Ricordando Jack Grancharoff/
Quell'anarchico bulgaro agricoltore e editore in Australia
Nato nel 1925 a Malko Tarnovo, nella provincia di Burgas, a
sud-est della Bulgaria (Tracia), in una famiglia di pastori
e contadini, Jelesko Grancharoff trascorre un'infanzia serena
caratterizzata dalla vita a contatto con la natura e da un rapporto
molto schietto con la madre. Spirito curioso e ribelle, fino
dalla più giovane età (13 anni) inizia a sperimentare
sulla propria pelle i metodi repressivi dell'apparato scolastico
zarista del monarca Boris III. Terminato il ginnasio a Burgas,
si iscrive al Partito Agrario di cui fonda la sezione di Malko
Tarnovo. Ad un dibattito tra il Partito Comunista e quello Agrario
rimane fortemente impressionato dalle parole del rappresentante
di quest'ultimo, un socialista rivoluzionario che predica di
“terra ai contadini e fabbriche agli operai”. Nello
stesso periodo inizia a frequentare elementi del panorama libertario
locale.
Nel 1944 il regime monarchico alleato dell'Asse italo-tedesco,
ormai allo sbando, viene abbattuto dalle forze filo-sovietiche.
Il nuovo governo viene formato dai comunisti filo-sovietici,
dagli agrari e da tutti i partiti ostili alla Germania nazista.
Grancharoff, in veste di rappresentante della gioventù
del Partito Agrario, collabora con i comunisti bulgari ma vuoi
per i metodi settari dei filo-bolscevichi, vuoi per le ricorrenti
notizie provenienti dall'URSS che narrano di repressioni a danno
degli emigrati bulgari, mantiene sempre nei loro confronti un
atteggiamento guardingo.
Con il ritorno da Mosca nel 1945 del leader comunista bulgaro
Dimitrov, si fa più marcata la deriva filo-sovietica
del governo e si acuisce la repressione contro i non allineati.
A causa dell'inasprimento del regime autoritario, nel 1947 Grancharoff
viene internato per sette mesi in un campo di concentramento
e condannato ai lavori forzati. Fuoriuscitone grazie al suo
passato di antifascista, viene però costantemente pedinato
da informatori del regime perché considerato un provocatore
e nemico del popolo.
Nel novembre del 1947, a seguito di un'amichevole segnalazione
(di un amico di famiglia arruolato nella milizia) scampa ad
un nuovo arresto e a una probabile esecuzione sommaria in carcere
fuggendo in Turchia in compagnia di un compagno. Dopo circa
due anni, di cui i primi sei mesi passati in segregazione, grazie
alla sua iscrizione all'International Refugee Organisation,
riesce a trasferirsi in Italia. Rimane per circa un anno nel
campo per rifugiati di Jesi facendo i lavori più disparati
(su una parete di casa esibiva con orgoglio il “Diploma
da pastore” rilasciatogli dalla Confagricoltori nel 1949).
La sua intenzione è quella di trasferirsi in Francia,
a Parigi, ma viene informato che la via transalpina è
preclusa ai libertari dal governo nazionalista di Ramadier.
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Jelesko “Jack the Anarchist” Grancharoff (5 luglio 1925 - 15 maggio 2016) |
Nel 1950, sebbene privo di passaporto, risponde ad una delle
numerose chiamate del governo australiano, che facilita l'immigrazione
di manodopera a buon prezzo da adibire ai lavori per le grandi
infrastrutture civili del dopoguerra, e si imbarca a Napoli
per trasferirsi in Australia con un contratto di lavoro della
durata di due anni. Qui giunto, dopo un primo periodo di isolamento,
inizia a prendere contatto con ambienti libertari e più
in generale della sinistra australiana, in modo particolare
nell'ambito dei gruppi etnici slavi, est europei e italiani.
A causa del suo attivismo viene costantemente, per anni sorvegliato
dall'A.S.I.O., agenzia dei servizi segreti interni. I vari governi
australiani succedutisi dal suo ingresso nel paese, gli negano
il rilascio di un passaporto e per decenni è costretto
allo status di apolide. Nel 1970 grazie a un permesso speciale
di sei mesi rilasciatogli grazie all'interessamento delle autorità
diplomatiche jugoslave ritorna in Europa con l'intenzione di
visitare la madre in Bulgaria, ma cavilli di ordine burocratico
glielo impediscono. Non rivedrà mai i genitori.
Trascorre quindi i sei mesi in Italia dove nei suoi peregrinaggi
su e giù per la Penisola conosce figure di spicco del
panorama libertario italiano (Giovanna Caleffi Berneri, Alfonso
Failla). Rari sono i viaggi in Europa almeno fino alla fine
dl XX secolo, quando finalmente gli viene concessa la cittadinanza
australiana. Il suo attivismo politico lo ha portato a creare
una vasta rete di contatti un po' in tutta l'Australia orientale,
dal Queensland al Nuovo Galles del Sud e fino al Victoria, e
lo ha visto promotore di svariati gruppi di matrice libertaria.
Ecologista della prima ora, sostenitore del movimento femminista,
figura chiave del cosiddetto “Sydney Libertarian Push”,
paladino delle istanze sociali dei lavoratori che hanno caratterizzato
la seconda metà del ventesimo secolo in Australia, è
stato fondatore delle riviste “Red&Black” e
“Anarchist” oltre che autore di innumerevoli opuscoli
ciclostilati con i quali ha diffuso in lingua inglese scritti
di Bakunin, Kropotkin, Malatesta, Stirner, Gorelik, Avrich,
Bookchin e tanti altri pensatori libertari.
Spirito indipendente e autonomo malgrado l'età avanzata,
viveva solo nella sua casa di Quaama, in aperta campagna, 400
chilometri a sud di Sydney, pur avendo mantenuto fino alla fine
stretti rapporti, soprattutto a Sydney e a Melbourne, con le
compagne e i compagni di una vita di lotta.
Sid Parissi, Peter Sheldon
e Danilo Sidari
Londra/
Educazione libertaria, strumento di cambiamento sociale?
L'educazione libertaria è realmente possibile all'interno di una società neoliberista? Perché le esperienze di educazione libertaria sono sempre rimaste marginali nella storia? Che ruolo può avere nel superamento dello stato di cose attuale? Per provare a rispondere a queste domande martedì 19 aprile 2016 si è tenuto a Londra il quarto appuntamento organizzato dall'Applied History Network (AHN, appliedhistorynetwork.wordpress.com). AHN è un gruppo costituito da ricercatori, dottorandi e archivisti dedicati allo studio e alla diffusione della storia radicale e antagonista. L'obiettivo di Applied History è quello di organizzare incontri gratuiti per affrontare, da un punto di vista storico-politico, dibattiti legati ad avvenimenti contemporanei.
Il titolo scelto per quest'ultimo incontro è stato “Educazione libertaria: esperimento marginale o strumento di cambiamento sociale?”. In precedenza, ad ottobre 2015, avevamo illustrato come la distorta rappresentazione e negazione del passato coloniale e imperialista britannico influenzi la società inglese; a dicembre 2015 avevamo dibattuto dell'importanza dello studio della storia della classe operaia per riportare l'antagonismo e la coscienza di classe tra i lavoratori; e infine – a febbraio 2016 – avevamo esplorato la possibile evoluzione del ruolo delle librerie radicali che da luoghi di resistenza sono sempre più vittime della gentrificazione e della competizione di grandi venditori online.
L'idea di organizzare un incontro sull'educazione libertaria è partita da un interesse personale sull'argomento in quanto ex-insegnante di scuola pubblica, e ha preso forma dopo aver osservato la grande partecipazione ai dibattiti su questo tema durante la scorsa Anarchist Bookfair di Londra (”A” 404, febbraio 2016). Infatti sempre più studenti, genitori ed insegnanti stanno valutando alternative alle scuole e università tradizionali che in Gran Bretagna – forse più che in Italia, e sicuramente da più tempo – subiscono un forte attacco liberista. Dall'innalzamento del tetto delle tasse universitarie a 9.000 sterline annue (circa 12.000 euro) all'introduzione bipartisan delle academy, che sono scuole finanziate dallo stato ma con larghissime autonomie sia al programma di studi che alle condizioni contrattuali dei lavoratori, e spesso sponsorizzate da trust privati.
Che ci sia interesse su questi temi è stato confermato dall'immediata popolarità del nostro ultimo dibattito: in pochissimi giorni abbiamo ricevuto oltre cento prenotazioni, e siamo stati costretti a chiudere la registrazione con largo anticipo. Tuttavia il nostro incontro non era un semplice seminario storico-divulgativo sull'educazione libertaria né un corso d'aggiornamento per soli addetti ai lavori. Il nostro fine era riflettere sul ruolo politico dell'educazione libertaria. Quindi, per affrontare l'argomento da diverse angolazioni, abbiamo invitato Judith Suissa: docente universitaria in filosofia dell'educazione presso l'Institute of Education – UCL, Ian Cunningham: co-fondatore del Self Managed Learning College di Brighton, Jenny Aster: ex alunna presso la White Lion Street Free School, e Alex Brown: co-organizzatore di Antiuniversity Now.
Risultati migliori o più solidarietà?
Judith ha aperto con una breve storia dell'educazione libertaria
che si collega inevitablimente agli sviluppi dell'anarchismo
ottocentesco, da cui prende elementi chiave come l'avversione
alle gerarchie. Altri principi fondamentali che la caratterizzano
sono l'assenza della frequenza obbligatoria e di un sistema
di premi e punizioni, così come di voti. Successivamente
Judith si è soffermata sulla differenza tra scuole libertarie
passate e contemporanee. Mentre la pedagogia delle prime scuole
anarchiche era parte integrante di un progetto politico prefigurativo
per la costruzione di nuove relazioni sociali, l'attenzione
si è poi spostata su aspetti importanti ma meno minacciosi.
Aspetti che, dall'ondata libertaria degli anni Sessanta, sono
stati adottati anche nelle scuole pubbliche britanniche. Esempio
ne è l'abbandono delle punizioni corporali e il coinvolgimento
del discente nel processo educativo. Se è indubbiamente
vero che le scuole di oggi sono meno autoritarie di quelle ottocentesche,
c'è tuttora – secondo Judith – il bisogno
di sfidare il discorso dominante sulla “efficacia”
della scuola: piuttosto che preoccuparci dei voti degli alunni
dovremmo recuperare l'idea di stabilire nuovi valori sociali.
Il secondo relatore, Ian, ha invece cominciato parlando delle
sue esperienze nel mondo dell'educazione: dai tempi in cui,
negli anni Sessanta, era attivo nel sindacato studentesco. Il
suo interesse per i diritti degli studenti l'ha poi portato
a creare una scuola che rispecchiasse tali concetti nella pratica
quotidiana. In aggiunta ha inglobato elementi importanti della
tradizione anarchica come il mutuo appoggio. Ed Ian è
orgoglioso di raccontare ai suoi ragazzi che proprio una visita
all'acquario di Brighton diede a Kropotkin una forte spinta
verso l'elaborazione della sua teoria del mutuo appoggio. Lì
l'anarchico russo osservò un gruppo di granchi industriarsi
per aiutare un loro simile capovolto e bloccato da una barra
di ferro. Così, partendo da questo esempio, il college
di Ian adotta pratiche come il tutoraggio autogestito tra studenti
affinché gli alunni imparino a preferire la cooperazione
alla competitività. Perché, sostiene Ian, l'educazione
non deve puntare a “risultati migliori” ma alla
felicità e ad un'alternativa alla competitività
neoliberista.
Jenny ha focalizzato il suo intervento sulla scuola da lei frequentata
negli anni Settanta ad Islington, un quartiere di Londra adesso
ricco di ristorantini e boutique ma all'epoca decisamente proletario.
Lì – come oggi a Brighton – erano gli alunni
a decidere se e cosa studiare, e non c'erano distinzioni di
genere o di ruolo, ma una grande attenzione alla cooperazione
e alla realizzazione delle proprie abilità. Infatti Jenny,
attualmente coordinatrice del servizio di consulenza presso
la City University di Londra, ha affermato che è solo
grazie alla White Lion se lei è diventata una persona
sicura e preparata emotivamente ad affrontare le sfide della
vita.
Infine Alex ha parlato di come Antiuniversity Now stia
puntando a recuperare l'eredità dell'Anti-university
che nel 1968 sperimentò forme alternative di educazione
post-scolastica. Uno stabile fatiscente in cui, per nove mesi,
si tennero corsi a pagamento sulle tematiche più diverse:
dalla musica sperimentale alla sociologia della rivoluzione
mondiale, dall'antipsichiatria a draghi e UFO. Anche se per
un breve periodo, l'antiuniversità diede vita ad una
comune di studenti e docenti in cui i ruoli erano fluidi e il
confine tra lezioni e feste a base di allucinogeni molto labile.
Secondo Alex, oggi come ieri c'è un grande bisogno di
una antiuniversità per opporsi al debito degli studenti,
alla mercificazione dell'educazione superiore, e alla conseguente
importanza data alle qualifiche professionali. Così,
l'anno scorso, gli organizzatori dell'Hackney Museum
e della Open School East (attiva a Londra est nella formazione
di giovani artisti e nel favorire uno scambio culturale all'interno
della comunità locale) hanno deciso di rilanciare l'esperienza
dell'antiuniversità con la creazione di Antiuniversity
Now. Così, come quasi 50 anni fa, l'idea è
quella di essere una piattaforma per idee che non trovano posto
nel formalismo del sistema universitario tradizionale. Ma, a
differenza dell'antiuniversità del 1968, tutti gli incontri
sono gratuiti (e meno “stupefacenti”). A novembre
2015 il loro primo festival ha raccolto più di 60 eventi
in tutta la Gran Bretagna con oltre 1100 persone, e l'ultimo
è stato organizzato il 9-12 giugno 2016.
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Londra (Gran Bretagna), 19 aprile 2016 - Da sinistra a destra, i relatori: Alex Brown, Jenny Aster, Judith Suissa, Ian Cunningham |
Esperimenti isolati o rete diffusa?
Per concludere, il pubblico ha contribuito ad avviare un vivace dibattito con numerosi commenti e domande per i quattro relatori. Ad esempio, alla domanda se individualismo e collettivismo fossero in un rapporto di tensione all'interno dell'educazione libertaria, Judith ha risposto che è così solo se si pensa che l'individuo possa esistere al di fuori del sociale. Un'altra domanda ha sollevato la questione della reale sfida posta da tali esperienze allo status quo visto che lo stato le tollera, ma Ian crede che tali esperienze svolgano il ruolo fondamentale di incarnare l'alternativa per “preparare” le persone al cambiamento. Alla fine le ultime riflessioni hanno richiamato l'attenzione sulla necessità di estendere l'educazione libertaria oltre le scuole (magari seguendo e migliorando il modello di Occupy) e agli adulti.
Ma allora, per tornare al titolo di questo incontro, chiedo a voi lettrici e lettori di “A” Rivista: dobbiamo rassegnarci ad un'educazione libertaria intesa come insieme di esperimenti isolati e per pochi o possiamo provare a creare una rete diffusa di (anti)scuole e (anti)università accessibili a tutti? Un'educazione libertaria che contribuisca al raggiungimento (e mantenimento!) di una società anarchica agendo su un piano culturale di concerto col tradizionale impegno anarchico nel mondo del lavoro e del sociale. In caso contrario, quando il sistema neoliberista finalmente crollerà – tra uno o cento anni, per spinte endogene o esogene – l'umanità riprodurrà l'unico sistema che conosce: quello attuale.
Luca Lapolla
Arte/
Cent'anni di dadaismo
Esattamente un secolo fa nasce a Zurigo DADA il più
importante movimento artistico di avanguardia del XX secolo,
al Cabaret Voltaire, inaugurato il 5 febbraio 1916. Anche nel
nome, DADA rigetta gli “ismi” dei movimenti che
lo affiancavano, un nome scelto a caso – come vuole la
caratteristica di tutta la sua arte – di cui nessuno ha
saputo, o voluto, fornire una corretta chiave di lettura o una
genesi documentata. DADA una sorta di ur-avanguardia, un archetipo
per ogni futura sperimentazione creativa, che intreccia definitivamente
il pensiero e l'azione anarchica al mondo dell'arte in generale
e a quella figurativa (se dopo DADA questo termine ha ancora
un senso) in particolare.
La furia distruttrice e creativa di DADA nasce da una contingenza
precisa: la fuga di molti intellettuali, anarchici, pacifisti
e artisti per sfuggire alla guerra e continuare la propria lotta
contro la follia capitalista con altri mezzi e dal loro esilio
in Svizzera; si conclude con la diaspora del gruppo e con l'adesione
di molti artisti all'esperienza surrealista, sua logica continuazione.
Ricordiamo che i fecondi rapporti tra l'arte figurativa e il
pensiero anarchico risalgono ai primi decenni del XIX secolo
e in particolare allo scambio di idee ed esperienze tra Gustave
Courbet, fondatore del Realismo in pittura, e Pierre-Joseph
Proudhon e precisamente dopo i moti del '48, nel '49 dopo che
Courbet chiede a Proudhon un commento di poche pagine per un
catalogo e una difesa per la sua opera Le retour de la conference
attaccata da più parti per i suoi forti contenuti anti-clericali.
L'opera venne rifiutata al Salon ufficiale di Stato ed
anche in seguito dal Salons des Refusés dove esponevano
gli artisti non convenzionali. Per assurdo venne poi acquistata
per mezzo di una colletta da alcuni cattolici “virtuosi”
che la distrussero. Fortunatamente ne restano alcune riproduzioni.
Da questo che doveva essere un piccolo pamphlet nacque
un testo di più di quattrocento pagine che partiva dall'arte
egizia e arrivava sino all'opera di Courbet: Du principe
de l'art et de sa destination sociale, apparso postumo dopo
la morte di Proudhon nel 1865.
Oggi il testo ci appare eccessivamente determinista e moraleggiante
e a tratti contraddittorio. Proudhon definisce l'arte «una
rappresentazione idealista della natura e di noi stessi in vista
del perfezionamento fisico e morale della nostra specie»
e si spinge a profetizzare – alla maniera platonica –
la cacciata dalla “città futura” degli artisti
che si ostinassero a dipingere esclusivamente per il proprio
piacere, senza uno scopo educativo o sociale. Una definizione
quella di Proudhon che oggi pochi artisti, anche se anarchici,
accetterebbero ma che ha influenzato sino alla fine del XIX
secolo – e in alcuni casi molto oltre – molti ambienti
libertari ed è stata feconda per la nascita di una grafica
e una pubblicistica anarchica che ha dato grandi risultati anche
nel campo estetico. Una visione dell'arte, quella di Proudhon,
più vicina alla critica marxista che a quella anarchica.
Dal Realismo nasce anche l'opera del secondo grande momento
dell'influsso anarchico sull'arte che coincide anche con la
massima diffusione dei movimenti sociali libertari, a seguito
soprattutto delle riflessioni sull'arte come strumento di libertà
di Michail Bakunin prima e Peter Kropotkin poi. Questo momento
si incarna nell'opera di Pissarro, dopo la Comune di Parigi
nel 1871, prima aderente al Realismo sociale e poi uno dei fondatori
dell'Impressionismo ed animatori del Post-Impressionismo. Da
queste esperienze deriva l'influenza dei principi creativi libertari
su gran parte delle avanguardie, dal Simbolismo all'Espressionismo
per arrivare, attraverso il primo Futurismo al DADA e al Surrealismo.
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La trama di fratture nel Grande Vetro visibile in un ritratto di Duchamp dei primi anni Sessanta |
È con DADA e il Surrealismo che l'influsso del pensiero
anarchico raggiunge il suo culmine e soprattutto attraverso
l'opera di Marcel Duchamp, terzo nome simbolico di questo percorso.
DADA nasce nel 1916, cento anni fa a Zurigo, nel Cabaret Voltaire
fondato dal regista teatrale Hugo Ball e animato da un gruppo
di fuorusciti europei che fuggivano dalla guerra: artisti, poeti,
pacifisti, anarchici e rivoluzionari che vi si riunivano per
organizzare incontri sperimentali di poesia astratta, rumore-musica,
pittura automatica. Tra gli animatori oltre ad Hugo Ball, già
fondatore in Germania della rivista “Die Revolution”,
di orientamento anarchico-insurrezionalista, spiccano Hans Arp,
Tristan Tzara, Marcel Janco, Richard Huelsenbeck e Hans Richter.
Ben presto DADA si diffonde a livello internazionale, in particolare
a Berlino, Colonia, Parigi e New York. Tra i protagonisti del
movimento ricordiamo anche i futuri surrealisti André
Breton, Paul Eluard e Louis Aragon, importanti artisti tedeschi
quali Hausmann, Baader, Heartfield, Grosz, Schwitters, Max Ernst
e Baargeld, e infine il francese Marcel Duchamp e lo spagnolo
Francis Picabia, che costituiranno il versante americano del
gruppo, cui si unirà Man Ray.
Gianluigi Bellei nel catalogo della mostra “Addio Lugano
bella” tenutasi al Museo d'arte di Mendrisio nel 2015
ha scritto che “DADA non è un movimento anarchico
vero e proprio – anche se alcuni dei suoi esponenti erano
attratti dal pensiero anarchico, come Hugo Ball e Hans Richter
che si sono interessati ai testi di Kropotkin e Bakunin –
“ma nonostante ciò è quanto di maggiormente
libertario si possa immaginare”. Al contrario di altre
organizzazioni rivoluzionarie non prospetta una soluzione estetica,
né politica, ma si prefigge di abbattere la cultura e
la società partendo proprio dalla distruzione totale
dell'arte stessa.”
Lo stesso Bellei, parlando dei cent'anni di DADA su la “Voce
Libertaria” afferma: “Oggi si celebra DADA, ma proprio
forse per questo DADA è morto”. Vero, se consideriamo
che opere come l'orinatoio, lo scola-bottiglie o tanti altri
ready-made di Duchamp, nati come provocazione effimera contro
il sistema dell'arte e all'epoca gettati nell'immondizia oggi
valgano cifre spropositate: naturalmente le copie, ricostruite
e firmate dall'artista nel secondo dopoguerra, qualche decennio
dopo, quando il mercato ne aveva bisogno...
Se escludiamo il periodo del ritorno al realismo populista delle
grande dittature e “il ritorno all'ordine” di molti
ex-artisti avanguardisti nel periodo tra gli anni Trenta avanzati
e il '45, DADA resterà il paradigma irrinunciabile di
ogni possibile avanguardia. Anche dopo il tentativo imperialista
Usa di riportare in Europa le vecchie avanguardie decotte che
erano rimaste in incubazione negli States dopo averle ben sterilizzate
e private di ogni spinta rivoluzionaria nel segno di una pura
restaurazione estetica. Questo processo innescherà la
nascita delle cosiddette seconde avanguardie che più
che ai riciclati maestri europei rifugiati in America guarderanno
ai meccanismi profondi della rivolta DADA. E penso piuttosto
all'espressionismo astratto americano o al Pop, ambiguamente
legate al mercato e alla esaltazione del consumo, all'Arte Concettuale,
agli Happening, alle Performances e soprattutto all'arte di
Joseph Beuys, il grande sciamano anarchico, padre di tutta l'arte
impegnata della fine del secolo scorso, ma anche ai Situazionisti,
degni successori del Surrealismo DADA, al gruppo CoBrA, a Fluxus,
alla Land Art, all'arte Povera e altri, sino all'oggi.
Franco Bunuga
Germania/
Gite anarchiche sulle orme di Bakunin
Nelle sue peregrinazioni prima dell'esilio siberiano, Bakunin
trascorre diverso tempo in Germania. Perciò non bisogna
stupirsi se ha lasciato anche qui alcune tracce del suo passaggio,
due delle quali verranno rievocate in queste pagine.
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Meiningen (Germania), Bakuninhütte (Rifugio Bakunin) - Foto scattata nell'agosto 2015 |
Il ricordo degli anarchici...
“Libera terra e libero rifugio/ libero spirito e libera
parola/ liberi uomini, libero uso/ mi attira sempre verso questo
luogo” - questi versi costituivano il motto della Bakuninhütte
(Rifugio Bakunin), un rifugio autocostruito e autogestito dagli
anarchici di Meiningen, piccola cittadina della Turingia, tra
gli anni Venti e l'inizio degli anni Trenta. Dopo averne riassunto
la storia su “A” (n. 396, marzo 2015), non si poteva
non visitarla alla prima occasione. Visto che all'epoca non
c'erano strade asfaltate che portavano nelle sue vicinanze,
le attiviste e gli attivisti trasportavano a braccia il necessario
per il rifugio da Meiningen, distante qualche chilometro: cibo,
acqua, birra, materiali per la sua costruzione e riparazione,
tutto quanto. È parsa così un'idea suggestiva
ripercorrere i loro passi, cercando di raggiungere la Bakuninhütte
direttamente da Meiningen senza utilizzare un autobus che ci
avrebbe portato molto più vicini alla meta.
Non avendo trovato nessuna indicazione “ufficiale”,
il percorso seguito è stato improvvisato in gran parte
sul momento. Le indicazioni complete per arrivare sono sul blog
escursionistisenzaconfini.wordpress.com. L'importante è
arrivare ad incrociare sull'Hohe Mass (500 m. d'altezza), dove
si trova la Bakuninhütte, il Mühsam Weg (sentiero
di Mühsam) dedicato, penso recentemente vista la palina
visibilmente nuova e appena messa, al poeta anarchico ucciso
nel campo di concentramento di Sachsenhausen nel 1934. Appena
si prende questo sentiero infatti le indicazioni diventano quasi
ossessive e in poco tempo spunta in una radura la Bakuninhütte.
Proprio nelle vicinanze c'è una lapide dedicata a Fritz
Scherer, anarchico berlinese che era stato custode del rifugio,
conservando e tramandando la memoria di quella esperienza alle
generazioni degli anni Sessanta e Settanta. Nelle vicinanze
è possibile fare liberamente campeggio (purtroppo non
c'è acqua lungo il percorso), con una bella vista che
si apre sulle colline boscose circostanti.
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Festung Königstein, nei pressi di Dresda (Germania) - La Torre della fame |
...e quello della cultura “ufficiale”
Se gli anarchici avevano voluto ricordare Bakunin in un luogo
autogestito in cui sperimentare e crescere insieme, la cultura
“ufficiale” tedesca lo ricorda invece in un ambito
decisamente diverso, direi più “ristretto”.
La Festung Königstein (Fortezza Königstein) si trova
ad una cinquantina di chilometri da Dresda, su una collina rocciosa
che domina l'Elba. Proprio davanti alla poco invitante “torre
della fame”, c'è il Castello Georg (Georgenburg),
che ospitava le prigioni della fortezza. Qui, a seguito della
sconfitta della rivolta di Dresda (3-9 maggio 1849), Bakunin
venne richiuso dal 28 agosto 1849 al secondo piano superiore
dell'edificio. In una lettera risalente a quei giorni inviata
a Mathilde Lindenberg (sorella dell'amico Adolf Reichel), Bakunin
notava ironicamente di avere fatto i conti su una più
lunga marea del movimento, ma di aver sbagliato i calcoli e
così il riflusso l'aveva portato a starsene nel punto
più alto della Sassonia, cioè la sua cella di
Königstein, dove studiava tra le altre cose trigonometria.
Pur minacciato da una condanna a morte, non sembrava insomma
perdere il suo spirito.
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Festung
Königstein, nei pressi di Dresda (Germania) - La vista del retro del Castello Georg |
Bakunin aveva soggiornato a Dresda a più riprese tra
il 1841 e il 1849, intrecciando negli anni relazioni con l'ambiente
culturale e rivoluzionario della città sassone sia di
lingua tedesca sia quello formato da rifugiati politici provenienti
dall'Europa orientale (cechi, polacchi, ecc.), amando la vista
sull'Elba e la vivacità della vita sulla Brühlsche
Terrasse. Qui visita anche la pinacoteca, con quella “Madonna
Sistina” di Raffaello che, secondo la “leggenda”,
Bakunin avrebbe voluto mettere sulle barricate insieme ad altri
quadri per impedire ai soldati prussiani, imbottiti di educazione
classica, di fare fuoco.
Su tutto questo, nella sala d'ingresso del castello c'è
solamente uno scarno e piuttosto triste pannello, con la riproduzione
di una foto di Bakunin conservata presso la biblioteca universitaria
di Dresda e una breve didascalia, che lo presenta come “uno
dei leader ideologici dell'anarchismo”. Disposti in un
circolo si possono leggere altri pannelli, sui quali scorrono
i nomi di altri prigionieri dal Cinquecento all'Ottocento, tra
cui ci sono alcuni sostenitori della costituzione degli anni
Trenta dell'Ottocento morti suicidi in un modo all'epoca considerato
a dir poco sospetto, i contadini rivoltosi della fine del Settecento
costretti a duri lavori forzati e il compositore August Röckel
(1814-1876), combattente durante la rivolta di Dresda, amico
di Bakunin e suo compagno di cella a Königstein.
Nonostante il suo ruolo nel corso degli eventi rivoluzionari
che sconvolsero Dresda, l'unico luogo in cui Bakunin viene qui
ricordato ufficialmente è la prigione dove venne richiuso.
D'altronde, come e dove si ricorda può svelare tante
cose – e, si potrebbe notare, meno male che ci sono gli
anarchici...
Per qualche lettura sul rifugio Bakunin si vedano le note dell'articolo
sull'articolo comparso nel n. 396 di “A” (marzo
2015). Per quanto riguarda le vicende di Bakunin a Dresda, città
in cui abitò a più riprese tra il 1841 e il 1849,
c'è l'interessante saggio Erhard Hexelschneider, Michail
Bakunin in Sachsen, “Osteuropa in Tradition und Wandel”,
(2001), n. 3, pp. 51-87, dove è riportata la lettera
citata scritta da Bakunin durante la prigionia. Hexelschneider
considera una “diceria” la storia di un Bakunin
disposto a sacrificare alla rivolta opere d'arte, nient'altro
che una leggenda scaturita da un passaggio delle memorie di
Alexander Herzen che dovrebbe essere inteso in senso ironico.
Altri hanno invece preso le parole di Herzen in modo assolutamente
serio, arrivando a dichiarare Bakunin un “anticipatore
dell'happening artistico”, come sostenuto da Gerd
Bruyn in Michael Bakunin, Gottfried Semper, Richard Wagner
und der Dresdner Mai-Aufstand 1849 (1995). Esistono anche
un altro paio di libri sull'argomento, purtroppo sempre in tedesco:
Bernd Kramer, Lasst uns die Schwerter ziehen, damit die Kette
bricht.... Michail Bakunin, Richard Wagner und andere während
der Dresdner Mai-Revolution 1849, Karin Kramer Verlag, Berlin,
1999; Wolfgang Eckhardt, Von der Dresdner Mairevolution zur
Ersten Internationale. Untersuchungen zu Leben und Werk Michail
Bakunins, Edition AV, Licht, 2005. Bakunin e Röckel
erano amici già prima della rivolta di Dresda e si frequentavano
quasi quotidianamente con un un certo Wagner, all'epoca entusiasta
rivoluzionario. Il futuro cantore di Sigfrido e dei Nibelunghi
riuscì all'epoca a sfuggire alla cattura rifugiandosi
a casa della sorella. A Wagner è stato dedicato, a differenza
di Bakunin, un museo e un monumento nei pressi di Dresda - piccole
differenze. Per una panoramica sulla rivolta di Dresda si può
invece vedere il volume: Dresden, Mai 1849. Tagungsband,
(a cura di) Karin Jeschke e Gundula Ulbricht, ddp-goldenbogen,
Dresden, 2000.
David Bernardini
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Festung
Königstein, nei pressi di Dresda (Germania) - Un esempio di cella del Castello Georg. In una cella del genere
venne richiuso Bakunin. Si noti la passione tedesca per i manichini
a grandezza naturale |
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