rivista anarchica
anno 46 n. 409
estate 2016





Ricordando Jack Grancharoff/
Quell'anarchico bulgaro agricoltore e editore in Australia

Nato nel 1925 a Malko Tarnovo, nella provincia di Burgas, a sud-est della Bulgaria (Tracia), in una famiglia di pastori e contadini, Jelesko Grancharoff trascorre un'infanzia serena caratterizzata dalla vita a contatto con la natura e da un rapporto molto schietto con la madre. Spirito curioso e ribelle, fino dalla più giovane età (13 anni) inizia a sperimentare sulla propria pelle i metodi repressivi dell'apparato scolastico zarista del monarca Boris III. Terminato il ginnasio a Burgas, si iscrive al Partito Agrario di cui fonda la sezione di Malko Tarnovo. Ad un dibattito tra il Partito Comunista e quello Agrario rimane fortemente impressionato dalle parole del rappresentante di quest'ultimo, un socialista rivoluzionario che predica di “terra ai contadini e fabbriche agli operai”. Nello stesso periodo inizia a frequentare elementi del panorama libertario locale.
Nel 1944 il regime monarchico alleato dell'Asse italo-tedesco, ormai allo sbando, viene abbattuto dalle forze filo-sovietiche. Il nuovo governo viene formato dai comunisti filo-sovietici, dagli agrari e da tutti i partiti ostili alla Germania nazista. Grancharoff, in veste di rappresentante della gioventù del Partito Agrario, collabora con i comunisti bulgari ma vuoi per i metodi settari dei filo-bolscevichi, vuoi per le ricorrenti notizie provenienti dall'URSS che narrano di repressioni a danno degli emigrati bulgari, mantiene sempre nei loro confronti un atteggiamento guardingo.
Con il ritorno da Mosca nel 1945 del leader comunista bulgaro Dimitrov, si fa più marcata la deriva filo-sovietica del governo e si acuisce la repressione contro i non allineati. A causa dell'inasprimento del regime autoritario, nel 1947 Grancharoff viene internato per sette mesi in un campo di concentramento e condannato ai lavori forzati. Fuoriuscitone grazie al suo passato di antifascista, viene però costantemente pedinato da informatori del regime perché considerato un provocatore e nemico del popolo.
Nel novembre del 1947, a seguito di un'amichevole segnalazione (di un amico di famiglia arruolato nella milizia) scampa ad un nuovo arresto e a una probabile esecuzione sommaria in carcere fuggendo in Turchia in compagnia di un compagno. Dopo circa due anni, di cui i primi sei mesi passati in segregazione, grazie alla sua iscrizione all'International Refugee Organisation, riesce a trasferirsi in Italia. Rimane per circa un anno nel campo per rifugiati di Jesi facendo i lavori più disparati (su una parete di casa esibiva con orgoglio il “Diploma da pastore” rilasciatogli dalla Confagricoltori nel 1949). La sua intenzione è quella di trasferirsi in Francia, a Parigi, ma viene informato che la via transalpina è preclusa ai libertari dal governo nazionalista di Ramadier.

Jelesko “Jack the Anarchist” Grancharoff
(5 luglio 1925 - 15 maggio 2016)

Nel 1950, sebbene privo di passaporto, risponde ad una delle numerose chiamate del governo australiano, che facilita l'immigrazione di manodopera a buon prezzo da adibire ai lavori per le grandi infrastrutture civili del dopoguerra, e si imbarca a Napoli per trasferirsi in Australia con un contratto di lavoro della durata di due anni. Qui giunto, dopo un primo periodo di isolamento, inizia a prendere contatto con ambienti libertari e più in generale della sinistra australiana, in modo particolare nell'ambito dei gruppi etnici slavi, est europei e italiani. A causa del suo attivismo viene costantemente, per anni sorvegliato dall'A.S.I.O., agenzia dei servizi segreti interni. I vari governi australiani succedutisi dal suo ingresso nel paese, gli negano il rilascio di un passaporto e per decenni è costretto allo status di apolide. Nel 1970 grazie a un permesso speciale di sei mesi rilasciatogli grazie all'interessamento delle autorità diplomatiche jugoslave ritorna in Europa con l'intenzione di visitare la madre in Bulgaria, ma cavilli di ordine burocratico glielo impediscono. Non rivedrà mai i genitori.
Trascorre quindi i sei mesi in Italia dove nei suoi peregrinaggi su e giù per la Penisola conosce figure di spicco del panorama libertario italiano (Giovanna Caleffi Berneri, Alfonso Failla). Rari sono i viaggi in Europa almeno fino alla fine dl XX secolo, quando finalmente gli viene concessa la cittadinanza australiana. Il suo attivismo politico lo ha portato a creare una vasta rete di contatti un po' in tutta l'Australia orientale, dal Queensland al Nuovo Galles del Sud e fino al Victoria, e lo ha visto promotore di svariati gruppi di matrice libertaria.
Ecologista della prima ora, sostenitore del movimento femminista, figura chiave del cosiddetto “Sydney Libertarian Push”, paladino delle istanze sociali dei lavoratori che hanno caratterizzato la seconda metà del ventesimo secolo in Australia, è stato fondatore delle riviste “Red&Black” e “Anarchist” oltre che autore di innumerevoli opuscoli ciclostilati con i quali ha diffuso in lingua inglese scritti di Bakunin, Kropotkin, Malatesta, Stirner, Gorelik, Avrich, Bookchin e tanti altri pensatori libertari.
Spirito indipendente e autonomo malgrado l'età avanzata, viveva solo nella sua casa di Quaama, in aperta campagna, 400 chilometri a sud di Sydney, pur avendo mantenuto fino alla fine stretti rapporti, soprattutto a Sydney e a Melbourne, con le compagne e i compagni di una vita di lotta.

Sid Parissi, Peter Sheldon e Danilo Sidari




Londra/
Educazione libertaria, strumento di cambiamento sociale?

L'educazione libertaria è realmente possibile all'interno di una società neoliberista? Perché le esperienze di educazione libertaria sono sempre rimaste marginali nella storia? Che ruolo può avere nel superamento dello stato di cose attuale? Per provare a rispondere a queste domande martedì 19 aprile 2016 si è tenuto a Londra il quarto appuntamento organizzato dall'Applied History Network (AHN, appliedhistorynetwork.wordpress.com). AHN è un gruppo costituito da ricercatori, dottorandi e archivisti dedicati allo studio e alla diffusione della storia radicale e antagonista. L'obiettivo di Applied History è quello di organizzare incontri gratuiti per affrontare, da un punto di vista storico-politico, dibattiti legati ad avvenimenti contemporanei.
Il titolo scelto per quest'ultimo incontro è stato “Educazione libertaria: esperimento marginale o strumento di cambiamento sociale?”. In precedenza, ad ottobre 2015, avevamo illustrato come la distorta rappresentazione e negazione del passato coloniale e imperialista britannico influenzi la società inglese; a dicembre 2015 avevamo dibattuto dell'importanza dello studio della storia della classe operaia per riportare l'antagonismo e la coscienza di classe tra i lavoratori; e infine – a febbraio 2016 – avevamo esplorato la possibile evoluzione del ruolo delle librerie radicali che da luoghi di resistenza sono sempre più vittime della gentrificazione e della competizione di grandi venditori online.
L'idea di organizzare un incontro sull'educazione libertaria è partita da un interesse personale sull'argomento in quanto ex-insegnante di scuola pubblica, e ha preso forma dopo aver osservato la grande partecipazione ai dibattiti su questo tema durante la scorsa Anarchist Bookfair di Londra (”A” 404, febbraio 2016). Infatti sempre più studenti, genitori ed insegnanti stanno valutando alternative alle scuole e università tradizionali che in Gran Bretagna – forse più che in Italia, e sicuramente da più tempo – subiscono un forte attacco liberista. Dall'innalzamento del tetto delle tasse universitarie a 9.000 sterline annue (circa 12.000 euro) all'introduzione bipartisan delle academy, che sono scuole finanziate dallo stato ma con larghissime autonomie sia al programma di studi che alle condizioni contrattuali dei lavoratori, e spesso sponsorizzate da trust privati.
Che ci sia interesse su questi temi è stato confermato dall'immediata popolarità del nostro ultimo dibattito: in pochissimi giorni abbiamo ricevuto oltre cento prenotazioni, e siamo stati costretti a chiudere la registrazione con largo anticipo. Tuttavia il nostro incontro non era un semplice seminario storico-divulgativo sull'educazione libertaria né un corso d'aggiornamento per soli addetti ai lavori. Il nostro fine era riflettere sul ruolo politico dell'educazione libertaria. Quindi, per affrontare l'argomento da diverse angolazioni, abbiamo invitato Judith Suissa: docente universitaria in filosofia dell'educazione presso l'Institute of Education – UCL, Ian Cunningham: co-fondatore del Self Managed Learning College di Brighton, Jenny Aster: ex alunna presso la White Lion Street Free School, e Alex Brown: co-organizzatore di Antiuniversity Now.

Risultati migliori o più solidarietà?

Judith ha aperto con una breve storia dell'educazione libertaria che si collega inevitablimente agli sviluppi dell'anarchismo ottocentesco, da cui prende elementi chiave come l'avversione alle gerarchie. Altri principi fondamentali che la caratterizzano sono l'assenza della frequenza obbligatoria e di un sistema di premi e punizioni, così come di voti. Successivamente Judith si è soffermata sulla differenza tra scuole libertarie passate e contemporanee. Mentre la pedagogia delle prime scuole anarchiche era parte integrante di un progetto politico prefigurativo per la costruzione di nuove relazioni sociali, l'attenzione si è poi spostata su aspetti importanti ma meno minacciosi. Aspetti che, dall'ondata libertaria degli anni Sessanta, sono stati adottati anche nelle scuole pubbliche britanniche. Esempio ne è l'abbandono delle punizioni corporali e il coinvolgimento del discente nel processo educativo. Se è indubbiamente vero che le scuole di oggi sono meno autoritarie di quelle ottocentesche, c'è tuttora – secondo Judith – il bisogno di sfidare il discorso dominante sulla “efficacia” della scuola: piuttosto che preoccuparci dei voti degli alunni dovremmo recuperare l'idea di stabilire nuovi valori sociali.
Il secondo relatore, Ian, ha invece cominciato parlando delle sue esperienze nel mondo dell'educazione: dai tempi in cui, negli anni Sessanta, era attivo nel sindacato studentesco. Il suo interesse per i diritti degli studenti l'ha poi portato a creare una scuola che rispecchiasse tali concetti nella pratica quotidiana. In aggiunta ha inglobato elementi importanti della tradizione anarchica come il mutuo appoggio. Ed Ian è orgoglioso di raccontare ai suoi ragazzi che proprio una visita all'acquario di Brighton diede a Kropotkin una forte spinta verso l'elaborazione della sua teoria del mutuo appoggio. Lì l'anarchico russo osservò un gruppo di granchi industriarsi per aiutare un loro simile capovolto e bloccato da una barra di ferro. Così, partendo da questo esempio, il college di Ian adotta pratiche come il tutoraggio autogestito tra studenti affinché gli alunni imparino a preferire la cooperazione alla competitività. Perché, sostiene Ian, l'educazione non deve puntare a “risultati migliori” ma alla felicità e ad un'alternativa alla competitività neoliberista.
Jenny ha focalizzato il suo intervento sulla scuola da lei frequentata negli anni Settanta ad Islington, un quartiere di Londra adesso ricco di ristorantini e boutique ma all'epoca decisamente proletario. Lì – come oggi a Brighton – erano gli alunni a decidere se e cosa studiare, e non c'erano distinzioni di genere o di ruolo, ma una grande attenzione alla cooperazione e alla realizzazione delle proprie abilità. Infatti Jenny, attualmente coordinatrice del servizio di consulenza presso la City University di Londra, ha affermato che è solo grazie alla White Lion se lei è diventata una persona sicura e preparata emotivamente ad affrontare le sfide della vita.
Infine Alex ha parlato di come Antiuniversity Now stia puntando a recuperare l'eredità dell'Anti-university che nel 1968 sperimentò forme alternative di educazione post-scolastica. Uno stabile fatiscente in cui, per nove mesi, si tennero corsi a pagamento sulle tematiche più diverse: dalla musica sperimentale alla sociologia della rivoluzione mondiale, dall'antipsichiatria a draghi e UFO. Anche se per un breve periodo, l'antiuniversità diede vita ad una comune di studenti e docenti in cui i ruoli erano fluidi e il confine tra lezioni e feste a base di allucinogeni molto labile. Secondo Alex, oggi come ieri c'è un grande bisogno di una antiuniversità per opporsi al debito degli studenti, alla mercificazione dell'educazione superiore, e alla conseguente importanza data alle qualifiche professionali. Così, l'anno scorso, gli organizzatori dell'Hackney Museum e della Open School East (attiva a Londra est nella formazione di giovani artisti e nel favorire uno scambio culturale all'interno della comunità locale) hanno deciso di rilanciare l'esperienza dell'antiuniversità con la creazione di Antiuniversity Now. Così, come quasi 50 anni fa, l'idea è quella di essere una piattaforma per idee che non trovano posto nel formalismo del sistema universitario tradizionale. Ma, a differenza dell'antiuniversità del 1968, tutti gli incontri sono gratuiti (e meno “stupefacenti”). A novembre 2015 il loro primo festival ha raccolto più di 60 eventi in tutta la Gran Bretagna con oltre 1100 persone, e l'ultimo è stato organizzato il 9-12 giugno 2016.

Londra (Gran Bretagna), 19 aprile 2016 -
Da sinistra a destra, i relatori: Alex Brown, Jenny Aster, Judith Suissa, Ian Cunningham

Esperimenti isolati o rete diffusa?

Per concludere, il pubblico ha contribuito ad avviare un vivace dibattito con numerosi commenti e domande per i quattro relatori. Ad esempio, alla domanda se individualismo e collettivismo fossero in un rapporto di tensione all'interno dell'educazione libertaria, Judith ha risposto che è così solo se si pensa che l'individuo possa esistere al di fuori del sociale. Un'altra domanda ha sollevato la questione della reale sfida posta da tali esperienze allo status quo visto che lo stato le tollera, ma Ian crede che tali esperienze svolgano il ruolo fondamentale di incarnare l'alternativa per “preparare” le persone al cambiamento. Alla fine le ultime riflessioni hanno richiamato l'attenzione sulla necessità di estendere l'educazione libertaria oltre le scuole (magari seguendo e migliorando il modello di Occupy) e agli adulti.
Ma allora, per tornare al titolo di questo incontro, chiedo a voi lettrici e lettori di “A” Rivista: dobbiamo rassegnarci ad un'educazione libertaria intesa come insieme di esperimenti isolati e per pochi o possiamo provare a creare una rete diffusa di (anti)scuole e (anti)università accessibili a tutti? Un'educazione libertaria che contribuisca al raggiungimento (e mantenimento!) di una società anarchica agendo su un piano culturale di concerto col tradizionale impegno anarchico nel mondo del lavoro e del sociale. In caso contrario, quando il sistema neoliberista finalmente crollerà – tra uno o cento anni, per spinte endogene o esogene – l'umanità riprodurrà l'unico sistema che conosce: quello attuale.

Luca Lapolla




Arte/
Cent'anni di dadaismo

Esattamente un secolo fa nasce a Zurigo DADA il più importante movimento artistico di avanguardia del XX secolo, al Cabaret Voltaire, inaugurato il 5 febbraio 1916. Anche nel nome, DADA rigetta gli “ismi” dei movimenti che lo affiancavano, un nome scelto a caso – come vuole la caratteristica di tutta la sua arte – di cui nessuno ha saputo, o voluto, fornire una corretta chiave di lettura o una genesi documentata. DADA una sorta di ur-avanguardia, un archetipo per ogni futura sperimentazione creativa, che intreccia definitivamente il pensiero e l'azione anarchica al mondo dell'arte in generale e a quella figurativa (se dopo DADA questo termine ha ancora un senso) in particolare.

Manifesto DADA

La furia distruttrice e creativa di DADA nasce da una contingenza precisa: la fuga di molti intellettuali, anarchici, pacifisti e artisti per sfuggire alla guerra e continuare la propria lotta contro la follia capitalista con altri mezzi e dal loro esilio in Svizzera; si conclude con la diaspora del gruppo e con l'adesione di molti artisti all'esperienza surrealista, sua logica continuazione.
Ricordiamo che i fecondi rapporti tra l'arte figurativa e il pensiero anarchico risalgono ai primi decenni del XIX secolo e in particolare allo scambio di idee ed esperienze tra Gustave Courbet, fondatore del Realismo in pittura, e Pierre-Joseph Proudhon e precisamente dopo i moti del '48, nel '49 dopo che Courbet chiede a Proudhon un commento di poche pagine per un catalogo e una difesa per la sua opera Le retour de la conference attaccata da più parti per i suoi forti contenuti anti-clericali. L'opera venne rifiutata al Salon ufficiale di Stato ed anche in seguito dal Salons des Refusés dove esponevano gli artisti non convenzionali. Per assurdo venne poi acquistata per mezzo di una colletta da alcuni cattolici “virtuosi” che la distrussero. Fortunatamente ne restano alcune riproduzioni.
Da questo che doveva essere un piccolo pamphlet nacque un testo di più di quattrocento pagine che partiva dall'arte egizia e arrivava sino all'opera di Courbet: Du principe de l'art et de sa destination sociale, apparso postumo dopo la morte di Proudhon nel 1865.
Oggi il testo ci appare eccessivamente determinista e moraleggiante e a tratti contraddittorio. Proudhon definisce l'arte «una rappresentazione idealista della natura e di noi stessi in vista del perfezionamento fisico e morale della nostra specie» e si spinge a profetizzare – alla maniera platonica – la cacciata dalla “città futura” degli artisti che si ostinassero a dipingere esclusivamente per il proprio piacere, senza uno scopo educativo o sociale. Una definizione quella di Proudhon che oggi pochi artisti, anche se anarchici, accetterebbero ma che ha influenzato sino alla fine del XIX secolo – e in alcuni casi molto oltre – molti ambienti libertari ed è stata feconda per la nascita di una grafica e una pubblicistica anarchica che ha dato grandi risultati anche nel campo estetico. Una visione dell'arte, quella di Proudhon, più vicina alla critica marxista che a quella anarchica.
Dal Realismo nasce anche l'opera del secondo grande momento dell'influsso anarchico sull'arte che coincide anche con la massima diffusione dei movimenti sociali libertari, a seguito soprattutto delle riflessioni sull'arte come strumento di libertà di Michail Bakunin prima e Peter Kropotkin poi. Questo momento si incarna nell'opera di Pissarro, dopo la Comune di Parigi nel 1871, prima aderente al Realismo sociale e poi uno dei fondatori dell'Impressionismo ed animatori del Post-Impressionismo. Da queste esperienze deriva l'influenza dei principi creativi libertari su gran parte delle avanguardie, dal Simbolismo all'Espressionismo per arrivare, attraverso il primo Futurismo al DADA e al Surrealismo.

La trama di fratture nel Grande Vetro
visibile in un ritratto di Duchamp dei primi anni Sessanta

È con DADA e il Surrealismo che l'influsso del pensiero anarchico raggiunge il suo culmine e soprattutto attraverso l'opera di Marcel Duchamp, terzo nome simbolico di questo percorso.
DADA nasce nel 1916, cento anni fa a Zurigo, nel Cabaret Voltaire fondato dal regista teatrale Hugo Ball e animato da un gruppo di fuorusciti europei che fuggivano dalla guerra: artisti, poeti, pacifisti, anarchici e rivoluzionari che vi si riunivano per organizzare incontri sperimentali di poesia astratta, rumore-musica, pittura automatica. Tra gli animatori oltre ad Hugo Ball, già fondatore in Germania della rivista “Die Revolution”, di orientamento anarchico-insurrezionalista, spiccano Hans Arp, Tristan Tzara, Marcel Janco, Richard Huelsenbeck e Hans Richter. Ben presto DADA si diffonde a livello internazionale, in particolare a Berlino, Colonia, Parigi e New York. Tra i protagonisti del movimento ricordiamo anche i futuri surrealisti André Breton, Paul Eluard e Louis Aragon, importanti artisti tedeschi quali Hausmann, Baader, Heartfield, Grosz, Schwitters, Max Ernst e Baargeld, e infine il francese Marcel Duchamp e lo spagnolo Francis Picabia, che costituiranno il versante americano del gruppo, cui si unirà Man Ray.
Gianluigi Bellei nel catalogo della mostra “Addio Lugano bella” tenutasi al Museo d'arte di Mendrisio nel 2015 ha scritto che “DADA non è un movimento anarchico vero e proprio – anche se alcuni dei suoi esponenti erano attratti dal pensiero anarchico, come Hugo Ball e Hans Richter che si sono interessati ai testi di Kropotkin e Bakunin – “ma nonostante ciò è quanto di maggiormente libertario si possa immaginare”. Al contrario di altre organizzazioni rivoluzionarie non prospetta una soluzione estetica, né politica, ma si prefigge di abbattere la cultura e la società partendo proprio dalla distruzione totale dell'arte stessa.”
Lo stesso Bellei, parlando dei cent'anni di DADA su la “Voce Libertaria” afferma: “Oggi si celebra DADA, ma proprio forse per questo DADA è morto”. Vero, se consideriamo che opere come l'orinatoio, lo scola-bottiglie o tanti altri ready-made di Duchamp, nati come provocazione effimera contro il sistema dell'arte e all'epoca gettati nell'immondizia oggi valgano cifre spropositate: naturalmente le copie, ricostruite e firmate dall'artista nel secondo dopoguerra, qualche decennio dopo, quando il mercato ne aveva bisogno...
Se escludiamo il periodo del ritorno al realismo populista delle grande dittature e “il ritorno all'ordine” di molti ex-artisti avanguardisti nel periodo tra gli anni Trenta avanzati e il '45, DADA resterà il paradigma irrinunciabile di ogni possibile avanguardia. Anche dopo il tentativo imperialista Usa di riportare in Europa le vecchie avanguardie decotte che erano rimaste in incubazione negli States dopo averle ben sterilizzate e private di ogni spinta rivoluzionaria nel segno di una pura restaurazione estetica. Questo processo innescherà la nascita delle cosiddette seconde avanguardie che più che ai riciclati maestri europei rifugiati in America guarderanno ai meccanismi profondi della rivolta DADA. E penso piuttosto all'espressionismo astratto americano o al Pop, ambiguamente legate al mercato e alla esaltazione del consumo, all'Arte Concettuale, agli Happening, alle Performances e soprattutto all'arte di Joseph Beuys, il grande sciamano anarchico, padre di tutta l'arte impegnata della fine del secolo scorso, ma anche ai Situazionisti, degni successori del Surrealismo DADA, al gruppo CoBrA, a Fluxus, alla Land Art, all'arte Povera e altri, sino all'oggi.

Franco Bunuga




Germania/
Gite anarchiche sulle orme di Bakunin

Nelle sue peregrinazioni prima dell'esilio siberiano, Bakunin trascorre diverso tempo in Germania. Perciò non bisogna stupirsi se ha lasciato anche qui alcune tracce del suo passaggio, due delle quali verranno rievocate in queste pagine.

Meiningen (Germania), Bakuninhütte (Rifugio Bakunin) - Foto scattata nell'agosto 2015

Il ricordo degli anarchici...

“Libera terra e libero rifugio/ libero spirito e libera parola/ liberi uomini, libero uso/ mi attira sempre verso questo luogo” - questi versi costituivano il motto della Bakuninhütte (Rifugio Bakunin), un rifugio autocostruito e autogestito dagli anarchici di Meiningen, piccola cittadina della Turingia, tra gli anni Venti e l'inizio degli anni Trenta. Dopo averne riassunto la storia su “A” (n. 396, marzo 2015), non si poteva non visitarla alla prima occasione. Visto che all'epoca non c'erano strade asfaltate che portavano nelle sue vicinanze, le attiviste e gli attivisti trasportavano a braccia il necessario per il rifugio da Meiningen, distante qualche chilometro: cibo, acqua, birra, materiali per la sua costruzione e riparazione, tutto quanto. È parsa così un'idea suggestiva ripercorrere i loro passi, cercando di raggiungere la Bakuninhütte direttamente da Meiningen senza utilizzare un autobus che ci avrebbe portato molto più vicini alla meta.
Non avendo trovato nessuna indicazione “ufficiale”, il percorso seguito è stato improvvisato in gran parte sul momento. Le indicazioni complete per arrivare sono sul blog escursionistisenzaconfini.wordpress.com. L'importante è arrivare ad incrociare sull'Hohe Mass (500 m. d'altezza), dove si trova la Bakuninhütte, il Mühsam Weg (sentiero di Mühsam) dedicato, penso recentemente vista la palina visibilmente nuova e appena messa, al poeta anarchico ucciso nel campo di concentramento di Sachsenhausen nel 1934. Appena si prende questo sentiero infatti le indicazioni diventano quasi ossessive e in poco tempo spunta in una radura la Bakuninhütte. Proprio nelle vicinanze c'è una lapide dedicata a Fritz Scherer, anarchico berlinese che era stato custode del rifugio, conservando e tramandando la memoria di quella esperienza alle generazioni degli anni Sessanta e Settanta. Nelle vicinanze è possibile fare liberamente campeggio (purtroppo non c'è acqua lungo il percorso), con una bella vista che si apre sulle colline boscose circostanti.

Festung Königstein, nei pressi di Dresda (Germania) -
La Torre della fame

...e quello della cultura “ufficiale”

Se gli anarchici avevano voluto ricordare Bakunin in un luogo autogestito in cui sperimentare e crescere insieme, la cultura “ufficiale” tedesca lo ricorda invece in un ambito decisamente diverso, direi più “ristretto”.
La Festung Königstein (Fortezza Königstein) si trova ad una cinquantina di chilometri da Dresda, su una collina rocciosa che domina l'Elba. Proprio davanti alla poco invitante “torre della fame”, c'è il Castello Georg (Georgenburg), che ospitava le prigioni della fortezza. Qui, a seguito della sconfitta della rivolta di Dresda (3-9 maggio 1849), Bakunin venne richiuso dal 28 agosto 1849 al secondo piano superiore dell'edificio. In una lettera risalente a quei giorni inviata a Mathilde Lindenberg (sorella dell'amico Adolf Reichel), Bakunin notava ironicamente di avere fatto i conti su una più lunga marea del movimento, ma di aver sbagliato i calcoli e così il riflusso l'aveva portato a starsene nel punto più alto della Sassonia, cioè la sua cella di Königstein, dove studiava tra le altre cose trigonometria. Pur minacciato da una condanna a morte, non sembrava insomma perdere il suo spirito.
Festung Königstein, nei pressi di Dresda (Germania) - La vista del retro del Castello Georg

Bakunin aveva soggiornato a Dresda a più riprese tra il 1841 e il 1849, intrecciando negli anni relazioni con l'ambiente culturale e rivoluzionario della città sassone sia di lingua tedesca sia quello formato da rifugiati politici provenienti dall'Europa orientale (cechi, polacchi, ecc.), amando la vista sull'Elba e la vivacità della vita sulla Brühlsche Terrasse. Qui visita anche la pinacoteca, con quella “Madonna Sistina” di Raffaello che, secondo la “leggenda”, Bakunin avrebbe voluto mettere sulle barricate insieme ad altri quadri per impedire ai soldati prussiani, imbottiti di educazione classica, di fare fuoco.
Su tutto questo, nella sala d'ingresso del castello c'è solamente uno scarno e piuttosto triste pannello, con la riproduzione di una foto di Bakunin conservata presso la biblioteca universitaria di Dresda e una breve didascalia, che lo presenta come “uno dei leader ideologici dell'anarchismo”. Disposti in un circolo si possono leggere altri pannelli, sui quali scorrono i nomi di altri prigionieri dal Cinquecento all'Ottocento, tra cui ci sono alcuni sostenitori della costituzione degli anni Trenta dell'Ottocento morti suicidi in un modo all'epoca considerato a dir poco sospetto, i contadini rivoltosi della fine del Settecento costretti a duri lavori forzati e il compositore August Röckel (1814-1876), combattente durante la rivolta di Dresda, amico di Bakunin e suo compagno di cella a Königstein.
Nonostante il suo ruolo nel corso degli eventi rivoluzionari che sconvolsero Dresda, l'unico luogo in cui Bakunin viene qui ricordato ufficialmente è la prigione dove venne richiuso. D'altronde, come e dove si ricorda può svelare tante cose – e, si potrebbe notare, meno male che ci sono gli anarchici...
Per qualche lettura sul rifugio Bakunin si vedano le note dell'articolo sull'articolo comparso nel n. 396 di “A” (marzo 2015). Per quanto riguarda le vicende di Bakunin a Dresda, città in cui abitò a più riprese tra il 1841 e il 1849, c'è l'interessante saggio Erhard Hexelschneider, Michail Bakunin in Sachsen, “Osteuropa in Tradition und Wandel”, (2001), n. 3, pp. 51-87, dove è riportata la lettera citata scritta da Bakunin durante la prigionia. Hexelschneider considera una “diceria” la storia di un Bakunin disposto a sacrificare alla rivolta opere d'arte, nient'altro che una leggenda scaturita da un passaggio delle memorie di Alexander Herzen che dovrebbe essere inteso in senso ironico. Altri hanno invece preso le parole di Herzen in modo assolutamente serio, arrivando a dichiarare Bakunin un “anticipatore dell'happening artistico”, come sostenuto da Gerd Bruyn in Michael Bakunin, Gottfried Semper, Richard Wagner und der Dresdner Mai-Aufstand 1849 (1995). Esistono anche un altro paio di libri sull'argomento, purtroppo sempre in tedesco: Bernd Kramer, Lasst uns die Schwerter ziehen, damit die Kette bricht.... Michail Bakunin, Richard Wagner und andere während der Dresdner Mai-Revolution 1849, Karin Kramer Verlag, Berlin, 1999; Wolfgang Eckhardt, Von der Dresdner Mairevolution zur Ersten Internationale. Untersuchungen zu Leben und Werk Michail Bakunins, Edition AV, Licht, 2005. Bakunin e Röckel erano amici già prima della rivolta di Dresda e si frequentavano quasi quotidianamente con un un certo Wagner, all'epoca entusiasta rivoluzionario. Il futuro cantore di Sigfrido e dei Nibelunghi riuscì all'epoca a sfuggire alla cattura rifugiandosi a casa della sorella. A Wagner è stato dedicato, a differenza di Bakunin, un museo e un monumento nei pressi di Dresda - piccole differenze. Per una panoramica sulla rivolta di Dresda si può invece vedere il volume: Dresden, Mai 1849. Tagungsband, (a cura di) Karin Jeschke e Gundula Ulbricht, ddp-goldenbogen, Dresden, 2000.

David Bernardini

Festung Königstein, nei pressi di Dresda (Germania) - Un esempio di cella
del Castello Georg. In una cella del genere venne richiuso Bakunin.
Si noti la passione tedesca per i manichini a grandezza naturale