memoria
La Resistenza tradita
di Renzo Sabatini
Attraverso il ricordo dei racconti del padre, partigiano comunista, di quelli che avrebbero voluto “finire il lavoro” e costruire una società migliore, davvero dalla parte dei lavoratori e degli sfruttati, il nostro collaboratore Renzo Sabatini affronta la questione della Resistenza tradita. E delle condizioni attuali del nostro Paese anche alla luce di quel taglio netto, mai avvenuto, tra il potere fascista e quello post-fascista.
“Siamo stati fortunati, noi. Siamo la prima generazione di italiani a cui non è stato chiesto di uccidere. Non abbiamo dovuto scegliere se uccidere o scappare”.
Così mi disse il Lupo in un giorno di autunno australe. Se ne stava sdraiato sul divano, i lunghi capelli bianchi sparsi sul cuscino. Guardava i pappagalli che beccavano le mele nel giardino.
Ma lo sguardo sembrava perdersi molto più lontano dello steccato. Correva l'anno 2005.
20 maggio 1981
“Quando penso che s'è fatto alle fucilate per costruire questo...”.
Come ogni sera papà se ne stava in poltrona davanti alla TV, col bicchiere di vino in una mano e la sigaretta nell'altra, le gambe poggiate su uno sgabello. La pelle bianca dei polpacci si intravedeva appena, anche col caldo di fine maggio indossava pantaloni lunghi, scuri, con la piega e una camicia appena aperta sul petto. Si vestiva come si vestivano allora i contadini che avevano lasciato la campagna per andare a lavorare in città, con abiti che sembravano sempre appartenere a qualcun altro. Solo poco più avanti, verso la fine, avrebbe mandato a quel paese la forma e lo si sarebbe visto facilmente in canottiera, calzoncini corti e sandali anche al lavoro, magari con un cappello di paglia in testa. Ed era molto più bello, più vero. Ma quella sera di primavera del 1981 no, ancora vestiva come chiedeva la decenza, anche se senza eleganza e sebbene avesse passato da poco i sessant'anni a me, poco più che ventenne, sembrava molto più vecchio.
La cenere formava, come al solito, una colonnina grigiastra pericolosamente in bilico, come una torre di Pisa fumante e inconsistente, prossima a sbriciolarsi sul bracciolo della poltrona. Lo sguardo severo era fisso sul notiziario della sera ma sembrava penetrare lo schermo e perdersi in qualche luogo remoto e lontano nel tempo. Aveva spesso quello sguardo rivolto al passato.
Quel giorno le notizie erano davvero inquietanti. La Repubblica, anche quella sempre in bilico e pronta a sbriciolarsi, sembrava ancora più traballante, infetta, minacciata da oscuri faccendieri, politicanti senza scrupoli, banchieri avidi, affaristi di ogni risma, generali golpisti e altri vecchi fascisti rimasti, come escrescenze purulente, nelle pieghe delle istituzioni, ancora intenti nelle loro trame. Dietro la faccia ebete del giornalista, intento a scorrere l'elenco degli iscritti alla loggia massonica, campeggiava lo sguardo enigmatico del maestro venerabile, fino ad allora anonimo tessitore di quelle trame. Pare che da quello sconosciuto fosse dipeso addirittura il destino stesso del paese.
In queste occasioni papà ricominciava con le sue vecchie storie: la guerra, la montagna, la liberazione, l'insurrezione sognata e finita male, le umiliazioni, i fascisti liberi e i partigiani in carcere. Era in questi casi che se ne usciva con quelle imprecazioni che noi figli ormai conoscevamo a memoria: “S'è fatto alle fucilate e non è servito a niente, La vita è stata solo una lotta e una delusione”.
A quel tempo papà era andato assumendo l'aspetto di un uomo dell'ottocento. Portava i capelli pettinati all'indietro e certi baffoni formidabili che non si vedevano in giro dall'inizio del secolo. Il fisico non era più quello della montagna, dopo le marce, gli stenti e le battaglie quel corpo aveva affrontato altre sfide e la pancia prominente testimoniava anni in cui, se non altro, la fame non l'aveva più fatta da padrona. Ma gli occhi scuri non erano stati segnati dal tempo, erano rimasti vivi e penetranti, audaci nel puntarsi addosso, spaventosi nei momenti di rabbia, brillanti e irresistibili nel sorriso. Il temperamento era rimasto quello di quegli anni lontani e quella sua furia sembrava stridere con un corpo ormai inadatto alle grandi sfide. “Si doveva finire il lavoro, andare fino in fondo. Invece ecco cosa siamo diventati, far la guerra non è servito a nulla, quelli che comandavano allora sono ancora lì. Ma se tornano a comandare loro, se torna il regime, io qui non ci resto, prendo il fucile e torno in montagna”.
L'amarezza nella voce a questo punto sfumava e arrivava il dolore allo stomaco. L'acidità della delusione, mista alla repulsa. Se ne andava allora bestemmiando a cercare l'Alka-Seltzer.
Bestemmiava profusamente e con una certa dose di fantasia e non c'è da stupirsene: era toscano e veniva da una famiglia contadina dove bestemmiare, per gli uomini, era come respirare. Si bestemmiava anche in chiesa, durante la messa. Ma loro alla messa c'erano andati poco. Nonno Giovanni, suo padre, contadino e giardiniere, era stato socialista, i preti e i fascisti li aveva sempre avuti sulle scatole e la tessera l'aveva rifiutata, cosicché nel ventennio la famiglia era stata presa di mira.
La guerra non l'aveva voluta
Il nove marzo del '40 papà era stato chiamato alle armi
ed era andato, perché quando ti chiamavano andavi, rifiutare
non era previsto. Ma la guerra l'aveva fatta malvolentieri,
cercando di scansarla il più possibile. L'avevano mandato
anche in Russia, ma da quella spedizione era tornato presto
e senza aver tirato un solo colpo, con un principio di congelamento
ai piedi che gli causò non pochi sospetti al rientro
in Italia e fu causa di cattiva salute fino all'ultimo giorno
della sua non troppo lunga vita. E per quanto mi ricordi non
era il solo guaio che si era portato dietro dalla gioventù.
Aveva anche un gomito sbilenco che gli impediva di stendere
completamente il braccio destro, frutto di una caduta giovanile
mal curata, come si curavano male allora le fratture dei poveri.
Grazie a quel gomito era stato messo in congedo alla visita
di leva, ma poi era scoppiata la guerra e quella menomazione
non era bastata a evitargli la chiamata. E poi c'era lo stinco,
quello sinistro, colpito di striscio da una maledetta pallottola,
in montagna, in uno di quei tanti giorni che si metteva a rischio
la pelle per cambiare questo benedetto paese. Unica cicatrice
visibile di una guerra di liberazione che di cicatrici ne aveva
lasciate tante altre dentro.
Insomma, sia stato per i cattivi scarponi, gentile dono del
governo fascista, o per un atto di autolesionismo compiuto a
bella posta per non finire nelle steppe gelide, fatto sta che
dalla campagna di Russia era tornato vivo, coi piedi doloranti,
inabile al combattimento e perciò destinato alle retrovie.
Niente più prima linea per lui, che la guerra non l'aveva
voluta e che in caserma s'era fatto persino arrestare per un'oscura
vicenda di vivande sottratte dal magazzino, ed era stato per
un po' a marcire nel carcere militare prima di tornare a marciare
per la patria.
Tornando da quella disgraziata campagna militare aveva pensato
che la guerra per lui fosse finita, ma non andò così.
E neanche il carcere era finito con i due mesi passati in cella
a Bologna. Ne avrebbe fatto ancora, ma per altri motivi.
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Firenze, 1948 - Aladino Sabatini, disoccupato |
10 settembre 1943
Ma per arrivare alla storia della seconda volta in cella, che è roba del dopoguerra, bisogna ricordare fatti precedenti, perché si può dire che quella storia cominciò molto prima, cominciò l'8 settembre del 1943. Tutti sanno quel che accade quel giorno: quell'assassino del maresciallo Badoglio firmò l'armistizio poi lui, il suo governo, il re, la corte e tutto il seguito fuggirono indecorosamente, lasciando l'Italia nelle mani dei nazifascisti e l'esercito allo sbando. I soldati italiani non sapevano che fare e i vecchi alleati tedeschi, diventati nemici da un giorno all'altro, cominciarono a catturarli a migliaia.
In quei giorni papà era di servizio in una casermetta in provincia di Padova. Si trattava di un piccolo presidio e l'8 settembre oltre a mio padre c'erano solo altri due militari: un tenente fannullone di nome Salvini e un ragazzo fiorentino, il Cecioni, un soldatino che non aveva ancora sentito fischiare una pallottola. In una cella c'erano dei prigionieri inglesi, catturati chissà dove, in attesa del loro destino. In una stanza chiusa a chiave erano conservate le armi e la cassa. All'annuncio dell'armistizio il Salvini si mise in abiti civili e si dileguò senza dir nulla. Papà e il Cecioni si consultarono sul da farsi. Dal comando non arrivavano istruzioni e cosa accadesse in giro per l'Italia non si sapeva. Muoversi sembrava imprudente, erano entrambi lontani da casa e decisero fosse meglio attendere lo sviluppo della situazione. Perciò spalancarono la porta della cella, dissero agli inglesi di levarsi di torno, interrarono la cassa coi soldi in una buca nel cortile e quando tutto fu fatto si sedettero al tavolino e si misero a giocare a carte.
Nel pomeriggio del 10 settembre la mitraglia tedesca cominciò a crepitare contro il presidio. S'erano fatti cogliere di sorpresa fra una mano e l'altra di tresette. Il Cecioni, pallido come uno straccio, si mise a tremare dalla paura, cercando di nascondersi dietro mio padre, che era saltato in piedi rovesciando il tavolo. Alla terza scarica un colpo passò sotto l'ascella di papà e si conficcò nel petto del Cecioni. La guerra è questione di sfiga. Quel colpo avrebbe dovuto ammazzare mio padre. Ci ho pensato spesso, anche se non serve a nulla: pochi centimetri più a destra e ti saluto, oggi non sarei qui a raccontarla. Ma è andata diversamente.
Papà comunque era uno col sangue freddo. Si girò a osservare con una certa meraviglia, sul muro dietro di lui, i segni dei proiettili. Si chinò a guardare il sangue che sgorgava dalla ferita sul petto del Cecioni. Dopo un istante si scosse e si diede da fare: in fretta trascinò il ragazzo agonizzante, lo sollevò su una brandina, gli tamponò al meglio la ferita; corse a prendere i moschetti e li distribuì alle finestre, quindi, correndo piegato in due da una finestra all'altra, si mise a sparare un fuoco regolare. Il tiro era impreciso ma dava l'impressione che la casermetta fosse presidiata da un nutrito gruppo di militi. Tutto per non far capire che era rimasto solo, per prendere tempo, nella speranza che arrivasse qualcuno a dare una mano. Ma non venne nessuno. Chi aveva potuto era fuggito per le campagne, chi non aveva fatto in tempo se ne stava rintanato in casa pregando e tremando.
Nessuna voglia di finire in Germania
All'imbrunire i tedeschi decisero di passare alle maniere forti e lanciarono un paio di bombe a mano. Fu allora che papà si rese conto che non c'era più nulla da fare; mise uno straccio bianco sulla cima del fucile e lo sporse, agitandolo da quel che restava della finestra. Agli ordini secchi di uscire con le mani dietro la testa pensò che fosse giunta la sua ora. Ma la guerra è questione di sfiga e di fortuna. I tedeschi rimasero sorpresi che dentro la casermetta ci fosse un solo soldato a sparare, lo guardarono con una certa ammirazione e a spintoni lo fecero salire su un camion assieme ad altri rastrellati nella zona. Il Cecioni invece lo abbandonarono agonizzante sulla brandina, senza neanche prendersi la briga di finirlo.
Poche ore dopo scaricarono tutti nel cortile di una grande caserma, in provincia di Verona. Il posto brulicava di centinaia di altri militari rastrellati nei dintorni e ne arrivavano continuamente di nuovi. Tutte braccia destinate ai lavori forzati in Germania per alimentare la folle macchina da guerra di Hitler.
Ma papà non aveva nessuna voglia di finire in Germania. Gli era rimasto negli occhi il volto del Cecioni, l'ultimo suo sguardo confuso, gli occhi velati e malinconici, mentre i tedeschi lo portavano via. Aveva dovuto lasciarlo lì a morire, tutto solo, sulla brandina imbrattata del suo sangue, con le mosche che lo tormentavano. Ripensandoci gli veniva la nausea. Deve essere cominciato allora quel dolore allo stomaco che non lo avrebbe lasciato per tutta la vita. Aveva solo voglia di mandare tutti a quel paese, governi e militari, e tornarsene a casa.
Le ore trascorrevano lente nel cortile affollato. Lente e crudeli. Poco cibo, latrine a cielo aperto, botte, ordini secchi, esecuzioni. Papà si aggirava cauto in quel girone infernale. Cercando di non attirare l'attenzione, studiava la situazione. Al secondo giorno aveva già deciso. L'idea s'era andata formando nel corso delle adunate, quando i nazi, ossessionati dall'ordine, due volte al giorno, all'alba e al tramonto, facevano l'appello. Al centro del cortile c'erano dei tombini, chissà perché scoperti. A buttarsi dentro al momento giusto, quando il tuo nome era stato già chiamato, si poteva sperare di farcela. Se tutto andava bene se ne sarebbero accorti solo all'adunata del mattino.
Così quella sera avvicinò un paio di commilitoni di cui pensava di potersi fidare e propose il piano. “Scappiamo dalle fogne”, disse. “Sei pazzo”, gli rispose bisbigliando il Curzi, pisano come lui. “Ci si rimette la pelle. Meglio andare a lavorare in Germania”. Papà spiegò con insolita pazienza: “Ho fatto il giro, ho visto; le fogne sono abbastanza grandi da poterci camminare dentro e sbucano giù al fosso, a est. Dopo il fosso, saranno venti o trenta metri, comincia il bosco. Di sera quel lato è buio, se ce la facciamo si torna a casa”. “E se non ce la facciamo finiamo davanti al plotone di esecuzione”, rispose Curzi. “Perché ti credi davvero di tornare vivo dalla Germania?”, rispose papà, ora con un tono più duro, anche se sempre bisbigliando. Il Curzi rimase a guardarlo con la bocca aperta. Se papà non avesse avuto quelle mani d'acciaio forse gli sarebbe saltato addosso. Invece se ne andò, senza dire altro. “Io ci sto”. Si intromise Gennaro Esposito, un soldatino napoletano magro, esile, che nella divisa logora sembrava ci portasse dentro solo le ossa. “Tanto se mi portano in Germania, col freddo che fa lì, non torno vivo lo stesso. Tanto vale provare”. A mio padre toscano o napoletano non importava, sotto le armi aveva imparato a non fare distinzioni.
Alla fine si misero d'accordo in tre: Gennaro Esposito, il sergente Cazzaniga, milanese, e mio padre. Non è che fosse un gran piano. Dopo l'appello i detenuti venivano fatti rientrare nelle baracche e negli attendamenti, ed era il momento di maggior confusione. Bisognava cercare di stare nel mezzo di un gruppo nutrito e farsi scivolare nel tombino senza far rumore, poi camminare nella fogna, con la merda fino al collo, raggiungere il canale, pregando Dio che lo sbocco fosse libero e che nessuna pattuglia passasse proprio nel momento in cui sarebbero sbucati all'aria aperta dal fetore. E così fecero.
La sera del terzo giorno, ormai era il 12 settembre, mio padre, protetto dagli sguardi dei carcerieri da una cortina di corpi stretti attorno a lui, si fece scivolare per primo nel tombino e si ritrovò subito a camminare e nuotare in una melma di avanzi di cibo ed escrementi putrescenti. Esposito lo seguì a breve. Di Cazzaniga non si seppe più nulla. Forse all'ultimo ebbe paura e non si gettò. Esposito spaventato, inorridito, soffocato, chiamava sottovoce nel buio: “Dove sei, aspettami!”. Mio padre, bestemmiando fra i denti, cominciò ad agitare le braccia fino a che assestò un colpo sulla testa al malcapitato: “Zitto! Porca... vuoi farci ammazzare?”, “Madonna santa, io qua ci muoio!”. Ma non ci morì.
Avanzarono al buio lentamente, senza fare rumore, nell'acqua putrida, perdendo il senso del tempo e l'orientamento. Le esalazioni erano insopportabili e mancava l'aria. Non so quanto tempo fosse passato quando finalmente sbucarono al canale. Molto, comunque, un tempo infinito da passare al buio, nella merda. Uscendo dal fetore della fogna l'acqua sporca del canale dovette sembrar loro una delizia. Si immersero per togliere le incrostazioni dalla faccia e dai capelli, riemersero e restarono in silenziosa attesa. Un fruscio e parole incomprensibili annunciarono il passaggio della ronda tedesca. I due fuggiaschi rimasero a lungo immobili e quasi del tutto sommersi, aspettando di sentire svanire le voci in lontananza. Poi, finalmente, nuotarono attraverso il canale, si issarono cautamente sull'altra sponda e cominciarono a correre verso il bosco.
Dal Veneto alla Toscana
Non so quale santo abbia protetto quella fuga così improbabile, precipitando due soldati sgarrupati e puzzolenti verso un futuro incerto. Sta di fatto che, dopo una corsa senza fine, un bagno in un fontanile e un provvidenziale cambio di abiti trovati stesi nel cortile di un casolare frettolosamente abbandonato i due, chi pregando, chi bestemmiando, ma comunque sempre sottovoce, cominciarono il ritorno verso casa, dirigendosi verso sud. Si separarono due giorni dopo nei pressi di un paese, vicino a una stazioncina dove Esposito, stanco e agitato, aveva deciso di rischiare il tutto per tutto pur di accelerare la sua corsa verso casa. Di lui, come di tanti altri, papà non seppe mai che fine avesse fatto. Se raggiunse Napoli o se fu invece arrestato da qualche pattuglia sul treno. Se fu spedito comunque in Germania o se il suo corpo fu lasciato a marcire sui binari. Se fu arruolato dai repubblichini o se invece imbracciò un fucile nelle giornate gloriose e terribili della liberazione di Napoli. La guerra era così, come la vita. Si conosceva gente, si facevano assieme cose incredibili per sopravvivere, fino a raggiungere un'intimità altrimenti impensabile; si dormiva, si mangiava, si correva, ci si nascondeva, si cagava assieme e tutto il resto e magari ci si raccontavano la vita e i sogni. Ma poi ci si perdeva di vista e non si sapeva più nulla del destino degli altri conosciuti in momenti così disperati.
Non ho mai saputo di preciso quanto ci mise papà a tornare a casa, né da dove passò. I contadini sapevano raccontare ma avevano uno strano senso del racconto. Il tempo, lo spazio, li usavano come pareva a loro, per rendere più interessante il tutto. Ma non erano racconti con una cronologia precisa, una geografia dettagliata. Comunque lui non si fece sedurre da eventuali mezzi di trasporto che davano troppo nell'occhio e se la fece tutta a piedi, giù, giù, da quel posto in Veneto fino alle sue campagne in Cenaia, in provincia di Pisa. Camminava la notte lungo strade secondarie o per i campi, prudente come un serpente. Di giorno trovava qualche riparo e cercava di scordare i morsi della fame dormendo.
Ogni tanto, quando era troppo esausto, bussava alla porta di qualche casa isolata per chiedere un tozzo di pane e un po' di paglia per stendersi. Fu in una di queste occasioni che si trovò di nuovo a tu per tu con i tedeschi, e quella sosta gli fu quasi fatale.
Doveva essere già l'Appennino. Aveva trovato accoglienza presso una famigliola di contadini che l'aveva messo a dormire in soffitta. L'alba era passata da poco ed era caduto addormentato come un sasso appena si era sdraiato sul tavolaccio, quando l'aia si riempì di rumori e grida. Una pattuglia tedesca, la solita pattuglia tedesca motorizzata, aveva raggiunto la cascina e ora bussava alla porta gridando ordini secchi. Forse qualcuno aveva visto papà passare nei campi e aveva fatto la spia: i delatori non mancavano mai. I militari frugarono dappertutto, in casa, nel fienile, nel pollaio e uno di loro vide la botola e salì cauto in soffitta. Entrò col mitra spianato, si guardò attorno, cercò in tutti gli angoli, rovesciò i sacchi pieni di semi, rovistò fra le cianfrusaglie, scostò un vecchio cassettone lasciato a marcire in un angolo. Forse sentiva nell'aria l'odore di sporco che mio padre si portava addosso da giorni. Ma nella stanza non c'era nessuno. Si affacciò anche alla finestrella, guardò sotto, ma capì subito che da là non poteva essersi calato nessuno, perché sotto c'erano i suoi camerati. La pattuglia se ne andò dopo un tempo che a tutti dovette sembrare infinito. La padrona di casa si gettò al suolo piangendo, suo marito, seduto sulla pietra dell'ingresso, pallido, sudato, si arrotolò una sigaretta di chissà quale tabacco, con le mani tremanti, mentre guardava le moto allontanarsi, incredulo di essere ancora vivo.
Quarant'anni dopo papà ricordava quei momenti come se fossero accaduti il giorno prima, stampati negli occhi come un'istantanea.
Ma la guerra doveva ancora cominciare
Abbracciato a un ramo del grande albero che riempiva l'aia, aspettò ancora qualche minuto, poi lasciò andare un sospiro di sollievo e cominciò a scendere cautamente. Da bambino ne aveva saliti tanti di alberi, nella campagna dove era cresciuto, però mai prima di allora gli era toccato di saltare da una finestra verso il ramo più vicino, pregando che reggesse il suo peso e sperando che a nessuno venisse in mente di alzare la testa proprio in quel momento. Nascosto nel fitto del fogliame, aveva visto il soldato tedesco affacciarsi alla finestra, lo aveva guardato in viso e aveva visto, per qualche istante, la morte in quei giovani occhi di ghiaccio. Ma il soldato non lo vide. O forse, chissà, lo vide: giovane, sporco, magro, emaciato, spaventato, inerme. E decise di non averlo visto. Forse. Mi piace pensare che potrebbe essere andata anche così. Che anche nel pieno di una guerra crudele restasse in qualcuno, anche in qualcuno della parte peggiore, un po' di umanità. Che quel soldatino avesse poca voglia di sparare a un ragazzo della sua stessa età mentre quello lo guardava con gli occhi spaventati di un animale ferito, uno con la sua stessa paura e la stessa voglia di vivere. Mi piace pensare a un Piero tedesco. Ce ne saranno stati, sono sicuro che ce ne sono stati.
Quando, qualche giorno più tardi, la nonna Corinna lo vide spuntare in fondo al campo, fra i frutteti, le si strinse il cuore nel vedere quel mucchio di stracci che a malapena si tenevano assieme sul corpo magro e sporco. Ma non fu sorpresa. Papà era stato l'ultimo, gli altri fratelli, in un modo o nell'altro, avevano già ritrovato la strada di casa. Tutti pensavano che, almeno per loro, la guerra fosse finita. Ma doveva ancora cominciare.
Presto cominciarono infatti ad arrivare gli emissari del Partito. Erano incontri pericolosi, nascosti, fugaci, ma necessari. L'Italia era occupata e andava liberata, bisognava organizzare la resistenza. Fu così che a casa dei miei nonni si installò la stamperia clandestina. In qualche modo arrivarono una macchina da scrivere e un piccolo ciclostile. Delle ragazze, a piedi o in bicicletta, facevano le staffette, portavano le bozze, la carta, l'inchiostro e tutto l'occorrente e tornavano poi a ritirare il materiale stampato. A sera, insomma, c'era un traffico di gente che andava e veniva attraverso i campi. Quando la stamperia era in funzione il più giovane del fratelli, lo zio Sestilio, che aveva appena otto anni, si metteva di vedetta in cima al viottolo. Gli altri si affaccendavano al ciclostile. Se veniva segnalato un pericolo, qualcuno in avvicinamento, la stamperia scompariva sotto la paglia del fienile, le donne si affaccendavano in cucina mentre l'uno o l'altro dei fratelli correva a portare il materiale già stampato nel fitto del castagneto, in una buca preparata apposta e coperta con foglie, rami e ricci spinosi.
Un pomeriggio di fine novembre
Era un'attività pericolosa anche perché le visite si facevano più insistenti. Forse perché i fascisti sospettavano qualcosa o perché la famiglia era da sempre invisa al regime. E poi si parlava dell'obbligo per i giovani di ripresentarsi, per arruolarsi fra i repubblichini. Papà e gli altri cominciarono ad andare a dormire nei campi, per la paura di essere sorpresi di notte, ma ormai l'inverno si era fatto vicino e al mattino si svegliavano fradici e intirizziti.
In un pomeriggio di fine novembre le cose precipitarono: mentre la stamperia era in funzione una pattuglia fascista che aveva tagliato dal bosco ed eluso la sorveglianza di Sestilio bussò violentemente alla porta. Nella stanza calò il silenzio. Lo zio Garbarino afferrò l'attizzatoio, il nonno Giovanni andò a caricare la doppietta. Ma la nonna non si perse d'animo, si accomodò al tavolo a pelare patate e comandò che si aprisse la porta.
La pattuglia entrò col solito sprezzo fascista, con quell'arroganza insopportabile che si portavano dietro come un marchio di fabbrica. I ragazzotti si aggirarono sospettosi per la casa, fecero domande. Ma non osarono passare ai fatti. I fratelli all'epoca si erano fatti una certa fama per la pesantezza delle loro mani. Tutti ricordavano quando, anni prima, si era presentato il podestà scortato da due carabinieri con l'olio di ricino da appioppare allo zio Garbarino, colpevole di aver rifiutato la tessera del partito. Garbarino all'epoca faceva già il fuochista sui treni, aveva due spalle massicce, mani pesanti come macigni e grosse come badili e la faccia nera bruciata dal sole e sporca di fuliggine. Digrignando i denti, come solo lui sapeva fare, aveva spaccato in due un tavolaccio con un sol pugno ben assestato e i gendarmi se l'erano data a gambe. Insomma, i fascisti sapevano con chi avevano a che fare e rispettarono le distanze.
Ad ogni modo non trovarono nulla e dopo un po' se ne andarono, minacciando di tornare in forze per portare tutti in caserma. Intanto macchina da scrivere, ciclostile e carta stampata giacevano sul pavimento della cucina, sotto le ampie gonne della nonna, che non si era scomposta per nulla. I fascisti non pensarono nemmeno di farla alzare e non osarono sfiorarla e fu così che salvò la stamperia e la vita dei suoi figli. Peccato che io non l'abbia mai conosciuta, la nonna Corinna, che ha cresciuto sei figli senza un soldo in tasca, che non sapeva neanche leggere ma difese la stamperia clandestina con tanto coraggio.
Quella visita fu la goccia che fece traboccare il vaso. Quel giorno papà, che non voleva più saperne di divise e di ufficiali, decise che era arrivato il tempo di prendere la via della montagna. Meglio coi partigiani che coi fascisti. In quel periodo decise anche di farsi la tessera del partito. “Voglio morire da comunista”, disse. E così fece. Perché fece prima lui a morire che il partito a scomparire e lui la tessera, da allora, se la fece ogni anno della sua vita, con la fede incrollabile di chi aveva conosciuto un mondo davvero brutto e ne voleva costruire uno decisamente migliore. Anche se poi le cose non erano andate così.
Cosa accadde esattamente nei mesi che seguirono quell'episodio nessuno lo sa. Papà non amava raccontare i fatti della guerra guerreggiata e molte cose sono rimaste custodite gelosamente nella sua memoria. Una nebbia nella quale ogni tanto noi figli abbiamo potuto intravedere delle figure, senza poterle distinguere veramente. Perché della guerra, se sei sano di mente, sono poche le cose che ti va di raccontare.
Quelli della rete clandestina
Si unì ai garibaldini e chissà come a un certo punto lo misero al comando di una piccola unità. Forse fece buon gioco la sua decisione, il piglio autoritario. “Dopo esser stato sotto le armi non ho voluto più essere comandato da nessuno” mi disse una volta, “per questo ho scelto di fare un lavoro senza padroni. Anche da partigiano era così: c'era il coordinamento, sì, ma ordini non ne volevo e appena è stato possibile sono diventato io il comandante. Comandavo solo un piccolo gruppo, certo, ma almeno gli ordini li davo io e i compagni mi volevano bene, mi rispettavano. Non li mandavo mica a morire senza motivo, come facevano sotto le armi. Se si doveva rischiare si rischiava tutti assieme e l'obiettivo doveva essere chiaro, valido. Alì, mi chiamavano, comandante Alì”. Ma lo zio Sestilio mi disse una volta che invece lo chiamavano Fra' Diavolo e io questa cosa del nome da battaglia non l'ho mai chiarita e non so perché preferì darmi quell'altro nome che poi era un diminutivo di Aladino, il suo curioso nome di battesimo. Questo è uno dei tanti misteri che si è portato nella tomba.
A volte c'era da scendere a Firenze per incontrare quelli della rete clandestina in città. Lui scendeva spesso. La sua faccia tosta lo aiutava. Ma non sempre le cose andarono bene. Una volta, nel luogo dell'appuntamento, trovò la persona sbagliata. Cosa accadde di preciso alla spia papà non l'ha mai voluto dire, a un certo punto del racconto lo sguardo si induriva e le parole sfumavano. Comunque lui se la cavò e riuscì a tornare alla base.
Ci furono scontri, avanzate, imboscate, ritirate. Vittorie e sconfitte. Compagni caduti. Momenti disperati di fame e pioggia ghiacciata che bagnava anche quel po' di anima rimasta attaccata a quei miseri corpi. Era stata dura. Sentir fischiare le pallottole, veder morire i propri compagni, avanzare e farsela addosso dalla paura ma comunque andare. Da anziano era rimasto a papà, di quei tempi, l'orgoglio di poter dire: “c'ero anch'io”, ma senza celebrazioni. Mai andato a una sfilata, mai reclamata una medaglia. Era rimasta la rabbia di non aver visto sorgere, alla fine, il sole dell'avvenire.
Sogni di rivoluzione
Il 3 agosto 1944 i tedeschi fecero saltare i ponti a Firenze,
ma non servì a molto. Il 4 agosto i partigiani, scesi
dalle montagne, entrarono in città. La battaglia divampò
crudele per settimane, ma il primo settembre Firenze era libera,
i tedeschi in fuga.
Mio padre scese dai monti con tutti gli altri in quella avanzata
epica, entrò a Firenze alla testa del suo drappello e
accadde la cosa più inaspettata: in una infermeria incontrò
il Cecioni, sdraiato su un lettuccio. Aveva salvato la pelle.
Dopo che i tedeschi avevano portato via papà, quasi un
anno prima, quelli del posto erano andati a frugare e lo avevano
trovato agonizzante. Era stato mesi fra la vita e la morte ma
ce l'aveva fatta. Tornato a Firenze con la ferita mai del tutto
rimarginata si era ritrovato lì, mezzo degente e mezzo
infermiere, perché c'era da darsi da fare coi feriti
che arrivavano da ogni dove. Si abbracciarono commossi. Dopo
tanti anni papà lo raccontava ancora con felicità
mista a incredulità. La guerra è piena di episodi
sorprendenti.
Quelli furono anche i giorni del furore e della giustizia sommaria.
I fascisti venivano processati in fretta e mandati in carcere,
ma i peggiori no, quelli in carcere non ci arrivarono mai. Allora
gli alleati chiesero ai partigiani di consegnare le armi, ma
i partigiani non ne volevano sapere, temevano il tradimento
e qualcuno davvero voleva fare la rivoluzione. Quei vent'anni
di fascismo volevano lasciarseli alle spalle per sempre. Qualcuno
voleva solo tornare alla vita normale ma altri sognavano l'Italia
socialista, egualitaria; sognavano di fargliela pagare ai signori
che si erano mangiati il Paese e avevano mandato una generazione
a morire per i loro sporchi affari. L'insurrezione era alle
porte e mio papà non si sarebbe tirato indietro. Ma sappiamo
tutti come andò a finire, i fascisti in galera ci rimasero
poco.
Anche sui fatti di quei lunghi mesi, dopo la liberazione di
Firenze papà aveva steso una cortina di silenzio, ma
gli capitò di romperla una sera d'inverno in cui la televisione
trasmetteva un programma sulla condizione carceraria. Quella
volta papà si lasciò andare a una confidenza,
raccontandomi di aver conosciuto lui stesso i rigori, l'ingiustizia
e la brutalità della galera. Ne rimasi molto turbato,
in casa non se ne era mai parlato. Quando era stato arrestato
e perché? Quella improvvisa confessione, quasi fosse
l'urgenza di liberarsi di un peso, era uscita di getto, ma un'occasione
così non si ripeté più. Dovetti indagare
cautamente, in famiglia, non senza difficoltà, perché
l'argomento pareva essere tabù.
Una indicazione la ebbi infine dallo zio Sauro, un fratello
più giovane che la guerra l'aveva scampata ma che aveva
avuto anche lui i suoi brutti momenti sotto i bombardamenti.
Lo zio faceva il camionista e qualche volta mi capitò
di accompagnarlo nei suoi viaggi. Aveva un sorriso aperto, amava
chiacchierare, ma per capire i suoi discorsi bisognava concentrarsi,
perché ci mischiava dentro tante cose, chilometri di
strade percorse e notizie di strani crocevia. In quel suo stile
confuso mi raccontò di quei giorni dopo la liberazione
a Firenze, di un'automobile fermata dalla polizia a un posto
di blocco, nel cui baule trovarono quel che non dovevano
trovare. Alla guida c'era papà, che trasportava qualcosa
per conto del partito.
Erano i giorni in cui si stava riorganizzando l'apparato militare,
nel caso fosse stato necessario resistere a un nuovo colpo di
stato o in preparazione di un'insurrezione popolare. Trovarono
armi? Documenti compromettenti? Lo zio non lo disse. Fatto è
che papà scomparve per un bel po' di tempo. Lo si rivide
a Firenze solo nel marzo del 1948. Ecco cosa capitava a uno
che aveva fatto alle fucilate per scacciare i fascisti
che avevano rovinato l'Italia. Non è difficile capire
la rabbia che gli covava dentro e che ogni tanto esplodeva.
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Firenze,
1948 - Aladino Sabatini e Primetta Bartolozzi |
Maggio 1948
Lei se lo vide venire incontro bello, giovane, aitante, sorridente di quel suo splendido sorriso che gli addolciva la faccia dura. Avanzava con passo disinvolto, tenendo con una mano la giacchetta appoggiata su una spalla e non c'era da sbagliarsi: guardava proprio lei. Non era abituata a quel comportamento sfacciato, che diamine, erano quei tempi lì, non usava essere così sfrontati con le ragazze. Ma lui era un giovane conosciuto di sfuggita qualche anno prima, quando faceva la staffetta e consegnava messaggi a quelli della montagna per conto del partito, durante quegli anni difficili, quando le bombe distrussero anche la cartiera Vallecchi dove lavorava da ragazza. Tempi già andati. Quelli nuovi erano tempi in cui si ricominciava a vivere, bisognava darsi da fare, e quel bel giovane che le veniva incontro sorridendo sembrava aprirla al mondo, al futuro, al sogno.
Poco prima delle nozze mia mamma ricevette una lettera anonima. Qualcuno la informava che stava per sposare un poco di buono, un avanzo di galera. I fascisti erano sempre all'opera e ancora spalavano fango sulla brava gente. Ma lei non si lasciò influenzare, sapeva tutto e il suo avanzo di galera lo volle accanto a sé, all'altare, perché in Italia anche i comunisti si sposavano in chiesa con tutti i crismi e i sacramenti e poi la mamma era comunista e cattolica, come tanti, e non ci vedeva niente di male.
La vita dopo fu anche bella, mai sentito parlare di rimpianti, ma non fu certo un sogno, semmai una lotta, un altro campo di battaglia. Bisognò costruirla con enorme fatica, con notti insonni e lunghe veglie e tanti momenti difficili e anche disperati. Ma di aver sposato quel poco di buono e di averlo amato con tenerezza la mamma non si pentì mai. Andavano assieme a distribuire l'Unità casa per casa a Firenze. Perché tanta gente morta, tanta distruzione, dovevano pur essere servite a qualcosa, altrimenti che senso aveva avuto? Che senso aveva portarsi quella storia nella coscienza? Si era imbracciato un fucile, si era ammazzato e la guerra era rimasta dentro lo stomaco come un macigno, come una traccia sporca nella coscienza. Si era andati per disperazione o per convinzione o spinti dagli eventi. Quasi nessuno lo aveva fatto volentieri. Ma si era fatto e se si era fatto era per costruire qualcosa di meglio. Loro erano comunisti così, di quelli che volevano solo costruire un mondo migliore.
Epilogo - 20 maggio 1981
Sotto il nome sconosciuto del maestro venerabile scorrevano quelli di personaggi noti e meno noti che avevano messo le mani sulla Repubblica. A leggere la lista sul quotidiano della sera c'era da restare increduli. O forse no. Forse la storia del dopoguerra ci aveva già abituati a tante cose che avrebbero dovuto lasciarci increduli, e allora, in tanti, ci si era già abituati. Avevamo avuto persino un tentativo di golpe, roba da non credersi, noi che eravamo appena usciti da vent'anni di dittatura e dalle rovine della guerra abbiamo avuto anche il golpe, tentato per tornare al passato, all'ordine e alla disciplina, alle marce idiote dei giovani Balilla, ai treni che arrivano in orario e agli oppositori al confino. Avevamo avuto le stragi di stato, le bombe nelle banche, nelle piazze, nei treni e alla stazione di Bologna. Avevamo avuto il terrorismo, che a raccontarlo oggi ai figli non troviamo le parole giuste per far capire loro come si viveva nell'Italia di quegli anni, loro che pensano che certe cose avvengano solo in certi paesi poveri e lontani. Una storia insanguinata, quella del dopoguerra. Eppure ad ascoltare l'elenco dei nomi snocciolato dall'idiota in giacca e cravatta del telegiornale; a leggere la lista sull'edizione del pomeriggio di Paese Sera, c'era da rimanere sconcertati. Ma gli italiani parevano già abituati a tutto. Nessuno è sceso per la strada. Neanche papà, neanche io.
Guardava la TV con la cenere che penzolava dalla sigaretta, lo sguardo assorto. Chissà dove correva il pensiero. Forse alle lunghe notti insonni in montagna, a battere i denti dal freddo, col moschetto gelido stretto fra le mani. Forse a quegli anni del dopoguerra a distribuire l'Unità casa per casa, alle fredde serate trascorse in sezione a studiare Marx con devozione, quasi fosse la Bibbia. Forse a quelle misteriose scatole che gli avevano affidato anni prima dal partito, da custodire a casa, in attesa di non si sa cosa e che rimasero chiuse per tanti anni nel buio di uno sgabuzzino. Forse pensava a quei mesi umilianti passati a marcire chiuso in una cella, unico ringraziamento per aver rischiato la vita per mandare via i nazifascisti. Difficile dire cosa gli passasse per la testa quando aggrottava le sopracciglia. “Se penso che s'è fatto alle fucilate per tutto questo. Bisognava finirlo il lavoro e non l'abbiamo finito, e quelli che comandavano allora sono sempre lì che comandano e noi nella stanza dei bottoni non c'abbiamo mai messo piede e questo paese non l'abbiamo cambiato. Ma se fanno un altro colpo di stato io torno in montagna, te lo dico io...”.
Papà lasciò la frase sospesa come una nuvola minacciosa e non finì neanche di guardare il telegiornale, se ne andò bestemmiando alla maniera sua, la pancia traballante, alla ricerca del tubetto dell'Alka Seltzer. La guerra, la montagna, la liberazione, la speranza, l'umiliazione, l'attività politica: non era servito a nulla.
Aveva ragione il Lupo. Siamo stati dei privilegiati, la prima generazione di italiani a cui nessuno ha chiesto di ammazzare. Non siamo stati obbligati a imbracciare il fucile, non ci hanno mandato al fronte a combattere. Non siamo dovuti salire in montagna. Siamo passati indenni fra le stragi nere e le brigate rosse, le bombe umanitarie e tutto il resto. Invece i nostri genitori erano dovuti andare in guerra e poi salire in montagna, avevano dovuto fare alle fucilate e sono stati traditi. Quel lavoro nessuno l'ha più finito e l'Italia è quel che è.
Renzo Sabatini
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