Il silenzio delle cose
Le informazioni ci raggiungono. In questa rete infinitamente
connessa, le informazioni ci raggiungono indipendentemente dalla
nostra volontà di raccoglierle. Arrivano da sole, e ci
pare di comprenderle, perché in modo del tutto istintivo,
le riteniamo vere, pronte a essere fruite senza aver bisogno
di applicarvi alcuno spirito critico. Se non siamo molto attenti,
le pensiamo come fossero fatti, non manipolati, e ci fidiamo,
siamo pronti a formulare giudizi, tiriamo conclusioni, formuliamo
teorie. L'esercizio del dubbio è complicato: meglio la
fede.
Le informazioni che ci raggiungono, di questi tempi, non sono
quasi mai tranquillizzanti. Dunque, alla sensazione di essere
adeguatamente informati, si aggiungono due altri ingredienti
pericolosi: la paura e la presunzione di aver capito, che serve
appunto a tenere a bada la paura. Chi pensa da solo è
un soggetto, chi lo fa col gregge è soltanto un ingranaggio,
lo strumento consenziente di un potere.
Prendiamo i fatti di Nizza. Un camion, un franco tunisino sopra,
una festa (peraltro di grande valore simbolico), una folla ignara,
una rabbia a lungo repressa. Dopo, la conta dei morti, dei feriti
e dei dispersi. Il francotunisino morto è in automatico
un terrorista. E siccome è francotunisino, deve essere
islamico. E siccome è islamico, deve essere un guerriero
della fede.
A ragionare, a usare la testa, forse si potrebbe anche avere
il dubbio che il massacro, in se stesso ingiustificabile e inaccettabile,
potrebbe esser nato soltanto da una mente malata, da una vita
dissestata, da lacerazioni banalmente umane che hanno trovato
una via tragicamente sbagliata per esprimersi, Se solo l'omicida
fosse stato francese, o spagnolo, o comunque bianco e occidentale,
si sarebbe parlato di follia. Così, invece, si parla
di Islam. L'Islam è il male, la peste, il terrore, la
pianificazione del massacro. L'Islam è un'entità
indifferenziata, una kefiah e una sciabola insanguinata, l'uomo
nero che vuole sterminarci tutti, noi che siamo l'occidente
civile.
Il ragionamento, così concepito, non è un ragionamento,
ma una teoria formulata a risparmio energetico. L'errore sta,
io credo, nel medesimo malinteso che alla fine degli anni '70
lamentava Edward Said, in Orientalismo. Come allora,
ancora pensiamo, con la spocchia che discende dalla nostra presunta
civiltà millenaria, che l'Oriente sia una cosa sola,
una forma di (in)civiltà che noi, uomini saggi dell'Occidente,
non siamo riusciti a emendare. Per questa strada, che non abbiamo
mai smesso di percorrere nella Fortezza Europa, accantoniamo
il dubbio, quella forma di pensiero complesso che in altri tempi
e in altri luoghi ci ha aiutato a capire l'incomprensibile.
Abbiamo le risposte. Le formulano la superficialità tendenziosa
e folla talebana dei social per noi. Ci accodiamo, per pigrizia
e per non stare da soli. Piangiamo le vittime. Ci sentiamo buoni.
Poi continuiamo con la nostra vita.
In un romanzo molto bello, tragicamente profetico e per questo
scarsamente letto, Patrick Fogli racconta l'ipotetica esplosione
di atti di terrorismo immotivati che a poco a poco tengono in
ostaggio una società intera, generando il caos. In Io
sono Alfa, non vi è ideologia intellegibile, non
vi è una progettazione comprensibile, non c'è
un Islam con cui prendersela né un uomo nero da incolpare.
C'è solo violenza che pare inferta a caso. Bombe nelle
scuole, nei supermarket, nelle chiese durante i funerali delle
vittime. Cecchini che sparano dai tetti, scegliendo vittime
in apparenza a vanvera. Assassini che raggiungono le loro vittime
nelle case. Non c'è argine al caos. E combatterlo incrementando
le misure di sicurezza non serve.
Le vittime si sommano, e a poco a poco i corpi diventano solo
cose, da contare per poi disfarsene. Come oggi. Come qui e ora.
Di Nizza, sappiamo la conta delle vittime. Conosciamo a memoria
il video, abbiamo imparato la faccia dell'assassino. Tutto quello
che non sappiamo è nascosto nelle pieghe delle certezze
che ci vengono servite dai media. Non ci facciamo domande. Ci
rassicuriamo nell'illusione di sapere chi è il nemico.
E rassicurati, torniamo alla consueta vita, ignorante e irriflessiva,
delegando altri a pensare per noi.
E questo è il nodo: smettere di delegare altri a una
conoscenza che dovrebbe essere nostra, personale e sofferta,
ragionata, colma di dubbi, libera. La mente dovrebbe servire
a questo tipo di pensiero libero, e la cultura è cibo
per la mente.
Così, alla fine, torno a quello di cui sono convinta:
non può esistere alcun pensiero libero se dimentichiamo
di alimentare la mente con conoscenza reale e se rifiutiamo
di coltivare il dubbio come seme della comprensione. Quando
lavorava con Barenboim alla costituzione dell'orchestra di giovani
musicisti israeliani e palestinesi, Said trovava la sua determinazione
in un'affermazione soltanto: la conoscenza è il principio.
Il principio della comprensione, della costruzione, dell'incontro,
dell'integrazione.
La conoscenza è l'unica possibilità che abbiamo.
Altrimenti le tragedie diventano informazioni e i cadaveri sono
cose. Che fanno quel che fanno le cose: tacciono.
Nicoletta Vallorani
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