Una ragnatela di storie
In
questa puntata della rubrica Antropologia e pensiero libertario
voglio parlarvi di un lavoro che sto portando avanti da due
anni con Francesca Cogni. Il nostro lavoro si chiama Senza
confini, è il progetto di un libro – una “etnographicnovel”
– scritto e disegnato, che nasce dall'esigenza di raccontare
storie del nomadismo contemporaneo.
Io e Francesca sono quasi dieci anni che lavoriamo anche se
con differenti approcci alla ricerca sociale. Lei è una
videomaker e disegnatrice, io cerco di fare l'antropologo e
l'etnografo. Ci siamo conosciuti a Lampedusa nel 2013 e abbiamo
cominciato a dialogare ibridando i due approcci alla ricerca,
ma soprattutto ci siamo impegnati per trovare un modo innovativo
di restituire al lettore l'esperienza del ricercatore e quella
vissuta dai migranti del nuovo millennio.
Abbiamo lanciato da qualche mese una campagna di crowdfunding
per restare indipendenti. Con questa campagna di crowdfounding
vogliamo coprire i costi di produzione del lavoro (materiali,
viaggi, costi dei laboratori che stiamo facendo per la ricerca,
traduzioni...) e parte delle ore di lavoro, di disegno e scrittura.
Vogliamo
poi cercare un editore per il progetto, in modo da distribuirlo
in circuiti diversi da quelli già interessati al tema,
sfruttando anche il potenziale dato dall'uso del disegno, con
una particolare attenzione ad adolescenti e alle scuole. Il
lavoro sarà rilasciato con licenza Creative Commons,
se volete sostenerci potete dare uno sguardo alla pagina facebook
Senza confini o scriverci una mail (andreastaid@gmail.com).
Senza confini parlerà tra le tante storie di un pittore
congolese che sogna l'Africa dalla periferia di Milano; un giornalista
gambiano rifugiato politico in Italia, attivista e fondatore
dell'African Refugees Union e reporter del movimento dei rifugiati
a Berlino; un militante turco scappato dal carcere e dalle torture
di un governo autoritario; un “rifugiato al quadrato”
palestinese di famiglia, siriano di nascita, berlinese per necessità;
una rapper americana nata a Buffalo, cresciuta in Florida, emigrata
in California, poi in Italia e ora a Berlino che con i suoi
testi racconta i margini della società occidentale; una
ragazza rumena, che fa la volontaria in un casa del rifugiato
a Milano...
Una ragnatela di storie, interconnessioni, incontri transnazionali
dove la sola forma scritta non sarebbe riuscita a renderne la
complessità e la ricchezza. Per questo abbiamo deciso
di sperimentare una tipologia di racconto ampia e polimorfa,
che ibrida una scrittura etnografica con disegni, foto e frame
dell'esperienza vissuta in prima persona sul campo.
Siamo tutti umani
Un impegno che ci siamo posti come ricercatori è stato
quello di provare a uscire dalle categorie costruite dalle élite
dominanti: migranti, rifugiati, clandestini...
Abbiamo
voluto nel nostro lavoro decostruire queste categorie perché
crediamo che sia un'importante tappa per comprendere che siamo
tutti umani al di là delle appartenenze e differenze
culturali, etniche e biologiche.
In questa “etnographicnovel” c'è un importante
focus sul fenomeno del cosmopolitismo migrante, ovvero di tutte
quelle lingue parlate dai migranti che non hanno studiato in
scuole ufficiali ma hanno appreso il loro saperi nella scuola
della strada.
Ci siamo concentrati soprattutto su due città, Milano
e Berlino, dove abbiamo riscontrato similitudini e differenze,
ma una cosa che ci ha colpito è lo stato di limbo, l'attesa,
l'incertezza, la noia come parte integrante dell'esperienza
di un migrante, l'impossibilità di lavorare nell'attesa
del permesso di soggiorno, per esempio, che porta a uno stato
di annichilimento giornaliero.
Tante
forme di resistenza quotidiana
La privazione della sfera del “fare” è un
altro aspetto importante da sottolineare: ci siamo resi conto
che molte delle lotte dei migranti scaturite dalla non accettazione
della legislazione della “fortezza Europa”, non
rivendicano soltanto una carta, un permesso, ma rivendicano
la possibilità di agire, di “fare” per non
rimanere mesi, anni parcheggiati nell'impossibilità di
cambiare la propria situazione.
Abbiamo infatti incontrato tante forme di resistenza quotidiana
su piccola e grande scala, auto-organizzazione politica, tentativi
di raccontarsi in prima persona, rivendicare i propri diritti,
trovare strategie e percorsi per uscire dall'etichetta di “rifugiato”
e poter essere finalmente una persona. Il nostro lavoro non
vuole solo narrare i fatti, ci è sembrato importante
condividere con le donne e gli uomini incontrati racconti sulle
possibilità politiche di emancipazione e gli immaginari
in costruzione invece di costringerli ad interviste frontali
sul loro passato, il viaggio e la loro esperienza tragica.
Abbiamo ascoltato, parlato, mangiato, bevuto, scritto e registrato;
scambiato storie, lavorato, camminato insieme, disegnato e chiesto
loro di disegnare ricordi, sogni e desideri. Oltre a raccontare
i vissuti abbiamo immaginato una possibilità di avvenire
migliore, un mondo nuovo dove l'unico straniero diventi la discriminazione
e il razzismo.
Andrea Staid
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