rivista anarchica
anno 46 n. 409
estate 2016





Le tentazioni profetiche
del compagno scrittore


Due premesse

Una. Prima di diventare un insulto tramite il quale ridurre al silenzio qualunque persona onesta che si dimostri indignata e insofferente alla disonestà altrui – a maggior ragione se questa disonestà caratterizza Presidenti del Consiglio e loro codazzi –, la parola “giustizialista” aveva un significato politico se non onorevolissimo piuttosto preciso. Juan Domingo Peron governò l'Argentina due volte – dal 1946 al 1955 e dal 1973 al 1974, quando morì. Il suo partito – populista parafascista, presunto rappresentante di una presunta terza via fra capitalismo e socialismo – si chiamava Partito Giustizialista e come giustizialismo vennero conosciuti quei pochi scampoli di pragmatismo che ne contrassegnarono l'ideologia politica.
Due. In ambiti ingegnereschi e accademici, di interazione fra l'uomo e la macchina si parla fin dagli anni Sessanta del secolo scorso. A L'uomo e la macchina venne dedicato il XXI Congresso Nazionale di Filosofia, a Pisa, nel 1967 – un congresso che mobilitò in dibattiti accesissimi filosofi, fisici e analisti del linguaggio. Nelle relazioni e negli interventi successivi, però, la parola “interazione” – attestata in inglese fin dalla prima metà dell'Ottocento e in italiano intorno al 1950 - vi fu pronunciata poche volte e mai venne fatto uso dell'aggettivo – “interattivo” – che tanto successo avrebbe avuto molti anni dopo e che, tuttora, compare spesso nei nostri discorsi.

1.
Soprattutto al cinema, ma, spesso, anche nel leggere romanzi ci siamo imbattuti in note e noterelle, preposte o postposte alla narrazione in cui si diceva che “fatti e personaggi” caratterizzanti quest'ultima erano meri frutti di “invenzione narrativa”. Si tratta di atti di cautela, di scarico di responsabilità da parte dell'autore – non molto dissimili, in definitiva, da quelli di un Alessandro Manzoni che finge di aver trovato un manoscritto per raccontare i suoi Promessi sposi.
Anche Lodovico Festa, a conclusione della sua Provvidenza rossa (Sellerio, Palermo 2016), ci tiene a comunicare al lettore che i suoi “fatti” e i suoi “personaggi” sono il risultato della propria “invenzione narrativa”, ma, quando lo fa, l'impressione è che ormai i buoi siano scappati da tempo, perché il lettore attento, sagace, scrupoloso e ben informato sa ormai benissimo che parecchio di quel ben di Dio messo in tavola proviene direttamente dalla cucina della nostra storia.
Infatti, al centro della narrazione di Festa sta il Partito Comunista Italiano che ha costituito fin dal primo dopoguerra una società parallela a quella civile – con l'occupazione responsabilizzata di ogni settore della vita sociale – dalla produzione al tempo libero, dalla cellula Pci del centro di produzione Rai al circolo degli escursionisti proletari. Una burocratizzazione da cui nulla e nessuno poteva dirsi esentato – sia che per vivere rubasse fiori dalle tombe al Cimitero Monumentale o facesse l'entraineuse nei night. Ovvio che in questa società parallela – alla necessità – si possa anche provvedere ad indagini in proprio. Ed è quello che accade in seguito all'omicidio di una fioraia di via Procaccini iscritta al Pci - in un romanzo che, incarnato in questa doppia società, si snoda in parallelo tra indagini del Pci – svolte dal vicepresidente dei probiviri – e la polizia. Siamo nel 1977, peraltro: l'anno prima, alle politiche, con Berlinguer, il partito ha ottenuto il 34% dei voti (contro il 38% della Democrazia Cristiana) – guadagnandosi con ciò un rispetto sociale e istituzionale che non va scialacquato. Festa è stato un quadro del Partito Comunista Italiano e segretario della Federazione Giovanile. Come tale, conosce molto bene la materia: il sistema organizzativo, la macchina burocratica e la logica del suo funzionamento in rapporto al progetto politico – non sempre lineare, non sempre autonomo, peraltro – del Pci. Non farei gare fra la giallità del romanzo e la sua documentalità storica. Mi basta sapere e dire che, per essere documentati correttamente sulla vita associativa del comunisti milanesi e sul clima che si respirava all'epoca, il libro è perfetto.

2.
Lente d'ingrandimento alla mano, ci si rende conto, però, che la noterella conclusiva di Festa avrebbe dovuto riguardare ben altro. Non certo, dunque, né i fatti (plausibili, palesemente) né i personaggi (oggi forse meno plausibili, ma plausibilissimi all'epoca). No, Festa avrebbe fatto meglio a dire che alcune “argomentazioni” e alcune “parole” sono l'esito di un'invenzione narrativa. Così facendo avrebbe sollevato un problema che trascende il suo romanzo ma che, in pratica, investe l'intera letteratura nel momento in cui ha la pretesa di ricostruire il passato restituendocene qualcosa come “autentico”.

3.
All'usufrutto improprio di qualche argomentazione, a dire il vero, Festa un riferimento lo fa. Ma si limita a dirci che ha anticipato di qualche mese il telegiornale diretto da Curzi su Rai Tre o la problematizzazione dei rapporti fra sovietici e Afghanistan – ovvero confessa di aver piegato qualche dato storico a tutto vantaggio della logica argomentativa funzionale alla narrazione. Capita. Si tratta di scorciatoie – per far agire il Tale così e cosà e per rendere plausibile ciò che gli vien fatto fare, se ne modifica il contesto fino al punto di rendere quell'azione perfettamente conseguenziale. Non dovrebbe capitare, ma capita. Il livello delle improprietà che vorrei imputargli, tuttavia, è, per così dire, più sotterraneo e, soprattutto, funzionale a tutt'altro che alla logica narrativa.
Faccio qualche esempio. Ad un dato momento un “compagno” si permette una minacciosissima profezia – quella che, presto, molti compagni diventeranno reazionari. In un'altra circostanza, un altro prevede che le televisioni private si avvantaggeranno sulla televisione di Stato costituendo così un problema politico del tutto nuovo. In un'altra ancora c'è anche quello che scommetterebbe che nessuno riuscirà mai a rovinare il sacro manto erboso dello stadio di San Siro (che, come è noto agli appassionati di calcio, verrà poi, puntualmente, distrutto allorché si provvederà all'erezione del terzo anello). Di profezie del genere – risultato palese di un senno di poi – sono costellati i tanti dialoghi – ben adeguati ai tempi per altri versi – del romanzo.

4.
Più sotterraneo ancora – ad un livello di maggiore profondità – sta, poi, la questione delle parole usate dai personaggi che vengono “oggi” fatti parlare nel “1977”. In quest'ambito – quello della ricostruzione del linguaggio –, Festa è molto attento. Sa – si ricorda bene – come si parlava allora, sa come parlava in pubblico chi ricopriva determinati ruoli e come poteva rispondere chi a questi ruoli si sentiva subordinato. Tuttavia un paio di sviste le commette: fa dire ad un gesuita “forsennato giustizialista” e ad un altro personaggio fa pronunciare la parola “interattivo” – due espressioni che, nel 1977, avrebbero avuto ben poche probabilità di essere usate con quel significato tutto odierno che l'autore gli attribuisce. Il “giustizialismo” lamentato a gran voce dai manutengoli della corruzione e tutta questa “interattività” richiesta ai marchingegni della tecnologia, all'epoca stavano ancora scaldandosi nel calderone delle potenzialità linguistiche di massa. Attenzione: non voglio dire che “nessuno all'epoca avrebbe mai e poi mai potuto usare queste due parole”, no, perché, in fin dei conti, l'outsider linguistico – chi non si adegua al lessico dominante – è sempre esistito in qualsiasi contesto e può anche essere accettato, pertanto, nel milieu comunista milanese del 1977. No, io voglio dire che se qualcuno avesse usato queste due parole, avendole usate con altri, dato il loro scarso valore di scambio, avrebbe sentito la necessità di spiegarne il significato – più o meno come capita a tutti noi allorché usiamo un neologismo o quello che riteniamo esser tale per i nostri interlocutori.

5.
Per comprendere il senso di queste anticipazioni e le ragioni più profonde dalle quali, come un'esigenza imprescindibile provengono e urgono, tuttavia, occorrerà tornare a Festa e alla sua e non solo sua biografia di anima in pena dopo che, nei primissimi anni Novanta del secolo scorso avviene la liquidazione definitiva del Pci. Sparito l'apparato, ormai inservibile la mappa che l'orientava nella società parallela, l'ex comunista si ritrova alle prese con mille bizzarre avventure dello spirito: obbedendo all'obbligo morale di continuare a “fare politica”, accetta mascheramenti non sempre dignitosissimi, curvature ideologiche non sempre chiarissime e, soprattutto, per forza di cose, si ritrova accompagnato da ceffi non sempre rassicuranti che, magari, al tempo in cui sulla mappa ci si poteva giurare, sarebbero stati evitati come la peste.
Nel frattempo, poi, la società che si voleva liberare dalle storiche catene sembra sempre meno interessata a liberarsene. Anzi. Da persona intelligente e che si vuole un minimo di bene, come non guardare con una buona dose di ironia a tutto ciò? Come non versare qualche goccia di balsamo sulle ferite prima che facciano davvero male? La soluzione, in sé, è anche abbastanza semplice: si allunga la distanza fra sé e gli eventi, ci si tira fuori nei limiti in cui è possibile e si osserva con quell'occhio “antropologico” che garantisce correttezza di resoconto e indulgenza – un'indulgenza divertita perché intelligente e intelligente perché divertita – nei confronti dei resocontati.

Felice Accame