Riflessioni (anarchiche?)/ L'arte al tempo dello stato
Cos'è l'arte? E inoltre: perché il prodotto di questa attività, assolutamente volontaria e mirata, quando diventa oggetto di lettura, genera in noi sensazioni così particolari?
Perché ci sembra desiderabile fruirne? C'è un altro scopo, magari non evidente, per cui si fa dell'arte, oltre al personale gradimento di chi ne guarda, sente o percepisce gli esiti?
Oggi (dico oggi perché non possiamo generalizzare il giudizio estendendolo a epoche troppo lontane) definiamo per convenzione “arte“ l'atto e il prodotto di chi realizza coscientemente una descrizione dell'esperienza. Questa descrizione deve essere in grado di emozionare e lo fa tanto più fortemente quanto più risultano riconoscibili all'osservatore gli elementi (immagini, suoni, parole o altro) su cui è articolata la descrizione.
Questi prodotti (d'ora in poi: “le opere“) si avvalgono, per essere efficacemente leggibili, di segni che sono modellati su canoni estetici che siano relativamente attuali al momento della produzione. Il perdurare nel tempo della leggibilità (e dell'attualità dei significanti impiegati) genera il primo finto dogma: l'universalità dell'arte nel tempo e nello spazio. Il secondo (finto dogma) è la convinzione che ci sia, intrinseco all'arte, un valore spirituale assoluto.
Certamente nessuno può negare che l'arte sia descrizione emozionata ed emozionante. Ma questi due termini non penso vadano percepiti come positivi a priori. Se li usiamo in modo neutro indicano solo stati d'animo temporanei. Gli stati d'animo, anche se temporanei, sono la cosa più manipolabile del mondo. Favorendo certi particolari stati d'animo è possibile condizionare il soggetto emozionato. Così, chi ha il potere, dirige il corso delle cose.
Fare arte è indurre un'interferenza culturale ed emozionale in chi ne fruisce, offrendo descrizioni dell'esperienza con un fine preciso: quello di proporre una chiave di lettura che condizioni le successive scelte, soprattutto di pensiero, dell'osservatore (d'ora in poi: “il pubblico“, parola impropria, ma non ne trovo una più idonea a identificare chi guarda).
Quelle che vengono risvegliate nel pubblico che ascolta musica o poesia, guarda un quadro o un film sono immagini sublimate. Anche se sono del più crudo realismo, sono ugualmente realizzate con tecnica selettiva in senso estetico. Quindi arte è un'attività comunicazionale tanto più efficace quanto più è elevata l'abilità tecnica di stimolare specifiche emozioni usando accostamenti non banali di segni. Perché non banali? Perché lo stupore è una componente indispensabile del pacchetto di emozioni generate da un evento artistico efficace.
Bisogna dire che spesso la sua innegabile funzione consolatoria condiziona in positivo il giudizio sulla effettiva qualità del prodotto artistico. Comunque nessuno definirebbe a priori l'arte un fenomeno progressista o conservatore: sembra proprio che la si possa ritenere uno strumento utilizzabile per i fini più diversi.
Chi ha interesse che si faccia dell'arte? La domanda, determinante nell'analisi di qualunque situazione che comprenda transazioni umane è, e sempre sarà, “cui prodest?“. Ed ecco qui emergere l'importanza del committente, che è figura irrinunciabile.
Il committente fornisce risorse economiche per la realizzazione, dall'acquisto dell'armonica a bocca a quello del marmo per la realizzazione della cattedrale (laica o religiosa, ma sempre ideologica e agiografica). E fornisce le motivazioni individuali e sociali là dove l'artista“ scelga di lavorare in modo acritico (il che non vuol dire che lavori male). Il committente non fa parte del pubblico, anche se lui medesimo può subire un forte coinvolgimento emozionale. Il suo ruolo è delineato con molta precisione e attestato anche in realtà sociali remote nel tempo e ben diverse dalla nostra. Può essere una realtà esterna o uno stimolo personale interno a chi produce l'opera.
La differenza è enorme.
Esempi di committenti “esterni“: stato, chiesa, potere economico, divulgatori di opinioni opportunamente solidali al sistema, gruppi di interesse su specifici obiettivi. Esempi di committenze “interne“ (la chiamiamo “autocommittenza“?): spinte individuali ideologiche, convinzioni relative alla sfera del giudizio, contestazione di convenzioni sociali, desiderio di spostare (non necessariamente in avanti) i confini dell'indiscusso o indiscutibile. I diversi tipi di committenza peseranno sul giudizio e sulla classificazione che verranno attribuiti al prodotto artistico (arte al servizio del potere, arte scapigliata, arte di propaganda, arte involuta sulla personalità dell'autore, arte sacra).
Tutto questo non avrà però alcun collegamento con il valore tecnico intrinseco all'opera, con la sua capacità di emozionare e di prospettare possibili universi mentali “altri“; queste sono prerogative che dipendono direttamente dall'abilità tecnica profusa nel lavoro.
Nessuno giudica il messaggio veicolato dagli affreschi della Cappella Sistina (certo soddisfacente per le aspettative di uno stato teocratico), ma tutti restiamo abbacinati dall'imponenza dello spettacolo.
Chi fa, materialmente, dell'arte? Ai tempi dello stato fa arte chi, occupando una nicchia culturale, riceve contributi per realizzare le nuove piramidi (o, peggio, le nuove Versailles) dell'economia globale. Ai tempi della cultura di massa, chi ha intuito che l'affinamento del prodotto (culturale o industriale) passa per l'estetica che lo sa rendere più vendibile. Come nel caso del buon design, della buona editoria, del buon packaging. Ai tempi dell'autocoscienza, chi pensa che affinare il potenziale comunicativo di ognuno sia importante e quindi, vivendosi come cassa di risonanza ed essendo convinto della propria maestria tecnica, si spinge avanti. Ai tempi del marketing culturale, chi ha capito che, con una certa abilità e un po' di senso estetico, si possono vendere scenografie giulive anche se la commedia umana non è stata ancora scritta. Ai tempi della desincronizzazione dell'uomo pensante dalla società detta “civile“ e dalla cultura ufficiale, chi crede fortemente che le immagini fissino meglio i concetti di un nuovo mondo possibile. Ai tempi dell'economia di consumo, chi non ha niente di meglio da vendere, ma tanta abilità dialettica da saper inventare sovrastrutture “indispensabili“ per nuovi stili di vita.
Con cosa si fa dell'arte? Con gli attrezzi del mestiere, che, come tutti gli attrezzi, non hanno nessuna relazione con il loro prodotto ma restano semplici strumenti. Strumenti che, ben manovrati, generano suoni, colori, immagini, riproduzione di movimenti, atmosfere. Soprattutto atmosfere che permettono all'opera di assorbirti, e il distacco dalla buona opera è doloroso. Quasi una nuova piccola nascita. Ti accorgi, con angoscia, che non sei più quello di prima. E questo ti può generare un poco di ansia. Ed è qui che la buona arte, che ti ha portato dove vuole, non ti lascia tornare alla tua poltrona.
A proposito dei diritti d'autore. Si fa un gran parlare di diritti e di pirateria. Non mi riferisco ai diritti industriali o di ricerca scientifica, a cui il libertario riserva perplessa disapprovazione, alludo a quelli sulle forme (visive o sonore) che allietano i momenti in cui si riesce a scordare la condizione umana. Non credo che debbano essere totalmente aboliti né dal punto di vista nominale né da quello economico. Nel primo caso un autore deve poter difendere la propria opera da usi fuorvianti e da strumentalizzazioni che ne snaturano il significato originale; nel secondo essi dovrebbero poter essere oggetto di rinuncia da parte dell'autore quando sono destinati alla sola fruizione estetica, ed essere invece oggetto della sua rivalsa quando destinati a produrre reddito finanziario.
Che effetto fa il tempo all'arte? Pessimo, a sentir le persone rigorosamente logiche, perché può venire a mancare la corretta chiave di lettura disponibile al momento della produzione. Una metamorfosi successiva trasforma l'opera da messaggio attuale a esercizio interpretativo per posteri cultori del bello. Ma il frutto delle loro analisi non coinciderà mai completamente con il messaggio insito nell'opera all'atto della realizzazione. Comunque non è un guaio, tutt'al più un esercizio per filologi e storici. E comunque la condizione umana non varia così repentinamente da rendere del tutto obsoleta una buona ed emozionante descrizione dell'esperienza.
Come collocare il fenomeno “arte“ in un contesto evoluzionistico di tipo darwiniano?
Spogliata da sovrastrutture mitiche, mistiche e più o meno spirituali, l'arte si rivela una delle tante attività più o meno utili che caratterizzano il consorzio umano. Una precisa risposta, quindi, a un'esigenza biologica. Però non tutte le risposte sono buone soluzioni. A volte sono palliativi, a volte nascono da interessi distorti, come nel caso delle religioni o del primato dell'autorità. È difficile percorrere all'indietro il sentiero che dalla grotta di Lascaux porta a certe stupidaggini odierne che fanno pensare a una forma di plagio. Servirebbe il parere di un antropologo; ma questo antropologo dovrebbe avere almeno diciassettemila anni ed aver toccato con mano, giorno per giorno, la mutazione che trasforma una pulsione in un fenomeno anche finanziario.
Esiste un'arte che si possa definire “anarchica“?
Sembrerebbe un ossimoro: se l'arte fosse solo manipolazione della realtà per ottimizzare un messaggio strumentale a un fine, pur nobile, potrebbe puzzare di artificio borghese. Ma l'arte è la capacità di creare uno strumento che faciliti la lettura della realtà, valorizzando stati d'animo auspicabili; è strumento di comunicazione importante che può predisporre le menti alla conoscenza e alla valorizzazione di ciò che è anarchia creativa e non dogmatica. Quindi, forse, sarebbe utile valorizzare i processi artistici e contemporaneamente rifiutare l'esistenza di un mercato dell'arte.
Marco Giusfredi
Chignolo Po (Pv)
Laboratorio artistico e disabilità/ Creare insieme è un gioco serio
Quando si pensa a un laboratorio didattico, una delle prime cose che viene alla mente è una situazione di sperimentazione in cui, attraverso metodologie alternative rispetto a quelle applicate per lo svolgimento delle lezioni in orario scolastico, viene realizzato un prodotto.
Non voglio parlare di come poter attivare un laboratorio né di quanto possa essere più o meno difficile con tutte le restrizioni, le regole e anche le paure che caratterizzano questa nostra scuola pubblica. Vorrei parlare, invece, dei sorrisi e delle bellissime emozioni provate all'interno di quei laboratori, provate da me e da chi ha condiviso con me tali esperienze. Lavorando nelle scuole superiori di secondo grado insieme a ragazzi diversamente abili (termine appropriato, perché le abilità ce le hanno: sono semplicemente diverse da quelle considerate “normali“ a cui viene data priorità all'interno di un sistema sociale regolato da strutture e sovrastrutture ai fini di una globalizzazione non solo economica, ma anche di pensiero) ho avuto la possibilità di sperimentare personalmente e concretamente cosa significhi intraprendere un percorso che preveda la collaborazione tra persone che altrimenti, forse, non avrebbero mai interagito tra di loro; perdendo l'occasione di scoprire qualcosa di veramente speciale.
Laura, per esempio... un ricordo di qualche anno fa. Laura non parlava. Se ne stava zitta tra sé e sé in quel suo mondo poco definito anche dai medici, in cui rideva quando era felice e aveva scatti d'ira quando non lo era. Edoardo invece parlava, ma parlava da solo, rideva e aveva sempre fame, poi all'improvviso voleva picchiare tutti, mentre Andrea... beh, Andrea era uno “show-man“ e la sua sindrome di down non lo fermava davanti a niente pur di essere protagonista. Luca che cantava e si muoveva a tempo, ininterrottamente. Stefano, che scappava via di corsa ogni volta che vedeva un piccione. Stella, che ogni tanto si incantava, la sua testolina andava in black-out per qualche secondo, all'improvviso, così come all'improvviso tornava tutto come prima... e Anna, che era innamorata, e avrebbe voluto alzarsi da quelle rotelle per vedere il mondo da un altro punto di vista, ma non poteva farlo.
Come loro, altri ragazzi, ognuno con una sua caratteristica, ognuno speciale a modo suo e in grado di affrontare i problemi con una estrema semplicità, una semplicità capace di insegnare davvero molto, più di ogni programma ministeriale, più di ogni esame affrontato per “promuovere“ all'anno successivo.
Così, con quei pochi strumenti a disposizione ma con tanta volontà e voglia di divertirci, abbiamo lavorato insieme, abbiamo dipinto, manipolato la creta, costruito pupazzetti con bottiglie di plastica riciclate... abbiamo disegnato aquiloni e poi di quegli aquiloni ne abbiamo fatto biscotti da mangiare tutti insieme, perché il laboratorio non è solamente un luogo in cui esercitare la propria creatività: questo è certamente uno degli aspetti tangibili ma ce ne sono altri non meno importanti; nel laboratorio è possibile esternare le proprie emozioni, imparare a scoprirle, esprimere e costruire la propria personalità utilizzando mezzi diversi dalle parole perché non sempre è facile parlare e magari, perché no, a volte la parola non è il mezzo più adatto.
Il gesto artistico, l'azione di per sé, il fare, è il mezzo attraverso il quale si può ottenere una gratificazione immediata, e la creazione artistica diventa quasi un bisogno primario, come il cibo, là dove si scopre che non è “terapia“, ma un vero e proprio modo di essere se stessi.
Nel laboratorio ci si incontra, e le differenze assumono un aspetto diverso, non perché non ci siano, ma perché non sono importanti, ci si accorge che non servono.
Non c'è età, sesso, religione o razza, non c'è giusto o sbagliato, nel laboratorio ci si confronta, ci si aiuta, si litiga ma soprattutto si può imparare l'uno dall'altro e imparare soprattutto a stare insieme, ad avere rispetto reciproco, rispetto per i pregi e per i difetti, creando un ambiente in cui non esiste chi è più bravo e chi lo è meno: ognuno avrà predisposizioni diverse da valorizzare, ognuno imparerà a riconoscere e ad apprezzare se stesso e gli altri, creando così i presupposti per una persona che non ha bisogno di competere per sentirsi soddisfatta e nemmeno di sminuire gli altri per valorizzare se stessa.
All'interno di un laboratorio tutti devono avere un loro posto, tutti devono potersi muovere liberamente e utilizzare ciò che ritengono necessario ma soprattutto, tutti dovrebbero avere o acquisire la consapevolezza che tutto è di tutti, e ciò che non è stato usato oggi può servire a qualcun altro domani. Per questo l'organizzazione è importante, tenere pulito, ordinato, non sprecare i materiali e fare attenzione a non rompere le cose. Non c'è senso della proprietà, ma condivisione. E funziona... funziona perché i ragazzi sono curiosi, hanno voglia di mettersi in gioco e di poter vivere delle esperienze e per viverle intendo esserne i protagonisti... esserne gli artefici, invece di adempiere a quel ruolo sempre più stretto del “contenitore da riempire“ di informazioni e le informazioni che servono, si possono acquisire in maniera diversa da quella obbligata tra una sedia e un banchino di legno.
Certo è difficile e forse improbabile pensare a un percorso pedagogico libertario all'interno della scuola pubblica statale, in ovvia contraddizione sia con la natura stessa della scuola in quanto istituzione, sia per la struttura educativa che gli appartiene. Ma è anche vero che attraverso le attività di laboratorio è possibile mettere in pratica qualcosa che alla visione libertaria della scuola ci somiglia, o quantomeno possono essere un mezzo per diffondere la cultura di un educazione al centro della quale non c'è “chi“ o “cosa“ lo studente dovrebbe diventare in base alle richieste della società, ma c'è la persona, per come è e per ciò a cui è predisposta, con la totale libertà di imparare e di sbagliare, rompendo tutte quelle regole a cui gli studenti sono costretti a sottostare in maniera inadeguata alle proprie esigenze naturali e individuali, per costruire altre “regole“ in base all'individualità, favorendo l'individualità e la relazione con l'altro.
Dalle mie esperienze di laboratorio, insieme ai ragazzi diversamente abili e ai loro compagni di classe e di scuola, non ho potuto non osservare la predisposizione dei più forti ad aiutare i più deboli: una propensione naturale, dettata non dalla compassione né dall'imposizione dell'adulto-insegnante, ma dalla necessità e dalla voglia di stare insieme, di scoprire la diversità perché diversità non fosse più: ragazzi che non pensavano di essere “capaci“ o che provavano una sorta di “paura“ nei confronti dei loro compagni “diversi“, hanno imparato a dare un po' di sé contro ogni pregiudizio, hanno saputo trasformare il pregiudizio in un sorriso o in un abbraccio, e ognuno è stato ed è in grado di dare il proprio piccolo ma grande contributo... è così che Laura ride, Edoardo si dimentica di mangiare e Stefano prende qualcuno per mano.
Veronica Bazzichi
Carrara (Ms)
Riflessioni/ Anticipazionismo e anarchia
Anarchia è anticipazione. Vorrei si potesse aprire un dibattito su un concetto tanto semplice quanto essenziale: tutte le volte che i nostro sforzi come anarchici sono messi in discussione, per alcuni degli infiniti motivi a cui siamo abituati a rispondere, forse basterebbe ribadire questa tesi. L'anarchia anticipa nel qui e ora ciò che vorremmo vedere nel poi, attraverso la costruzione di microcomunità (che poi sono l'equivalente politico del microcosmo di cui parla Wittgenstein nel Tractatus), che hanno sopratutto il compito di aprire un varco. Dove si crede che l'unico modello di vita sia quello degli Stati nazionali all'epoca del capitalismo contemporaneo gli anarchici, semplicemente, rispondono che avrebbero preferenza di altro: lo fanno organizzandosi, riunendosi in gruppi di dibattito orizzontali e non gerarchici, lo chiedono attraverso la dimostrazione (che spesso è disobbedienza civile) del fatto che i nostri corpi, e anche i nostri spiriti, sono già in grado di anticipare questo avvenire.
Alcuni anarchici vivono vite apparentemente integrate alla perfezione nel sistema contemporaneo: io, per esempio, lavoro in una grande università, scrivo sui giornali, ho rapporti con molti editori dei gruppi industrialmente robusti (e onestamente, diciamolo, imperialisti) che tendono a maciullare la piccola editoria. Sono fermamente convinto che il compito di ogni anarchico, come ha insegnato magistralmente Noam Chomsky, sia quello di portare l'attenzione su certe tematiche (se ha le possibilità di farlo) proprio in luoghi spesso irraggiungibili.
Le sacche che chiamo “microcomunità dell'anticipazione“ vanno aperte ovunque: l'anarchia è uno spazio che prima o poi, un'umanità piegata dal peso del sovraffollamento e della crisi ambientale, dovrà raggiungere. Si tratta di prepararsi e di farlo bene: allenarsi all'essenza di potere coercitivo, alla partecipazione, alla pluralizzazione dei soggetti coinvolti nelle decisioni che riguardano le nostre vite.
Scrivo questa breve riflessione, ovvia per molti di “noi“, perché mi trovo in continuazione dinnanzi a una triste verità: insegnando a studenti universitari, non solo di filosofia ma ultimamente anche di architettura, mi accorgo di quanto poco questi prendano in considerazione l'idea che non debba esserci per forza qualcuno a pensare al posto loro. Ogni volta che presento loro una nuova tesi la domanda non è mai se funzioni o non funzioni, la domanda è: “chi lo dice?“.
L'abitudine anarchica è l'abitudine al pensiero critico anche quando questo è “inutile“, ovvero inefficace - e non importa da chi o da cosa vengano i pensieri, importa se questi siano utili a migliorare la nostra forma di vita: anticipiamo sempre, di continuo e con potenza, la possibilità di criticare ogni aspetto di questa società. L'anticipazionismo, così ho proposto di chiamare tutto ciò, è quel movimento filosofico e politico che all'epoca della rivoluzione infattibile ne anticipa principi e parametri: vive come se le cose fossero diverse, esiste come proposizione che attende di essere immagine di un mondo futuro ma già descrivibile.
Gli anarchici sono ovunque intorno a noi: anticipano con le loro forze un mondo senza gerarchie. Il simbolico è più importante di quanto non lo si sia esplorato entro lo spazio dell'anarchismo: vive libero solo colui che vive nel presente.
Leonardo Caffo
Torino
Dibattito curdi.5/ Ma anche in Spagna nel ‘36...
Ho letto con molto interesse il “Botta ...e risposta“ tra Domenico “Mimmo“ Pucciarelli e Roberto Ambrosoli (“A“ 406, p. 121). Personalmente devo dire che condivido le perplessità di Pucciarelli sull'invito (di Anarchik) a fare la guerra con il “PKK“ per le probabili implicazioni autoritarie, gerarchiche, violente implicite a ogni guerra. E anche se, nella sua risposta, Ambrosoli ha giustamente sottolineato che non si trattava di “guerra tradizionale“, ma di “guerra all'oppressore“, il suo richiamarsi alla “guerra della CNT/FAI“ durante la rivoluzione spagnola, mi ha fatto scattare un campanello d'allarme. Nata come vittoriosa resistenza popolare libertaria e antimilitarista al golpe militare nazionalista, la “guerra della CNT/FAI“ degenerò presto in una vera e propria “guerra frontale“ di tipo tradizionale, che travolse drammaticamente tutte le conquiste rivoluzionarie iniziali. È noto come tale degenerazione abbia suscitato critiche da parte di anarchici, come per esempio Vernon Richards, Abel Paz e tanti altri, di cui ritengo che si debba, ancor oggi, tenere conto. Con il prolungamento del conflitto, rivoluzionari anarchici straordinari, di grande valore e di indubbia integrità morale, come, per esempio, Cipriano Mera, si trasformavano, non senza una profonda e intima sofferenza, da capi miliziani a comandanti di divisione dell'esercito repubblicano per combattere l'offensiva “franchista“ coadiuvata da nazisti e fascisti per difendersi, sul fronte interno, dagli stalinisti. Obiettivi entrambi importanti, ma, purtroppo, sempre meno coincidenti con il processo rivoluzionario come mostra, per esempio, lo scioglimento del Consiglio di Aragona, presieduto da Joaquin Ascaso, voluto dal governo del Fronte Popolare Repubblicano, ma tollerato dalla direzione della CNT/FAI in nome della priorità della guerra antifascista sulla rivoluzione sociale libertaria.
Concordo, sostanzialmente, con la valutazione positiva di Roberto Ambrosoli sull'esperimento “confederalista democratico“ del PKK e su come esso costituisca un fondamentale passo avanti rispetto al precedente marxismo-leninismo. E il mio augurio che si possa, un giorno, esperimentare un “confederalismo anarchico“ analogo a quello spagnolo degli anni trenta, adeguatamente aggiornato, non riguarda solo il Kurdistan, ma il mondo intero, incluso il nostro.
Saluti libertari da Cretaross
G. Rosso
Roma
Arte per “A“/ Un'opera in sottoscrizione
Cari compagni di “A“,
ecco la foto di un'opera su carta (spessa) di Stefano Sommariva (amico da una vita, ma non mio parente) chiaramente ispirata al Guernica di Picasso, eseguita per una “Serata Resistente“ che ho organizzato domenica 24 aprile, fatta di racconti (miei) e musica jazz (di amici musicisti), che è andata molto bene.
L'opera misura 150 cm. di larghezza e 250 cm. d'altezza: dietro mia indicazione l'autore ha accettato che l'opera venga messa in vendita (il prezzo lo decidete voi, anche all'asta va bene) e che il ricavato finisca nelle casse di “A“.
Un caro saluto.
Marco Sommariva
Genova
Deciso il prezzo: 100,00 euro. Mandateci una mail prima di fare il versamento (anche a mezzo PayPal - leggete a pag. 2 sotto il titolino “I VersAmenti“) e aspettate la nostra risposta affermativa per poter fare il versamento. Nel caso fosse già stato acquistato, vi avviseremo. Grazie ai due Sommariva. Con l'auspicio che altre/i nostre/i amici, compagne, artisti realizzino qualcosa pro “A“.
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I
nostri fondi neri
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Sottoscrizioni. Pasquale Messina (Milano) ricordando suo padre, 100,00; Andrea Pasqualini (Vestenanuova – Vr) ricordando Angelo Sbardellotto, 40,00: Pietro Mambretti (Lecco) 10,00; Marco Cella (Saronno – Va) 10,00; Daniele Frattini (San Vittore Olona – Mi) 10,00; Marco Pandin (Montegrotto Terme – Pd) 50,00; Eros Mallo (Cinisello Balsamo - Mi) 5,00; Pasquale Palazzo (Cava dei Tirreni – Sa) 7,00; Rino Quartieri (Zorlesco – Lo) 100,00; Sus ed Egi (San Giuliano Milanese - Mi) ricordando Marco con amore, 20,00; Paolo Guaitoni (San Giuliano Milanese – Mi) 10,00; Oliviero Venturini (Cattolica – Rn) 150,00; Patrizio Quadernucci (Bobbio – Pc) 50,00; Daniele De Paoli (Novate Milanese – Mi) 10,00; Giovanni Canonica (Barolo – Cn) 10,00; Bruno Romanello (Cervasca – Cn) 20,00; Alfredo Simone (Genova) 10,00; Claudia Pinelli (Milano) 10,00; Michele Morrone (Rimini) 10,00; Luigi De Mio (Malnate – Va) per versione pdf, 5,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando Umberto Marzocchi a trent'anni dalla scomparsa, 500,00; Luca Galletti (Lancenigo – Tv) 10,00; Mario Perego (Carnate d'Adda – Mb) 50,00. Totale € 1.147,00.
Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti specificato, si tratta dell'importo di cento euro). Tommaso Bressan (Forlì); Federico Moro (Venezia); Gianni Alioti (Genova); Alessandro Marutti (Cologno Monzese – Mi); Barbara Berardinatti (Trento); Laura Zanardi (Genova); Lorenzo Brivio (Besana Brianza – Mi); gruppo C.A.O.S (Genova); Franca Bombieri (New York – USA); Pietro Masiello (Roma). Totale € 1.000,00.
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