rivista anarchica
anno 46 n. 410
ottobre 2016


sport e fascismo

Atleti fascisti?
No, grazie

di Sergio Giuntini


Non solo alle Olimpiadi di Francia 1938. Proteste, canti antifascisti, a volte anche azioni violente accompagnarono spesso la partecipazione all'estero degli atleti italiani “ambasciatori del Fascio”.


Lo sport fu uno degli architrave su cui il fascismo eresse la propria struttura totalitaria. In tal senso le affermazioni riportate in questo campo - il secondo posto nel medagliere delle Olimpiadi di Los Angeles (1932), il titolo mondiale conquistato da Primo Carnera nel pugilato (1933), le due coppe “Rimet” vinte nel calcio (1934-'38) - vennero sempre strumentalizzate dalla propaganda per promuovere ed esaltare l'immagine internazionale del regime. Tant'è il Duce definiva gli atleti italiani impegnati fuori dai confini nazionali suoi “ambasciatori” all'estero. Una strategia che all'opposto, puntando su una sorta d'effetto boomerang, l'emigrazione politica si sforzò di contrastare sfruttando le trasferte delle rappresentative sportive italiane per inscenare delle eclatanti manifestazioni antifasciste e denunciare la vera natura della dittatura mussoliniana.

“Gli inni del sovversivismo”

Al riguardo si è soliti richiamare soprattutto le contestazioni di cui la nazionale “azzurra” fu oggetto ai mondiali calcistici del 1938 in Francia, ma gli esempi di segno analogo si sprecano e, ancor prima della Marcia su Roma, si registrarono svariati episodi di contestazione dello sport ufficiale coinvolto in competizioni estere. Contestazioni che, talvolta, ebbero per protagonisti degli stessi atleti italiani vicini ai partiti di classe. Il grande marciatore Ugo Frigerio, un fascista della “prima ora” essendo divenuto - da suo fruttivendolo di fiducia - amico personale di Benito Mussolini nel periodo in cui questi dirigeva a Milano il “Popolo d'Italia”, nei Giochi olimpici di Anversa (1920) s'impose trionfalmente sui 3 e i 10 Km in pista. Due vittorie celebrate nella sua autobiografia (1934), prefata per l'appunto da Mussolini, nella quale però - leggendo tra le righe - si rinviene anche questo interessante passo:
“Ho già detto” - scriveva Frigerio - “che correvano allora tristissimi tempi di pervertimento sociale. Eccone una prova. Nell'intervallo fra le eliminatorie, la batteria e la finale dei 10 km. avvenne che alla “Casa degli italiani” ad Anversa si verificarono incidenti tra un minuscolo gruppo d'atleti e maggiorenti del CONI. Il movente fu “Sua eccellenza il Rancio” [...]. I primi lamentavano a torto la penuria del... pane quotidiano, il quale era invece abbondante, ottimo e vario [...]. I secondi, dal canto loro, risposero naturalmente per le rime alle stolte provocazioni. Ma lo sparuto gruppo non si dette per vinto, e mentre una parte di esso si comportò sempre benissimo durante le visite alla città, i rimanenti, credendo fare opera meritoria e sfogare il loro insano spirito di parte, e magari ledere il nostro orgoglio nazionale, si misero a cantare gli inni del sovversivismo sotto l'atrio dell'italianissima “Casa” che ci ospitava.”
Secondo un altro testimone oculare, il conte Alberto Bonacossa che rivestiva degli importanti incarichi in seno al Comitato olimpico, quell'Olimpiade venne turbata anche da delle altre manifestazioni di grave offesa ai valori nazionali. “Si era - rivelò in un'intervista del 1932 - nella stazione di Anversa nel 1920, quando da un treno scesero in branco disordinato gli atleti nostri che dovevano partecipare alle gare olimpioniche di Tiro alla Fune. Il gruppo scamiciato si avviò all'uscita cantando “Bandiera Rossa”. Rammento la nostra vergogna e lo sguardo interrogativo delle autorità e la pietosa bugia pronunciata a denti stretti: dicemmo che si trattava di un inno popolare”. Gli “scamiciati sovversivi” rispondevano ai nomi di Adriano Arnoldo, Silvio Calzolari, Romolo Carpi, Giovanni Forno, Rodolfo Rambozzi, Carlo Schiappapietra, Amedeo Zotti e Beppe Tonani. Quel Tonani che, a quattro anni di distanza, da atleta dell'Associazione Proletaria d'Educazione Fisica (APEF) di Milano, tra i massimi - alzando 515,5 Kg - vinse l'Olimpiade di Parigi nel sollevamento pesi.
I fatti di Anversa destarono un notevole scalpore sia in Belgio che, ovviamente, in Italia. E la loro eco, nel 1921, filtrò persino in un racconto - Il vincitore di Maratona, contenuto in sua raccolta edita nel 1921 - del giornalista de La Gazzetta dello Sport Nino Salvaneschi:
“Nel cortiletto, intanto, vicino alle sale di massaggio, una ventina di atleti continuavano a cantare sino a sgolarsi l'Inno dell'Internazionale. “Alla riscossa/Bandiera Rossa/ trionferà”. Erano gli stessi campioni che avevano fatto la loro solenne entrata alla Casa degli atleti, al canto dell'inno rivoluzionario, e che alla vigilia della grande inaugurazione dell'Olimpiade, non avevano voluto sfilare insieme ai compagni, dietro alla bandiera dell'Italia e per omaggio a Re del Belgio. - Ma che bandiera d'Italia e Re del Belgio! - Non ci sono più bandiere, perché c'è quella rossa! - Non ci son più Re, perché il popolo è sovrano! - Non ci sono più bandiere d'altri paesi, perché c'è l'Internazionale!”
Il protagonista dello scritto di Salvaneschi era “l'anarchico Zanesi”, un podista proletario per cui valeva solo l'idea che “La patria è dove si mangia”. Zanesi il quale tuttavia, da vincitore a sorpresa di quella maratona olimpica, riscoprirà d'incanto il patriottismo, il valore del tricolore, emendandosi del suo turbolento passato politico. Salvaneschi ne fece insomma il simbolo e la parabola della sconfitta, sportiva oltreché socio-politica, del “biennio rosso”. Tornando al libro di Frigerio, ribattezzato dopo le vittorie del 1920 “Il fanciullo d'Anversa”, in esso viene così rievocata un'altra contestazione “antinazionale” risalente a una gara disputata nel 1922, durante una sua tournée agonistica in Danimarca:
“A Copenaghen per primo lanciai il grido di redenzione della nuova Italia di Mussolini. Solo e meschinissimo rappresentante d'una Patria grande, circondato da una torma d'invidiosi trasudanti sovversivismo da ogni cellula, marciavo ancora sicuro, fiducioso di far onore alla mia Italia...mentre in piccolo settore del capacissimo stadio, un esile imbelle gruppo di spettatori con parecchi atleti sfaccendati, attendeva il mio passaggio per canticchiare a mezza voce “Bandiera Rossa”. Non posso non dire che il mio cuore soffrì in quei momenti. Ma ormai l'esito del duello lo serravo in pugno, la vittoria poteva dirsi mia; e quando l'infiacchita voce della collera stentava il ritornello del disonore nazionale, il “Fanciullo d'Anversa”, rompendo il filo di lana, primo al traguardo, sconfiggeva i massimi e ripeteva forte alla folla il grido del vincitore del Carnaro: “Alalà! Alalà!” [...]. Per la bocca di un piccolo lombardo udivano, forse per la prima volta, il grido dell'avvenuta redenzione spirituale del loro popolo.”

Sotto il regime fascista

Con l'ascesa al potere del fascismo queste forme di opposizione si moltiplicarono e radicalizzarono. Ai campionati mondiali universitari di Parigi, nel 1927, l'ostilità verso i goliardi in orbace sfociò in veri e propri scontri fisici tra antifascisti italiani, spalleggiati da una parte del pubblico francese, e sportivi e accompagnatori fascisti. Incidenti che Bruno Zauli, un alto dirigente dello sport nel Ventennio subito riciclato dal presidente del CONI Giulio Onesti nel secondo dopoguerra, allora descriveva con questa prosa d'impronta tipicamente squadristica: “Vennero a migliaia i ranocchi francesi [...] fu un continuo gracidare di contumelie, di oltraggi e di offese contro i fieri rappresentanti del Fascio Littorio [...]. Ma nella tribuna centrale le cose avevano preso la loro piega naturale [...] per una buona mezz'ora s'udì il martellamento delle botte fasciste. Alla fine la canaglia fu cacciata nella rue”. Ancora: in un volume di Alberto Brambilla che ricostruisce accuratamente la storia ultracentenaria della Società Ginnastica “Pro Patria et Libertate” di Busto Arsizio, è contenuto un brano che merita una citazione riguardando il medesimo sport femminile:
“Invece al Concorso ginnico di Saint Nazaire del 1935 è stato tremendo. Quando siamo arrivate - riferiva l'allenatrice Maria Piantanida -, siamo state alloggiate in un lussuoso albergo [...]. Improvvisamente entrò nella camera una mia ginnasta e mi disse di correre al caffè dove tutte le altre ginnaste erano andate per gustare un gelato [...]. Naturalmente mi precipitai in quel locale. All'entrata vidi volare tavoli, tavolini, sedie... Tutte le mie ragazze erano immobili, al centro della sala, imperturbabili...; qualcuno, probabilmente immigrato italiano, fece cantare alle mie ginnaste “Giovinezza” e loro ubbidirono, sempre però rimanendo immobili nel putiferio causato da antifascisti. Al momento della partenza alcune ragazze, dopo quanto era accaduto, manifestarono segni di timore; in realtà, a nostra insaputa, eravamo da tempo tenuti sotto controllo, giorno e notte, da rappresentanti del Vice Console italiano di Nantes, per prevenire incidenti. Anche il giorno del nostro arrivo successe un piccolo episodio sgradevole; alcuni esiliati italiani, forse aderenti al partito comunista, ci impedirono di deporre una corona d'alloro sul monumento dei caduti di guerra. Ma noi, la mattina successiva, riuscimmo nel nostro scopo”.
All'interno di questa particolare casistica l'episodio più clamoroso, il 10 luglio 1928, ebbe per teatro il Concorso ginnastico maschile di Niedercorn in Lussemburgo. Alle gare, provenienti dall'Italia, parteciparono la “Francesco Ratti di Alessandria” e la “Forza e Costanza di Brescia”, classificatesi rispettivamente prima e seconda. Una spedizione salutata con questi toni enfatici dalle testate del tempo: “Il Ministro plenipotenziario d'Italia Comm. Monzani che aveva assistito al Concorso, ha avuto parole di viva lode per la bella manifestazione di forza e di italianità dimostrata dai ginnasti e all'indomani ha voluto ricevere le squadre ufficialmente nella sede della Legazione facendo servire un sontuoso rinfresco [...]. La manifestazione grandiosa di italianità e la gioia con la quale i connazionali di lassù circondarono i giovani ginnasti italiani che avevano portato il tricolore a così bella vittoria, ha servito indubbiamente a far meglio conoscere a quelle popolazioni le virtù delle rinnovata gente italica anche nel campo della educazione fisica”.

Morire nella risiera di San Sabba

Una simile retorica nazionalistica serviva probabilmente a rimuovere o a tentar di sdrammatizzare il motivo autentico per il quale quell'evento sportivo fece tanto parlare di sé. Scorrendo delle altre cronache affiorava infatti un'atmosfera assai diversa e tesissima: “I giornali politici - affermava l'organo federale Il Ginnasta - hanno già reso noto [...] il vile attentato di cui sono stati soggetti alcuni ginnasti della “Forza e Costanza” che hanno partecipato a questo Concorso. L'unanime esecrazione contro quei tristi malvagi attentatori ci dispensa dall'aggiungere altre parole [...]. Non appena conosciuto l'attentato la presidenza della Federazione subito telefonava all'On. Turati [...] per stigmatizzare l'odiosa imboscata fatta ai ginnasti da rinnegati fuoriusciti”.
La principale vittima dell'attentato fu Giovanni Mangiante, olimpionico a Parigi (1924), ferito alla testa da alcuni colpi di pistola mentre stava lasciando il terreno di gara - specificavano i quotidiani - intonando “il fatidico canto Giovinezza”. Con tale azione si prendeva di mira la “Forza e Costanza”, e uno dei suoi migliori ginnasti, per colpire in realtà Augusto Turati: il presidente del sodalizio sportivo vittima dell'agguato, nonché segretario del Partito Nazionale Fascista e prossimo a ricoprire anche la presidenza del CONI. Il bresciano Turati che si premurò d'inviare immediatamente un telegramma ai malcapitati ginnasti: “La bella maglia adorna del vecchio stemma e del Fascio - vi sosteneva - ha avuto in Lussemburgo la consacrazione della vittoria del sacrificio - stop - questo ci rende più orgogliosi e più forti - stop - vi abbraccio”. Il Popolo di Brescia, il 12 luglio 1928, intitolò invece così il pezzo che rendeva conto dell'accaduto: “Vile aggressione dei bolscevichi italiani nel Lussemburgo alla squadra della Forza e Costanza”.
Ma chi furono i veri autori di quell'attacco? A distanza di quasi novant'anni si è oggi in grado di dare qualche risposta certa a questo interrogativo. Da delle carte dell'Archivio di Stato di Brindisi si ricava infatti che uno dei sicuri attentatori fu Antonio Vincenzo Gigante, nato nella città pugliese il 5 gennaio 1901, importante dirigente nazionale sia sindacale che del Partito Comunista d'Italia (PcdI). Un quadro vicino a quell'area detta dei “tre” (Alfonso Leonetti - Pietro Tresso - Paolo Ravazzoli), considerata frazionista e filo trotskista, e che a seguito delle sue critiche mosse alla “svolta” che riteneva esistessero delle nuove condizioni rivoluzionarie tali da poter riportare la direzione del PCdI in Italia, fu sostanzialmente “scomunicata'', emarginata politicamente nel corso del Comitato Centrale comunista del 17-20 agosto 1930.
A comprovare le responsabilità di Gigante nell'attentato di Niedercorn è una missiva del Ministero degli Interni, datata 14 dicembre 1928 e trasmessa ai consoli d'Italia in Lussemburgo e a Bruxelles, al questore di Roma e al prefetto brindisino, che informava del fatto che Gigante “ha avuto un incarico speciale del suo partito riguardante la Confederazione Generale del Lavoro [...], porta adesso quasi abitualmente occhiali cerchiati all'americana [...], arrivò in Belgio nel mese di febbraio, passò in Lussemburgo e tornò precipitosamente a Bruxelles dopo l'aggressione agli sportivi italiani [...]. Non è improbabile che passò o sia passato clandestinamente in Italia [...] ma è difficile che si spinga sino a Roma”.
Gigante successivamente arrestato alla stazione Bovisa di Milano il 6 ottobre 1933, il 25 ottobre 1935 fu condannato dal Tribunale Speciale a vent'anni di carcere. Venne poi confinato a Ustica e, dopo la liberazione intervenuta con il 25 luglio e l'8 settembre 1943, combatté in Istria e Dalmazia con la Resistenza jugoslava. Rientrato in Italia fu un comandante partigiano in Venezia Giulia e per le torture subite morì a Trieste, nel campo di sterminio di San Sabba, nel gennaio 1945. Una medaglia d'oro della Resistenza la cui orazione funebre, con un ricordo consegnato al giornale triestino Il Lavoratore del 24 dicembre 1945, fu affidata ad Umberto Terracini.

Sergio Giuntini


Per saperne di più

AA.VV., Sport e fascismo a cura di M. Canella, S. Giuntini, Milano, Franco Angeli 2009.
Antonio Vincenzo Gigante nelle carte dell'Archivio di Stato di Brindisi a cura di A. Spagnolo, M. A. Ventricelli, Brindisi, Hobos Edizioni 2013.
A. Brambilla, Società Ginnastica Pro Patria Bustese Sportiva. Cento anni di storia 1881-1981, Busto Arsizio, Arti Grafiche M. Baratelli 1981.
U. Frigerio, Marciando nel nome d'Italia, Milano, Ufficio Tecnico Editoriale Pubblicitario 1934.
O. Castellini, A. Zanetti Lorenzetti, Società Ginnastica Bresciana “Forza e Costanza” 1886-1986, Brescia, F. Apollonio 1986.
N. Salvaneschi, Il knock-out di Rirette. Novelle sportive, Milano, Casa Editrice Italiana 1921.