I militi ignari/
Meridionali alla prima guerra mondiale
Ha un titolo crudamente diretto, il libro di Lorenzo Del Boca Il sangue dei terroni (Piemme Edizioni, Segrate – Mi, 2016, pp. 216, Ä 17,50). Del Boca, noto giornalista e storico, con questo suo ultimo lavoro, richiama l'attenzione sui costi pesanti che ebbe per il sud Italia il primo conflitto mondiale: costi economici, sociali, ma prima di tutto umani. Furono un milione e mezzo, i soldati italiani trucidati, al fronte, dai nemici: un milione di loro erano meridionali.
Che la prima guerra mondiale sarebbe stata una strage “inutile“, lo ammonì papa Benedetto XV; che a pagarne le conseguenze più dolorose, in Italia, sarebbero stati i ceti più poveri, in particolare i contadini, lo avevano presentito, in Sicilia, le donne: furono loro, come documenta Del Boca, a dar vita, nel 1915, alle prime manifestazioni contro la guerra, contro la leva obbligatoria e per la pace. A Collesano (Pa) avvenne la prima protesta, organizzata e animata dalle donne del paese che non volevano che i mariti e i figli andassero via, a combattere in un conflitto di cui non sapevano e non capivano la natura e le ragioni: “Si radunarono davanti alla chiesa e al parroco che diede loro udienza chiesero di farsi portavoce di un diffuso sentimento di pace della comunità. Il sacerdote assicurò il proprio impegno, ma quale margine di manovra poteva avere? I grandi potentati economici e i politici avevano già scelto. Gli intellettuali schiamazzavano per le piazze d'Italia chiedendo a gran voce una prova di forza. Volevano il bagno nel sangue per garantire alle prossime generazioni un futuro eroico. Come potevano farsi ascoltare la voce di un prete e la protesta femminile di Collesano?“.
Donne e preti contro la guerra. Una storia poco conosciuta e ancora non compiutamente scritta, fa notare Del Boca: “In Sicilia, le dimostrazioni pubbliche contro la guerra non si caratterizzarono come un vero e proprio movimento organizzato, ma non è nemmeno possibile liquidarle come fenomeni sporadici e isolati. Le donne che scesero in piazza a Sciacca, a Santa Margherita Belice e ad Aragona e ancora ad Alcamo, a Paternò, a Delia, a Bagheria, a Piana degli Albanesi, ad Aci Trezza e a Cianciana, non si facevano mancare la protezione del cielo. Il più delle volte, le manifestazioni stavano a metà tra la processione e il corteo di protesta. Più facilmente, la processione servì per mascherare la protesta. Dalla cappella principale della chiesa prelevavano la statua del santo patrono e la trasportavano per le strade, alternando miserere e invettive. Accadde a Caltagirone, a Leonforte, a Montalbano Elicona e a Catania“.
Ma processioni e proteste a niente servirono: nè ad impedire le partenze per il fronte, nè tantomeno ad evitare una guerra, che Del Boca, nel suo libro, racconta compiutamente nelle sue atrocità, nell'assurdo combattere e morire di centinaia di migliaia di uomini - nelle pietraie del Carso e negli altri Iuoghi del fronte di guerra - impegnati a cacciare indietro l'esercito austriaco: erano soldati, scrive Del Boca, mandati “in prima linea con l'aria di chi vi è capitato per pura sventura, con la nostalgia per la casa, l'estraneità alla causa e l'incapacità di maneggiare armi automatiche e mortai'. Più che di un “milite ignoto“, si trattò di un “milite ignaro“, constata con amaro sarcasmo Del Boca, che rivela: ‘nel Meridione d'Italia si contò almeno un morto per famiglia, e qualche volta persino due o tre“.
All'interno di una ricostruzione antiretorica della partecipazione italiana al primo conflitto mondiale, il libro di Del Boca offre dati e spunti per una equilibrata riflessione, che, al di là delle tante acritiche celebrazioni, riconsideri il dramma in cui precipitò centocinquanta anni fa, buona parte della nazione: dramma che ben mostrano le parole di Giovanni Presti, un soldato originario di Aidone (En), che in un passo del suo diario, ripreso da Del Boca, dice: ‘È impressionante questa vita di stenti, di sussulti, di snervanti attese, di palpiti violenti. La situazione si fa sempre più scabrosa, più ingarbugliata». Eppure, continua Lo Presti, “ci abituiamo alla barbarie, alla crudeltà: assistiamo impassibili alle scene più orribili e ci seguitiamo a chiamare uomini“.
Silvestro Livolsi
Anarchia/
Fra egoismo e simpatia
Se a testimoniare la vitalità di una teoria politica stanno le ricerche e le riflessioni che si fanno attorno ad essa, si può senza dubbio affermare che il pensiero anarchico goda ottima salute, visto che sono sempre di più le ricerche che, a livello teorico e filosofico, ragionano appunto sulla “ipotesi anarchica“. Questo, ovviamente, non vuol dire che tutte le elaborazioni attuate abbiano la stessa rilevanza, la stessa profondità o conducano agli stessi esiti, tuttavia già il fatto che avvengano segnala che quello che muove la succitata “ipotesi“ sia ben lungi dall'esaurirsi, anche se necessita di continue interrogazioni e tematizzazioni.
Fra queste va sicuramente posto Egoismo e anarchia. Genesi del potere politico ed etica della rivolta di Giuseppe Pegna (Arduino Sacco Editore, Roma, 2014, pp.184, Ä 14,90), saggio di non grande mole e sorretto da una scrittura scorrevole, ma non per questo testo facile e “veloce“, anche perché un po' troppo appesantito dalle numerosissime note, spesso assai lunghe. La breve nota editoriale posta nel retro-copertina dice solamente che l'autore è un giurista calabrese abbastanza giovane e che questo libro è la sua prima pubblicazione, per cui gli elementi che usualmente servono per contestualizzare meglio un testo non possono che ricavarsi dal testo medesimo, cioè, innanzitutto, dalla sua struttura e dai riferimenti culturali e bibliografici. La struttura è costituita da dieci capitoli di diversa lunghezza -“Preludio“; “Socialità“; “Anarchia“; “Democrazia“; “Leviatano“; “Diritto“; “Potere“; “Homo oeconomicus“; “Simpatia“; “Libere vivere“-, mentre i riferimenti spaziano dai classici della filosofia ai classici dell'anarchismo, dalla filosofia e teoria della politica e del diritto, all'antropologia, alla sociologia, alle riflessioni anarchiche più recenti. Insomma, l'ampio spettro dei riferimenti culturali mette in luce come l'intento del saggio sia ambizioso e corrobori un discorso tendente a dimostrare la fondatezza e la desiderabilità della società anarchica, il cui tratto fondamentale è con sicurezza individuato nella «assenza di potere» (p.152).
Sintetizzando al massimo, la tesi di Pegna muove dalla considerazione che il desiderio di dominio, politico ed economico (fra loro ormai inestricabilmente legati, come sottolinea l'autore, che parla anche di “totalitarismo economico“, p.129), sarebbe determinato dall'egoismo, inteso come traviamento egotistico dell'amore di sé, mentre, al contrario, la «simpatia […] propensione per l'altro capace di generare affinità e comunanza di sentire tra esseri umani» sarebbe «in grado di generare l'esatto contrario del dominio, ovvero l'anarchia» (p.152). La concezione che sta alla base dell'intero scritto, quindi, è un'antropologia ottimistica (anche se viene comunque rimarcata, basandosi su una serie di studi scientifici e sociologici, la sostanziale indeterminatezza della “natura umana“) ed è alla luce di questa che, come già si evince dai titoli dei capitoli, si articola l'intero discorso, svolto principalmente sul terreno della teoria politica e che tende ad argomentare una concezione sostanzialmente illuministico-roussoviana dell'anarchismo (non a caso viene abbondantemente citato William Godwin), posta in confronto e relazione con una serie una serie di acquisizioni e teorizzazioni in primo luogo riferibili (l'autore è pur sempre un giurista!) alla filosofia e alla teoria della politica e del diritto.
Idee-forza chiare e decise
I nodi problematici richiamati -perché affrontati apertamente o, in negativo, perché “schivati“- nel testo sono quindi moltissimi e fra questi meritano di essere evidenziati, poiché rappresentano gli architravi concettuali dell'intera riflessione di Pegna, la completa somiglianza che egli individua fra sovranità, potere e statualità, così come la sua concezione dell'anarchia.
Rispetto alla prima questione, l'autore sottolinea che «è bene distinguere e non confondere la Società (comunità di persone associate) con lo Stato (entità giuridica territoriale sovrana)» (pp.77-78), mentre la sovranità viene intesa come «potere legittimo di imporre ai cittadini l'autorità (quindi la volontà) di chi governa e perciò lo Stato rappresenta quella struttura sociale che si riserva il monopolio dell'uso della forza» (p. 77), per questo: «così come la sovranità è condicio sine qua non dello Stato, allo stesso modo il diritto rappresenta una condicio sine qua non della sovranità» (p. 94).
D'altra parte viene anche rimarcato, sulla scorta di Carl Schmitt, sia che «il fondamento della sovranità […] è nella decisione, cioè in un atto che vuole essere ontologicamente atto di volontà» (p.105), sia che il potere è quella «relazione triadica che, oltre a due attori, l'uno soggetto e l'altro oggetto del potere, comprende anche il tipo di relazione ovverossia il campo entro il quale viene esercitato il potere», cosicché, a suo parere, «la coazione non è un semplice strumento del potere bensì costituisce uno degli elementi della sua essenza. Questo vuol dire che il potere è potere senz'altro» (pp.118-119), per cui non vi può essere «abuso di potere […]: il potere è già, di per sé, un abuso» (p.126), essendo «il potere sull'uomo […] una relazione sociale contro la natura umana perché è […] contro il bene della vita» (p. 157).
La “natura“ dell'anarchia, invece, viene da Pegna primariamente individuata nell'“idea morale“ capace di condurre a «una salvifica rivolta etica dell'individuo affinché esso possa assurgere a persona» (p. 13).
Detta “idea morale“, che si incentra sulla «libertà fondata sull'uguaglianza» (p. 35), sarebbe quindi la base ineludibile della società anarchica, come già accennato concepita come “esatto contrario del dominio“ e “assenza di potere“, ma anche vista come «modello di società giuridica», tale in quanto dovrebbe esprimere un diritto «in grado di adattarsi di volta in volta coi sentimenti e i bisogni che le molteplici situazioni della vita sociale dell'uomo fanno emergere» (p. 98).
A innervare tutto ciò, aggiunge Pegna, dovrebbe essere “l'amore“, cioè «il grado più alto e profondo di empatia» (p. 162), che sarebbe pure quanto mostra come l'anarchismo sia «politica del vissuto, ovvero sinonimo di azione continuamente rivoluzionaria» (p. 169), anche se, a livello della politica strettamente intesa, «non di rivoluzione deve discutersi […] bensì di rivolta da parte della persona» (p. 172). Ciò in quanto «l'anarchismo esprime l'esigenza di una piena libertà individuale, di riuscire cioè, ponendosi continue domande, a determinare la propria volontà, in ogni tempo e luogo» (p. 33).
Come si spera di aver evidenziato attraverso questo sommario florilegio, le idee-forza di Pegna sono chiare e decise, ma non per questo riescono ad essere sempre convincenti, in particolare perché, lo si è detto, non raramente “bypassano“ considerazioni e riflessioni che le sue stesse affermazioni suscitano e che non possono essere accantonate, pena il valore e il senso delle tesi che si intende sostenere.
Così, rimanendo brevemente ai nodi concettuali sopra sottolineati, non si può non notare come, a ben indagare, il termine/concetto di società non indichi lo stare insieme degli esseri umani in quanto tale (la società, infatti, è un caso particolare, e abbastanza raro, di accomunamento umano, un accomunamento che spesso, invece, è avvenuto, e ancora avviene, nella forma della tribù, del clan, quando non dell'orda e del branco), mentre è quello stare insieme particolare che ha come sua condizione di possibilità la consapevolezza che l'accomunamento stesso si regge essenzialmente sulle decisioni consapevoli, e come tali volute, dei suoi membri.
È questa consapevolezza che rimanda alla necessità di dare forma intelligibile, cioè di rappresentare, tale accomunamento proprio al fine di poter decidere in esso e su di esso ed è esattamente per questo che correlativo ineludibile della società è la politica (tema che Pegna non affronta direttamente, pur richiamandolo ovunque) in quanto ambito e modo della rappresentazione. La politica è, quindi, il luogo in cui si manifesta la sovranità che, come dice Pegna, certo è “volontà“ e “decisione“, essendo innanzitutto la volontà e la decisione di dare forma all'indistinto/caotico della vita collettiva che, senza detta forma, rimarrebbe tale e non permetterebbe quindi la società.
Forti dubbi
È per questo che politica e sovranità sono topoi ineludibili per qualsiasi insieme umano che sappia di sé e voglia decidere di sé, così come sono quella forza a-priori che, come diceva Max Stirner, rende possibile e necessario il diritto positivo.
È in questo senso e contesto che, come anche Pegna riconosce, si gioca la questione del potere - cioè la questione delle “soggettività“, delle possibilità, dei modi, delle procedure, della decisione circa le regole del vivere sociale stesso -, il quale, per gli stessi motivi e contrariamente a quel che Pegna sostiene, non può pertanto essere espunto in alcun modo dalla socialità stessa, soprattutto se si vuole che gli “individui“ - cioè il caotico coacervo che ognuno di noi è - diventino “persone“ - quindi un modo di essere che si sa e si sceglie.
Tutto questo nulla toglie al valore e alla necessità delle critiche anarchiche allo Stato, ma avendo ben presente che la statualità è una delle modalità della politica, della sovranità e del potere, una modalità che anzi può essere combattuta e superata proprio riconoscendo quello che politica, sovranità e potere rappresentano, fanno e rendono possibile. Del resto, lo stessa Pegna riconosce che anche in campo anarchico e libertario ormai da anni si ragiona attorno a dette tematiche (un nome per tutti: Cornelius Castoriadis), anche se non ne condivide le conclusioni.
Da quanto fin qui accennato, derivano necessariamente anche i forti dubbi che sorgono circa la concezione dell'anarchia di cui Pegna si fa propugnatore. Ciò non tanto perché quel che egli dice sia falso o assurdo, quanto perché è innanzitutto - se non esclusivamente - nella ricerca ed elaborazione di modalità e forme fino ad oggi quasi mai pensate e sperimentate di agire e far esistere politica, sovranità e potere che è possibile ricercare una coesistenza sociale libertaria, cioè un modo d'essere e agire individuale e collettivo che possa far a meno della logica e delle pratiche della statualità e contemporaneamente sia condizione di continua articolazione della libertà e con questa, se non dell'uguaglianza, almeno della giustizia sociale.
Se, come si è detto in apertura, le molte elaborazioni attuali circa l'anarchismo ne dimostrano la vitalità, non si può negare che a questa contribuisca anche Egoismo e anarchia, il quale - pur non essendo, lo si è detto, sempre convincente o esaustivo - ha perlomeno il merito di costringere a misurarsi con una serie di temi e di modi di vedere che forse possono essere hegelianamente superati, certo non ignorati o accantonati.
Franco Melandri
Chianti/
Un'esperienza pedagogica particolare
È uscito il volume di Stefania Mori, Strada Maestra (Centro Studi Storici della Val di Pesa, pp. 160, info, alanark-@tiscali.it, www.cssvp.com) che tratteggia in maniera puntuale l'esperienza pedagogica degli anni Ottanta-Novanta in una area del Chianti.
L'autrice ha già sperimentato le innovazioni introdotte in questo campo da Marcello Trentanove, nella sua attività di insegnante a Bagno a Ripoli (Firenze) a proposito della quale scrive che quella “fu un'esperienza particolare piena di contatti di ogni tipo. Nonni e vecchi del paese, medici, tecnici comunali, imprenditori, artigiani, contadini, erano gli esperti che i ragazzi incontravano quasi quotidianamente […] Pubblicammo diversi opuscoli, alcuni dei quali sono oggi quasi illeggibili […] non tanto perché scritti a mano senza molta cura nella grafia, come usava allora, piuttosto perché stampati con il ciclostile ad alcol, unico strumento a portata di mano nelle nostre scuole.“
In quella esperienza era fondamentale coinvolgere il paese, i nonni, le conoscenze degli abitanti, con spirito curioso e libero, anche al costo di mettersi contro più di qualcuno, seguendo quanto afferma Lamberto Borghi che “critica decisamente il centralismo educativo. Il vero fine dell'educazione, chiosa l'autore libertario, è quello di rendere accessibili a tutti e a ciascuno i beni della cultura in modo che la capacità individuale di autodeterminazione sia il fondamento della spontaneità sociale. La società e la cultura sono, invece, minacciate dalla mentalità burocratica che penetra capillarmente dal centro verso la periferia. La scuola di massa e la propaganda di massa sono strumenti in mano a moderni dittatori o dei partiti su cui essi si reggono, e continuando afferma che La scuola pubblica, per adeguarsi alle esigenze di una società aperta e democratica deve essere nella mani dei cittadini e degli insegnanti e non nelle mani di burocrati irresponsabili di fronte al pubblico. Si può educare alla libertà solo attraverso la libertà“. È un impegno importante, che si svilupperà su più fronti.
Mori ricorda che quando faceva parte del consiglio del Distretto Scolastico, con presidente Marcello Trentanove, “fu elaborato un progetto nell'ambito dell'Educazione Permanente che prevedeva l'istituzione dell'Università itinerante del Chianti, gestita dai cinque comuni interessati e dal consiglio scolastico distrettuale. Questa avrebbe utilizzato le competenze di docenti universitari, di scuola superiore, di utenti con particolari esperienze residenti sul territorio, per lezioni, conferenze, dibattiti in base a programmi pluriennali elaborati da un comitato scientifico, sentite le richieste dei singoli territori. Le materie principali: quelle relative alle scienze sociali. L'obiettivo generale: quello di accrescere le competenze dei singoli cittadini in vista di un allargamento e arricchimento delle forme di partecipazione“ come avvenne coi centri di orientamento sociale (cos) di Aldo Capitini organizzati con l'intento di sviluppare un controllo dal basso nei confronti dei poteri locali, promuovendo nello stesso tempo competenze di cittadinanza e di autogoverno.
Trentanove è centrale nella formazione dell'autrice. Questi ha collaborato a far nascere a Firenze nel 1951 i CEMEA. Dieci anni prima della “Marcia Perugia-Assisi“, alla quale partecipa e su richiesta di Capitini, organizza in Sardegna una serie di stage per la formazione degli insegnanti secondo i principi ed i metodi dei CEMEA. Collabora a Firenze con “Scuola-Città“, fondata nel 1945, da Ernesto e Anna Maria Codignola. Fra il 1982 e il 1983 è in Nicaragua insieme a Margherita Zoebeli, fondatrice del CEIS di Rimini, per realizzare corsi di aggiornamento per gli insegnanti. Nella prefazione del volume, da lui curata, a proposito dell'autrice afferma: “Due fatti hanno contribuito a determinare un profondo rinnovamento della visione educativa di Stefania. Il primo si riferisce a quanto avviene nei primi anni Cinquanta a Scuola-Città Pestalozzi, in seguito alla visita di un educatore francese, Célestin Freinet, fondatore della pedagogia popolare che ha sviluppato un metodo basato sulla cooperazione, il lavoro di gruppo, il testo libero, il giornalino scolastico […] Il secondo fatto che reca un notevole contributo alla crescita pedagogica ed educativa di Stefania è la fondazione della rivista «Scuola e Città» nella quale sono affrontati i problemi derivati da una concezione pedagogica scaturita dalle esperienze stesse dei maestri coinvolti in prima persona, in un tentativo di rinnovamento morale e sociale da svilupparsi collettivamente con i colleghi […] Un ultimo cenno voglio dedicarlo al rapporto che Stefania Mori, in relazione della sua vicinanza con Alberto Ciampi, ha avuto con gli ambienti anarchici, fino a condividere le finalità sociali ed educative e a mischiarle con quelle della più moderna pedagogia (americana, inglese, francese, svizzera). Una educazione senza preconcetti, senza parole d'ordine, senza dogmi, una educazione insomma che faceva leva sulla capacità dei ragazzi di autoistruirsi e di autoelevarsi avvalendosi di tutte le forze che potevano dare un contributo al proprio arricchimento, compreso e incluso il supporto culturale di Stefania.“
L'esperienza toscana parte dalla sperimentazione e della interpretazione del territorio, dal coinvolgimento diretto della comunità. La scuola è di tutti ed i ragazzi, i genitori, i cittadini, sono un pezzo della società che insieme interagisce e cresce. Il volume ne tratteggia ampiamente l'evoluzione, le difficoltà, i traguardi. Si tratta di un libro che parla anche di paesaggio e territorio, di quel paesaggio e territorio che è stato fonte costante e riferimento per quella scuola di campagna, dove per oltre vent'anni si è sviluppato un processo di scuola libera e partecipata le cui tracce sono tutt'ora evidenti.
Alberto Ciampi
Contro la mafia, certo.
Ma anche contro l'antimafia
Giovane giornalista di Marsala, Giacomo Di Girolamo ama il suo lavoro e lo fa bene. Solamente che per il tanto amore al mestiere si è guadagnato solo nemici, prende schiaffi e querele da tutte le latitudini, non solo da loschi personaggi in odor di mafia, ma anche da chi sta nelle istituzioni.
Di Girolamo è un cronista scomodo. Molto scomodo, tant'é che non sta nelle grazie nemmeno di tanti suoi colleghi. Nella radio in cui lavora cura la trasmissione “Dove sei Matteo“, denuncia il malaffare immaginando di avere davanti il potentissimo boss, da decenni latitante, Matteo Messina.
Di Girolamo le canta e le suona a tutti, senza sentirsi un eroe, a schiena dritta, fa semplicemente quello che dovrebbe fare un normale cronista. E sarà per questo che chi lo stima (come chi scrive) lo avvicina al povero Peppino Impastato. Non ha torto quando riconosce che nel nostro Paese “il giornalismo non esiste più. Vive di aggiornamenti, di dirette continue, raccontiamo le cose mentre avvengono, ma ci scordiamo di spiegarle, ancora più spesso di interpretarle...“. Invece Di Girolamo, essendo un operatore dell'informazione irregolare, racconta i fatti spiegandoli ed interpretandoli, scrive scomodi libri di denuncia che si fanno leggere per la franchezza nel dire “pane al pane e brocco al brocco“.
Contro l'antimafia (Il Saggiatore, Milano 2016, pp. 243, Ä 17,00) è il suo ultimo lavoro dove, seppur abbandoni il tormentone radiofonico “Dove sei Matteo“, non rinuncia a interloquire col boss dei boss a cui subito confessa che la mafia (e lui) hanno vinto perché tutto l'apparato di contrasto che va sotto la dicitura di antimafia ha tradito il suo mandato. Dopo anni di infinite manifestazioni, di fiumi di pubblicazioni, di schiere di latitanti arrestati, di tanto parlare ed illuminare bisogna ammettere la resa. “Ieri dicevi antimafia e pensavi: riscatto, orgoglio, proposte, denuncia, oggi dici antimafia e pensi:vuota ritualità, protagonismo, sensazionalismo, corsa ai finanziamenti, bugie“.
L'antimafia è diventata una divisa che hanno voluto indossare in tanti, ma per finalità interessate, per puro protagonismo, per avere una corsia preferenziale ed entrare nelle stanze del potere, per fare affari come nel caso dell'imprenditrice ed attrice Rosi Canale che da paladina dell' antimafia è stata poi accusata per malversazioni di denaro pubblico oppure del magistrato Silvana Saguto che, annebbiata dai suoi poteri istituzionali, ha iniziato a gestire i beni confiscati alle cosce come se fossero suoi.
Per Di Girolamo l'antimafia è stata sconfitta dalle ostentazioni di apparenza, da “battaglie che non guardano al contenuto ma all'apparenza“. Dalla critica non viene risparmiata nemmeno Libera di don Luigi Ciotti, l'associazione bandiera della lotta alla mafia la quale - secondo il cronista e scrittore - ha intaccato sì il potere alla criminalità organizzata ma è andata subendo una degenerazione strisciante. Tra i tanti volontari e don Ciotti si è creata un'area di mezzo che non si riesce a capire cosa sia “se non una corsa al posto, al progetto, all'incarico, alla rendita da antimafia“.
Lasciano l'amaro in bocca le pagine di Di Girolamo perché sbattano in faccia una verità che non si vuol ammettere, perché ci fanno ricordare quelle tristi parole di Leonardo Sciascia: “Il potere fondato sulla lotta alla mafia, è molto simile, tutto sommato, al potere mafioso“. È un libro indigesto questo di Di Girolamo ma non catastrofico che chiude ad ogni speranza.
Secondo lui si può riaprire un'altra stagione dell'antimafia, basta non improntarla sugli slogan, sul settarismo di appartenenza, ma sul binario della cultura, su quella bellezza del sapere, dell'utopia di cui parlava Peppino Impastato.
Mimmo Mastrangelo
Cecità/
Un'ironica occasione di riflessione per tutti
I tedeschi, che da bravi tedeschi hanno un termine per tutto, la chiamano Schadenfreude: quella forma di piacere particolare che ci procura l'errore o la difficoltà altrui.
Ridere e far ridere delle altrui disgrazie è una forma di umorismo immediata ed elementare, non a caso quella che va per la maggiore tra i comici di casa nostra. Anche se è chiaro a tutti che il problema non sta lì (se davvero il limite di Brunetta fosse l'altezza, avremmo risolto la metà dei nostri guai), la disgrazia, il difetto, persino l'handicap dell'altro sono un bersaglio a portata di mano, immediato e facile.
Ridere e far ridere gli altri delle nostre disgrazie è questione più complessa e denota una capacità di auto-analisi ed elaborazione dei propri limiti non del tutto comune. Quando poi chi si guarda dentro è un cieco o un ipovedente, il paradosso linguistico assume un significato del tutto particolare.
Significa che costui, abbattendo pietismi e retoriche inutili, sta gettando il cuore oltre l'ostacolo, anzi, per stare in tema, oltre la barriera architettonica.
Perché la terra, come scrivono gli autori in prefazione, è “un pianeta democratico fondato sulla vista“ (l'aggettivo “democratico“ denota peraltro in loro la presenza di una buona dose di ottimismo) e chi non vede o vede pochissimo si trova inevitabilmente e continuamente alle prese con difficoltà in grado di smontare qualsiasi tentativo di vita più o meno “normale“.
Pianeta Ciecagna (END Edizioni Non Deperibili, Gignod – Ao, 2014, pp. 200, Ä 12,00) è un condensato di avventure esilaranti, i cui protagonisti rispondono agli emblematici soprannomi di Fanale Talpa e Pipistrello.
Nella realtà i tre si chiamano Sergio Prelato, Sergio Polin e Marco Pronello.
Per l'esattezza, due si chiamano e uno si chiamava: Sergio Polin è infatti morto con il suo cane guida un paio di anni fa, centrato da un'auto sulla corsia di sorpasso di un'autostrada dove si era infilato a piedi, per sbaglio, essendo appunto cieco.
Se non fosse così tragica, sarebbe l'ennesima avventura da raccontare nel libro. Invece ne è la premessa: delicata, dolcemente ironica, commovente.
L'occhio narrante segue i tre protagonisti lungo l'arco di giornate banalmente uguali a quelle di tutti, ma che a causa della mancanza di vista producono la sensazione di vite oltremodo avventurose. Dalla sveglia mattutina al rapporto con i colleghi, dall'attività sportiva alla relazione di coppia: gli equivoci, le incomprensioni, le situazioni assurde, gli imbarazzi, gli sguardi altrove, le buone intenzioni di chi vorrebbe dare una mano e non sa come fare, le domande stupide e quelle retoriche. Vederne il lato buffo o quello paradossale aiuta a sdrammatizzare una realtà fatta, per chi non vede, di ostacoli pratici, burocratici e di moltissima ignoranza.
Come dimostra questo dialogo, realmente avvenuto (come tutte le avventure narrate nel libro) su un mezzo pubblico di Torino:
“Mi scusi se mi permetto – intervenne uno seduto nella prima fila che aveva assistito alla scena e che stava per volare dall'altra parte del mezzo per colpa del guinzaglio che gli si era attorcigliato ad una gamba – Ma è un cane guida no? E non le legge i numeri del tram?“
Pipistrello lo mandò a cagare senza tante cerimonie e telefonò imbestialito a Fanale.
Fu Talpa che, mosso a compassione dalla sollecitudine di quell'uomo, incominciò a spiegargli:
“Guardi: una volta quel cane era mio e mi leggeva sempre i numeri dei mezzi. Quando arrivava l'uno abbaiava una volta, quando arrivava il quattro abbaiava quattro volte e così via. Il problema era quando arrivava il sessantatrè: ora che finiva le sessantatrè abbaiate il pullman era già partito, per non parlare delle volte che perdeva il conto e doveva ricominciare da capo! Allora ho deciso di sbarazzarmene e visto che non volevo sopprimerlo l'ho dato a lui con la consegna che non provasse mai più a leggere i numeri dei mezzi.“
L'altro, sentitosi preso per i fondelli, si ritirò in buon ordine in sé stesso e non aprì più bocca.“
Per capire quanto la vista sia considerata – da chi ce l'ha – lo strumento base per valutare il mondo, basti pensare agli innumerevoli modi di dire che tirano di mezzo gli occhi: “ci vediamo“ “a quattr'occhi“ “a colpo d'occhio“. Il senso della vista è il più immediato, quello che utilizziamo per primo nel giudicare il nostro prossimo e nel formarci un'idea di qualsiasi cosa; sovrasta di gran lunga altri sensi come tatto olfatto e gusto.
Pur essendo la cecità un handicap molto diffuso (in Italia esistono 350.000 ciechi ben 1,5 milioni di ipovedenti), non siamo affatto pronti a fare a meno della vista, né ad affrontare nel quotidiano chi non la possiede o la possiede in misura estremamente ridotta. Sapevate per esempio che in Italia c'è una giornata dedicata ufficialmente al cane guida per ciechi? Cade il 16 ottobre e la dice lunga sulla necessità di sensibilizzare sul tema, benchè esista una legge del 1974 aggiornata nel 2006, che ammette e regolamenta anche l'accesso del cane guida ai mezzi di trasporto e ai locali pubblici.
È di non tanto tempo fa il caso di un non vedente accompagnato dal proprio cane guida che si è visto rifiutato dai tassisti di Roma, così come frequenti sono le richieste di consulenza al CDG [Centro Nazionale di Documentazione Giuridica dell'UICI] da parte di non vedenti che non possono portare l'animale sul luogo di lavoro.
Così, come nella migliore tradizione giullaresca, la comicità diventa per gli autori di Pianeta Ciecagna anche strumento di denuncia; la tragicommedia allontana dal luogo comune, il dono dell'osservare pur non possedendo la vista si traduce in ironica occasione di riflessione per tutti, l'antidoto migliore al senso di colpa generato da un handicap considerato da molte culture una sorta di punizione.
Concetto questo già fortemente presente nella mitologia classica, dove il cieco spesso è tale per aver commesso un peccato, generalmente attinente al “troppo guardare“ o al guardare nel posto sbagliato. Come il povero Tiresia, colpevole di aver sorpreso Atena nuda nella vasca da bagno, e reso perciò immediatamente cieco dalla dea. La quale, toltagli la vista, gli dona in cambio la veggenza. Anche questa è convinzione radicata nel mito e nella leggenda: chi è privato della vista, viene ricompensato con altri doni non comuni.
A pensare ad alcuni grandissimi del presente e del passato, viene il sospetto che qualcosa di vero, sotto sotto, ci sia. Scienziati come Galileo Galilei e pittori come Monet dovettero ad un certo punto fare a meno della vista. Per non parlare di grandi cantanti e musicisti non vedenti come Stevie Wonder e Ray Charles. Eros Ramazzotti invece è solo un po' strabico. Tutto in proporzione?
Claudia Ceretto
A proposito del linguaggio/
Svalutarlo è un'operazione ideologica
Quando ho finito di leggere Il linguaggio come capro espiatorio dell'insipienza metodologica di Felice Accame (Odradek, Roma, 2015, pp. 458, Ä 40,00) ho pensato immediatamente che bisognerebbe costruire attorno a questo testo un corso di studi sul linguaggio e il pensiero in un centro, un'università, un'istituzione che attualmente non esiste ma che un giorno dovrebbe ben sorgere da qualche parte.
Leggere questo libro è come porsi nel centro di un crocevia, intricato ma ben strutturato, nel quale si intrecciano e poi si dipanano i temi trattati in oltre duemila anni di filosofia, gnoseologia, cognitivismo, linguistica, epistemologia, psicologia, neuroscienze, e naturalmente metodologia operativa, insomma in tutte quelle discipline che in vari modi - più o meno produttivi - studiano il pensiero e il linguaggio. D'altra parte è “il libro della vita“ come lo definisce lo stesso Felice Accame, un testo che raccoglie le riflessioni e le analisi della eccezionale attività di ricerca sul linguaggio e sul pensiero dell'autore dagli anni Sessanta ad oggi.
Il titolo del libro (i titoli di Felice Accame, da soli, meriterebbero perlomeno un seminario nell'utopistico centro studi di cui si diceva) pone il tema al centro del crocevia: in tutte le discipline analizzate, prima o poi, si arriva a sostenere la tesi che il linguaggio è di per sé difettoso, imperfetto, inadeguato. Capitolo dopo capitolo, Accame svela i motivi profondi di questa svalutazione, portando alla luce tutte le “insipienze“ metodologiche di cui ciascuna operazione svalutativa è sintomo.
Si comincia da Platone, dal Cratilo, naturalmente, una delle prime testimonianze dell'approccio filosofico al linguaggio che condizionerà fortemente le riflessioni successive. Nel Cratilo, come è noto, ci si pone il problema del rapporto tra linguaggio e realtà, ovvero se “per ciascuna cosa vi è una esatta denominazione che le è propria per natura“. Da questa domanda esemplare è possibile avviarsi lungo la strada che porta a svelare gli errori del realismo, da una parte, e dello scetticismo, dall'altra, grazie agli strumenti di analisi resi disponibili dalla metodologia operativa (l'analisi del raddoppio conoscitivo, l'idea programmatica di considerare il pensiero e il linguaggio come risultato di operazioni, le “reti correlazionali“, la distinzione tra operare “costitutivo“ e “consecutivo“, la definizione di che cosa si intende per “fisico“, “psichico“ e “mentale“, la differenza tra “funzione“ e “funzionamento“ e tra “organo“ e “funzione“, “mente“ e “cervello“...).
Si procede quindi verso altri luoghi e ci si avvicina a questioni più legate alla scienza e alle riflessioni metodologiche sul fare scienza. Così si analizza il rapporto tra linguaggio e matematica - secondo certa tradizione la più promettente candidata a curare una delle malattie considerate più gravi del linguaggio, la sua “ambiguità“ -, poi si procede con una disamina dei problemi legati al concetto di “evoluzione“ in biologia, da Platone a Darwin e a Gould, per arrivare ad analizzare tutta la questione della cosiddetta “incompletezza“, che è alla base della logica del Novecento, dai Principia Mathematica di Russel e Whitehead ai teoremi di Gödel. Sistemate queste annose questioni, dopo aver messo in luce gli errori metodologici, i paradossi e le insidie di ciascuna, si passa ad analizzare la linguistica e i vari problemi legati all'intraducibilità, all'ipotesi Shapir-Wolfe e alle diverse teorie che fanno della incomunicabilità la propria bandiera per chiudere sulle accuse di “diseconomicità“ del linguaggio che aprono alle ricerche sulle lingue perfette e utopistiche.
Di argomentazione in argomentazione - sempre seguendo il tema prescelto ma non disdegnando di prendere sentieri e strade secondarie oggetto di lunghe, analitiche e preziosissime note - Felice Accame, utilizzando il suo caratteristico stile antiaccademico e un po' sfrontato, fa piazza pulita di molti dei problemi posti tradizionalmente dalla filosofia e dalle diverse discipline. Ce ne sono di nuovi, di problemi, si badi, nell'approccio metodologico operativo assunto, e l'autore non è certo tipo da nasconderli, ma sono problemi affrontabili e strade che possono portare, perlomeno in linea di principio, da qualche parte: un bel progresso rispetto al vano percorrere strade che non vanno in nessun posto o che riportano inesorabilmente al punto di partenza.
Alla fine di questo lungo viaggio, dicevo, ho pensato alla necessità di creare un luogo dove si possa approfondire e studiare il modo operativo di pensare e analizzare. Creare un simile luogo sarebbe un atto politico, prima ancora che conoscitivo.
Il libro di Accame ci rende soprattutto estremamente consapevoli del fatto che la svalutazione del linguaggio è un'operazione profondamente ideologica e politica, volta a togliere a ciascuno di noi la possibilità di utilizzare con fiducia la propria mente delegando ad altro da sé la proprietà di essere “riferimento“. Come potrebbe la fantomatica realtà - di cui filosofi e scienziati parlano - essere indipendente dalla mente che la costituisce? Non può, sembra ovvio, e invece (e in questo testo si dà conto di interessanti ipotesi operative di Silvio Ceccato su come l'errore del “raddoppio conoscitivo“ si sia potuto insediare nella filosofia occidentale) in questo millenario errore si sistemano comodamente le ideologie e le politiche che pretendono di possedere una verità in qualche modo rivelata o garantita: le religioni, innanzitutto, con il ricorso ad un essere divino e superiore, ma anche certa scienza, che si dichiara l'unica in grado di leggere una Natura “scritta in caratteri matematici“ o che si richiama a un'oggettività garantita dalle strumentazioni e dall'osservazione “pura“, o tutte quelle narrazioni e spiegazioni che non esplicitano i propri criteri e riferimenti attribuendo valori e significati considerati dati e indiscutibili. In questo errore trovano terreno fertile inoltre tutte le numerose forme di scetticismo, secondo le quali, dal momento che la verità non è raggiungibile, tutto è sbagliato allo stesso modo, quindi qualunque regola ha la stessa validità di qualunque altra e anche la più terribile ingiustizia può avere una sua legittima giustificazione.
L'atteggiamento operativo, invece, ci consente di riappropriarci della responsabilità delle nostre operazioni, dei nostri pensieri, delle nostre percezioni e soprattutto delle nostre parole e del nostro linguaggio riconosciuto come un potente strumento per vivere e per porci in relazione con gli altri, per condividere e mettere alla prova le reciproche visioni, per negoziare i propri significati in un confronto aperto e trasparente in cui vengono dichiarati i punti di partenza e di arrivo e vengono definite e condivise le regole del vivere comune. Una visione compatibile con quella società più giusta e paritaria che molti di noi desiderano costruire.
Usciamo, dunque, dall'esperienza di questa lettura riconciliati e consapevoli del fatto che “non possiamo uscire da noi stessi“ come diceva Bridgman (Così stanno le cose, Odradek, 2011), ma che, appunto, non abbiamo nessun motivo per volerlo fare. Felici, piuttosto, di poter disporre degli strumenti che l'evoluzione ci ha reso disponibili e coscienti del fatto che dobbiamo coltivarli, rispettarli e lavorare responsabilmente per poterli utilizzare al meglio.
Margherita Marcheselli
Antispecismo/
Per la creazione di una società umana libera
Questo libro a cura di Adriano Fragano (Proposte per un Manifesto antispecista. Teoria, strategia, etica e utopia per una nuova società libera, NFC edizioni, Rimini, 2015, pp. 56, Ä 5,90) si pone l'obiettivo di “fornire delle possibili definizioni utili a chiarire e delineare l'identità antispecista e permettere migliori e più precise modalità di intervento nei rapporti umani intraspecifici e interspecifici“.
La genesi di Proposte per un Manifesto antispecista è stata complessa, è infatti “il risultato di un paziente lavoro di organizzazione e redazione di contributi raccolti da atti d'incontri pubblici, seminari, da scambi di opinioni e documenti“, più scritti personali dell'autore, che racconta: “Il progetto è nato otto anni fa e ho raccolto il materiale nel tempo anche su suggerimento di lettrici e lettori di Veganzetta, una buona parte del testo, poi, è opera mia“.
L'obiettivo dell'antispecismo è messo bene in luce nelle Proposte: “la creazione di una società umana libera“. Ne consegue che questo è un libro politico, se per politica s'intende l'avere un ruolo nella società, ma leggiamo anche “L'ottica antispecista pur essendo mutuata anche da quella della lotta per i diritti civili umani, presenta peculiarità e caratteristiche diverse e sostanziali“. E chiarisce anche che l'antispecismo è un movimento di liberazione, punta cioè alla libertà per tutte le specie, non alla riforma delle leggi che comunque ratificano lo sfruttamento.
Un altro punto importante toccato nelle Proposte è la questione se la pratica vegana sia indispensabile nel movimento antispecista. Molto chiaro Fragano su questo, che sembrerebbe scontato ma non lo è in un mondo influenzato da mezzi d'informazione pilotati verso un concetto di veganismo visto come mera dieta, o al massimo come uno stile di vita: il veganismo è un'utile prassi quotidiana della lotta antispecista.
La precisione del lessico usato nelle Proposte riveste un ruolo importante. Viene usato ad esempio il termine Umano/i perché “non s'intende utilizzare il sostantivo maschile uomo, in quanto termine carico di significati filosofici e culturali che volutamente pongono l'Umano al di sopra degli altri Animali, e che hanno un preciso riferimento e una visione patriarcale e maschilista della società umana“. Ma, insomma, alla luce di questa considerazione, come può essere definito l'antispecismo? “L'idea delle Proposte - dice l'autore - mi è venuta per via dell'esigenza che avevo - e ho - di fare chiarezza su molti aspetti dell'antispecismo che è una filosofia relativamente giovane e ancora in divenire“. “L'antispecismo - si legge nelle Proposte - è il movimento filosofico, politico e culturale che lotta contro lo specismo, l'antropocentrismo e l'ideologia del dominio veicolata dalla società umana“. Ecco, con chiarezza si può fugare ogni dubbio, l'antispecismo è un movimento, un movimento molto ampio, un movimento fatto da persone umane per le persone umane e non umane.
La scintilla rivoluzionaria del libro - che ne fa un punto di non ritorno fondamentale per chi si vuole avvicinare al pensiero e alla pratica antispecisti - è racchiusa nell'appello a cambiare radicalmente la società umana, contro il “diritto del più forte“, contro la discriminazione, la repressione, la violenza sui più deboli e indifesi, Animali e Umani. L'ideologia del dominio che contraddistingue il mondo degli Umani va abbattuta per sempre, per poter vedere un futuro più giusto e solidale, più libero per tutti.
Completano Proposte per un Manifesto antispecista le Definizioni utili e le FAQ (Frequently Asked Questions, domande frequenti) sull'antispecismo. Ma questo libro, seppur piccolo, è molto di più di un manuale e ogni pagina apre finestre su una visione profonda anche dei rapporti tra individui, dell'etica, della natura. Decisamente thought provoking, come si direbbe in inglese, le Proposte oltre a chiarimenti e risposte a tante domande, creano a loro volta altre domande e spunti per cercare di capirne di più.
L'autore ha dedicato il libro agli Animali che a causa sua hanno sofferto e perso la vita. “Perché come tutti noi - spiega - sono nato specista e ho causato volontariamente e involontariamente sofferenza e morte a molti Animali.
Dedicare a loro il libro mi pareva il minimo“. Ciò dovremmo ammetterlo tutti, e questo testo è stato scritto anche per noi, per tutti gli Umani che hanno deciso di guardare il mondo con altri occhi e di dare inizio al più grande e meraviglioso cambiamento possibile.
Costanza Troini
Rom bosniaci/
Discriminazioni e pregiudizi, compagni di viaggio
A dieci anni dalla pubblicazione, è sempre molto attuale il racconto di Velija Ahmetovic I Rom della Bosnia (Mobydick, Faenza, 2005, pp. 125, Ä 18,00). Non è usuale trovare un poeta tra i ergaši, il popolo delle tende. Le porta sempre con sé quelle sedici poesie scritte in lingua romaní, con la traduzione a fronte perché - dice - esprimono il sentire del mio popolo, quello dei rom Khorakhanè di Bosnia-Erzegovina, sconosciuto anche nella terra d'origine.
“Sono nato sotto una tenda / vicino a un fiume. Ero con mio padre e mia madre [...] Una piccola tenda ed un cavallo legato“. Velija è nato a Kralupi, all'inizio dell'estate del 1962. Il padre Selim, da buon ergaši, faceva il calderaio, stagnava le pentole, si spostava nei primi giorni di primavera con la “erga“, una tenda, per cercar lavoro, fino alla fine dell' autunno. La mamma Emina andava a “manghel“, chiedeva l'elemosina.
Negli anni Settanta, la famiglia lascia la “erga“ e si ferma a Celebici, un piccolo villaggio vicino Konijc. Costruisce una casetta, il padre cerca lavoro in una fabbrica, la madre vende vestiti usati al mercato. Fanno studiare i figli. Velija, dopo il diploma in una scuola professionale, lavorerà come fresatore, fino alla grande crisi economica degli anni Novanta. Molti, già trent'anni prima, avevano lasciato le proprie case per emigrare in altri Paesi a lavorare come venditori ambulanti. Nel 1991 in seguito alla guerra in Bosnia, rom bosniaci raggiungono la Germania e l'Olanda, Velija arriva in Italia insieme ad altri profughi. Dopo varie peregrinazioni, trova ospitalità a Rimini. Sposa Sofija, anche lei di famiglia ergaši, Avranno cinque figli.
Consapevole che l'analfabetismo ostacoli l'emancipazione, impedendo di migliorare le condizioni del proprio popolo, scrive: “Ho provato io a mordere questa mela, per far gustare a tutti il sapore della nostra vita“. La tradizione orale con Velija si traduce sulla pagina perché possa essere tramandata. Immagini inedite a colori raccontano la vita quotidiana intervallata dalle feste della tradizione, e vengono sottolineate le diverse peculiarità dei gruppi rom.
I Khorakhanè (lettori del Corano), il grande gruppo di rom della Bosnia- Erzegovina, sono ancora la minoranza più consistente. “Si comportano come i musulmani, nomi musulmani, qualcuno osserva le regole e comandi del Corano, come il ramadan. Ma il popolo rom tende ad adeguare la propria espressione di fede alla fede del popolo in mezzo cui vive“.
Ai ergaši, Kaloperi, Arlije - gruppi minori Khorakhanè - da secoli in Bosnia-Erzegovina, qualche decennio fa si è aggiunto il gruppo proveniente dal Kosovo e dalla Macedonia, un po' separato dagli altri. In tutto, settanta-ottantamila persone. “La maggior parte degli Arlije quando va a registrarsi agli uffici pubblici si presenta come gagiò, (non rom) anche per questo il numero dei rom bosniaci non è preciso“.
A differenza degli altri gruppi, la maggior parte dei ergaši non sa né leggere né scrivere. Oggi, siccome il mestiere di fabbro calderaio è poco richiesto dai gagè, molti praticano la raccolta del ferro e materiale riciclabile, o la pulizia delle strade.
Anche ai Kaloperi, piuma nera, - “kalò“ nera, “peri“ piuma - non interessano più i vecchi mestieri, cercano lavoro in fabbrica. Molti non conoscono la lingua romaní perché gli anziani non l'hanno insegnata ai figli. Un Kalopero di Viskom, città bosniaca: “In casa si parlava sempre la lingua bosniaca, ed ora io sono un rom che non sa parlare la sua lingua“. Non frequentano molto la scuola. Emigrati dopo i ergaši, hanno avviato attività commerciali soprattutto in Germania.
Gli Arlije, giunti dalla Turchia da qualche secolo, negli ultimi cento anni si sono stanziati in Bosnia ed Erzegovina in abitazioni di loro proprietà. “Sono i più istruiti tra i rom, molti terminano le scuole superiori, ma non si preoccupano dei diritti e del riscatto del popolo rom. Tendono a mischiarsi nel mondo dei gagè“.
Nel libretto - dalla grafica semplice e chiara, una scrittura agile, adatta anche alla lettura per bambini - Velija tratteggia, altresì, il percorso del popolo rom dall' India del nord, fino in Europa attraverso la Persia, l' Armenia e l'impero bizantino. L'arrivo nella ex Jugoslavia dei primi rom risale al 1362, confermato da un documento ritrovato a Dubrovnik, in Croazia. Poi dai Balcani giungono in tutta Europa, fino alla presenza in Italia, attestata nei documenti a Bologna nel 1422, a Forlì nel 1428.
Migrazioni di Paese in Paese testimoniate dalla lingua romaní derivata dal sanscrito, e dai prestiti linguistici dei luoghi nei quali soggiornavano, ma senza la possibilità di guadagnarsi la fiducia della gente incontrata.
Pregiudizi e discriminazioni hanno accompagnato i loro viaggi, culminati durante la Seconda guerra mondiale nel Porrajmos, lo sterminio nazista di rom e sinti. Velija vuole ricordare il frutto dell'alleanza degli ustascia, movimento di ispirazione nazionalista e fascista croato, con i nazisti tedeschi e fascisti italiani: l'eliminazione di ebrei, serbi e del 70% dei rom nei campi di concentramento di Jasenovac, costruito tra l'estate del 1941 e l'inverno del 1942 sulle rive del fiume Sava, al confine tra Croazia e Bosnia-Erzegovina.
Mette nero su bianco anche la strage del villaggio di Podorošac, vicino Konijc: dopo torture e sevizie vengono bruciati ventiquattro ergaši, tra cui donne e bambini. Unica fonte documentaria, la lapide posta dal comune di Konijc a ricordo dell'eccidio.
La storia di Velija si ripete. Insieme ad altre famiglie, dopo dieci anni di vita da campo in via Portogallo a Rimini, viene allontanato perché l'area non è autorizzata. “Ci hanno dato 23milioni per andarcene. Abbiamo comprato la terra, ma era ad uso agricolo e non ce l'hanno lasciata abitare. Stiamo ancora cercando una sistemazione“.
Nel recente incontro a Rimini con “Opera nomadi“ ribadisce: “Oggi il vero problema è il lavoro. Bisogna regolarizzare il lavoro che sappiamo fare, la raccolta del ferro, il mercato dell'usato. Altrimenti, come possiamo pagare le spese di un'abitazione? E poi la discriminazione c'è ancora. Se sanno che sei uno zingaro non ti danno il lavoro. Sta succedendo a mia figlia, fa la parrucchiera, contenta per il suo lavoro, ma si veste cercando di nascondere la sua origine. È costretta. Una tristezza.“ Continua: “Adesso raccolgo un po' di ferro, ma soprattutto incontro i ragazzi, invitato dalle scuole e associazioni. Parlo della nostra cultura, ma anche dei grandi problemi che ogni giorno dobbiamo affrontare. Così anche gli altri forse capiscono. Bisogna incontrarsi e conoscersi, l'unico modo per abbattere i muri“.
Claudia Piccinelli
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