non racconta le negatività di una zona «depressa»
perché nonostante l'abbandono delle istituzioni, le difficoltà
della crisi, le asprezze della strada, di tutto parla tranne
che di «depressione» economica o psicologica! Le
nostre città sono animate da una ricchezza di reti informali
e circuiti solidali che spesso sono invisibili secondo i canoni
tradizionali e operano sottotraccia e che prima e dopo la morte
di Shahzad a diverso titolo si sono attivate per respingere
l'attacco al quartiere e ripopolarne le strade. Una delle storie
più rappresentative, a Tor Pignattara ma non solo, è
quella della scuola elementare Carlo Pisacane, che è
stata letteralmente assediata da politici e razzisti, messa
sotto accusa per la sua composizione multietnica, che si dipingeva
come un handicap. E invece, grazie all'impegno dei genitori
e degli insegnanti in primo luogo, è diventata una scuola
di eccellenza, un centro nevralgico per un pezzo di Roma, un
laboratorio della città che verrà.
Ci sono dei colpevoli e non intendo gli assassini di Shazad,
intendo che la marginalità viene creata e a Roma sono
tanti gli esempi, tu nel tuo libro parti da lontano...
La storia della morte di Shahzad non poteva essere lasciata
soltanto alla narrazione processuale, alla ricostruzione compiuta
nelle aule di tribunale. Ci sono concatenazioni sociali dietro
quella morte, elementi che nessun articolo del codice penale
può cogliere. La tensione costruita attorno alle periferie
in questi anni è il contesto che genera la tragedia:
lo “stress test“ al quale in quei mesi di fine estate
del 2014 Roma e l'Italia erano sottoposte tra emergenze sicurezza,
allarmi terrorismo, paranoie da invasione.
Andrea Staid
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