rivista anarchica
anno 46 n. 412
dicembre 2016/gennaio 2017






Quella sedia sui Colli Euganei

On a Chair Festival 2016

Tre accordi sono abbastanza / con quattro hai detto tutto quanto c'è da dire / inutile al confronto ogni mozartiana altezza / curvo sul problema / abbracciandolo fino in fondo / diventandolo quasi / in ogni fibra / celebrandolo / torcibudella e chiese fumose / notti umide / e la disperazione che diventa gioia mentre le dita vanno sulle corde imprigionate in melodie senza sbarre / colli di bottiglia e dita sanguinanti / voi / laggiù / lontani nel tempo e nello spazio / voi santi inconsapevoli / voi maghi sapienti / del vivere / del morire...”

Alessandro Spinazzi “Inermi saggezze” (a Charlie Patton, ai santi del Delta)
tratta dalla rivista Lato Selvatico n. 49, equinozio d'autunno 2016, curata da Giuseppe Moretti, www.sentierobioregionale.org

Il secondo OAC Fest si è tenuto verso metà settembre in una vecchia corte benedettina sui colli Euganei, solo a pochi chilometri da casa mia. La cosa è stata messa in piedi da Umami, un'associazione di ragazze e ragazzi piuttosto attivi in zona: l'intenzione è offrire un'occasione ed uno spazio a musicisti che operano in solitudine, strumentisti e cantanti soli soletti sulla pedana, e preferibilmente ma non necessariamente seduti su una sedia (ecco chiarito l'on a chair).
L'anno scorso la manifestazione era stata organizzata ad Abano Terme occupando e riarrangiando uno spiazzo malutilizzato a ridosso del centro città: erano stati chiamati a partecipare -tra gli altri- alcuni chitarristi non allineati come Egle Sommacal, Maurizio Abate, Laboule e Stefano Pilia ed una sorprendente Elli De Mon.

Per molti versi il Fest 2016 è stata una sostanziale conferma delle buone intenzioni che motivano lo sbattimento e degli organizzatori e dei musicisti, per altri si è rivelata una sorpresa, come una specie di regalo collettivo, ramificato, multidirezionale ed inaspettato nella forma che ha preso. Quest'anno la direzione artistica pare essersi indirizzata verso la canzone d'autore meno identificabile come tale - molte virgolette tutt'intorno a queste due parole, canzone d'autore. Ho potuto ascoltare dei cantautori che non si sentono tali, che non fanno i cantautori per mestiere, o che per lo meno sono determinati a non farlo in maniera tradizionale e convenzionale. Le loro proposte sono derivate da scelte radicali e consapevoli di campo, non tanto in senso ideologico o di schieramento quanto muovendosi in un più ampio contesto culturale, se non facendone addirittura una questione di stile di vita. Mentre il Fest accade e facendo un po' il punto a Fest finito, mi colpisce in senso positivo il fatto che scarseggi oppure manchi del tutto l'impulso a cercare sostegno nelle strutture organizzate, e si punti preferibilmente sull'autogestione e l'autoproduzione, di quanto sia fondamentale il rapporto orizzontale e diretto con chi ascolta - briciole dell'eredità anarcopunk, mi sento di azzardare.

Al Fest si entra e basta, non c'è un biglietto, c'è un po' di giro di dischi e cd offerti a bassoprezzo, una manciata di banchetti variamente alternativi, chioschetto con birra panini vino buono. Il palco è una pedana bassa, e le canzoni volano via, lente, alte: non sembrano affatto confezionate per essere poste in vendita - probabilmente dico io non ce n'era neanche lontanamente l'intenzione eppure ciascuna viene offerta al meglio, ben suonata e cantata con amore. Molta gente intorno, per essere un finesettimana di beltempo a fine estate, tutti venuti apposta e molto presi ad ascoltare, direi - un bel misto diffuso di curiosità ed attenzione. Altra cosa che secondo me va detta: c'era un ottimo impianto di amplificazione, sappiamo tutti bene quanto sia importante.

Per ciascuna delle tre serate si è ripetuto un cambiamento d'atmosfera che potrebbe essere rivelatorio. All'inizio di ciascun set le canzoni assomigliavano a quelle cantate agli angoli delle strade senza curarsi dell'attenzione della gente intorno. Le strofe come messaggi in bottiglia precari e lanciati comunque, ben sapendo di questa precarietà: quelli che passano sono e rimangono pur sempre degli estranei anche se lasciano nel cappello due spiccioli del loro tempo fingendo attenzione. Molto presto però ci si è accorti tutti che parole e musiche non erano affatto semi gettati a casaccio al vento (c'è poco posto per la speranza e lo spreco, in questi anni di penombra) ma erano lanciati verso un obiettivo preciso: in direzione del cuore, il posto più adatto per germogliare. Il bello del Fest è stato anche questo abbraccio, queste mani strette, questo cercarsi, questo trovarsi.
Simone “Ulisse” Schiavo

Radici, strada, viaggio: ecco alcune parole ricorrenti. L'effetto complessivo dopo tre giorni è davvero straniante: a momenti sembrava proprio di ritrovarsi spostati in una qualche America immaginaria ricostruita seguendo lo skyline delle colline intorno, c'entra senz'altro il fatto di essersi nutriti di certa letteratura e musica (e televisione, aggiungo non senza un pizzico d'amarezza). Tutt'altro che un invito alla fuga nonostante la suggestione, quelli sulla pedana e noialtri giù per terra ad ascoltare, tutti, siamo rimasti attaccati ai nostri problemi, al nostro orizzonte, al nostro oggi, al nostro senso di casa e appartenenza. Forse il Fest ha funzionato perché ci ha fatto sentire tutti più vicini.

Vado per ordine. Prima sera: apre (proprio come era successo lo scorso anno) Simone “Ulisse” Schiavo, dalle sue dita esce blues lacerato e sofferente, un lamento che gronda lacrime e tristezza e così vero e toccante che senz'altro sorprende risuoni dentro in bocca a un ventenne padovano. A me, che ne ho quasi il triplo, sembra inaccettabile che vent'anni siano abbastanza per poter cantare il blues, ma mi sbaglio, me ne accorgo e cerco di disfarmi del mio zaino di pregiudizi: se chiudi gli occhi e ti lasci portare via, ecco che ti assale lo spaesamento di Richie Havens a Woodstock - ogni tanto mi sembra di essere un bambino orfano e lontano da casa, quello lì. Spaesamento in tutti i sensi, perché ai tempi duri, alle porte chiuse in faccia e alla precarietà non ci si fa mai l'abitudine; ecco trovata una continuità con quello che accadeva quando avevo vent'anni io e dal telegiornale arrivavano sempre e solo cattive notizie dal futuro per me e per i miei sogni. Ulisse usa il suo blues come uno specchio, io mi ci guardo dentro e cazzo non sono affatto contento di come va, né di com'è andata, e neanche di come andrà.
Non mi soffermerò sull'abilità tecnica ed esecutiva sua e degli altri musicisti, piuttosto sono convinto vada riconosciuta indistintamente a tutti una disponibilità totale a raccontarsi all'altezza dello sguardo, guardando ciascuno fisso negli occhi, diretti e immediati e senzafiltro sì ma con fiducia, senza farsi né fare male (il discorso non vale per Giorgio Canali, ma ne parlerò dopo). E anche questo è stato il bello del Fest: non c'erano artisti-sul-palco in mostra e pubblico messo laggiù a distanza, ciclo di io-suono-e-canto poi voi-applaudite, ma una piacevole corrente tepida ed orizzontale di relazioni, vicinanze e intrecci.

“Mi infilo i pantaloni e le scarpe / e non ho niente da perdere perché non c'è nulla da vincere / ma ora indosso le mie ali e volerò di corsa da te / e volerò sopra il confine (che dimentico) / in cielo non ci sono confini (e neanche nella mia mente) / così posso volare volare e volare / volare fin dove ci sei tu / dove adesso fa buio / e ti porterò il mio cuore e questa dolce breve buonanotte...”
Bob Corn

Bob Corn a.k.a. Tiziano “Tizio” Sgarbi è in giro per le strade da vent'anni e passa, poeta ed attivista: è uno che ha impastato con le sue dita, la sua voce e la sua fatica la scena indipendente nazionale, dovreste conoscerlo, ve lo dico col cuore tra le mani. Le sue sono le canzoni degli amici che se ne vanno via, dei treni che si allontanano, della nostalgia del sole che abita i primi giorni freddi dopo l'estate. Canzoni fatte accatastando le parole, soprattutto quelle non dette quando bisognava, quelle rimaste incastrate tra la testa e la gola e che non si sono dette per mille motivi, per uno solo, per nessuno, e restano lì a rimbalzare, a fare eco, riverberare. Lui ti guarda un attimo soltanto poi gli viene in mente qualcosa e sorride, si gratta in testa, guarda per terra e comincia a raccontarti qualcosa ma poi smette cambia idea e ti guarda ancora e capisci che non ha paura di niente, neanche del precipizio, neanche del buio. Il suo è stato chiamato “sad punk”, punk triste, ma a me è un'etichetta che proprio non piace. Dovessi raccontare le sue canzoni direi che sono canzoni in movimento. Roba che cammina, che cammina piano, pioggia o sole che sia non importa, con quella regolarità di passo che hanno i vecchi che girano in montagna da una vita e che amano ogni singolo albero e fiore, ogni nuvola, e ne conoscono nomi e profumo. Canzoni che seguono gli itinerari del graal, i percorsi non scritti sulle mappe che si vendono nei baracchini, le strade per arrivare le sanno solo lui e forse i lupi, forse - sentieri che il Tizio ha ben chiari tracciati dentro in testa e che rivela solo in frammenti, poi sta a noi leggere, valutare, interpretare, metterci del nostro per trovare il nord. Il terremoto dell'Emilia che gli ha squassato la casa e l'esistenza è stato una pagina con sopra una macchia brutta, ma ognuno ha il libro che ha, e le pagine del libro che lo vogliamo o no ci tocca girarle. Lui al libro che gli è toccato ci danza intorno, muove i piedi e le gambe come uno che è abituato al volo in alta quota anche da seduto, senza vergognarsi di niente e di nessuno.
Gypsy Rufina

La stessa pagina con la stessa brutta macchia è toccata anche a Gypsy Rufina, cioè Emiliano Liberali, uno che gira il mondo con tanti nomi addosso, si fa anche chiamare zingaro e homeless/senzacasa ma ha le radici che affondano nella campagna vicino a Rieti. Nel suo libro c'è dentro un ragazzo in fuga dal paese che gli sta abbottonato troppo stretto addosso, punk in una Roma che però a un certo punto si fa insostenibile invivibile irrespirabile e allora via, via a vedere cosa c'è dall'altra parte del mare, a trovare lavori strani e conoscere gente e poi a imparare e scambiare canzoni. Che bella storia la sua, e che storie strane racconta - storie che non finiscono sempre tutte bene ma che ci restano dentro, polverose come la prima luce del mattino che si sparge a mezz'aria, imperscrutabili come segni nel cielo.

“L'amore è in tutto, nei posti dove vado, negli amici, nella gente che incontro, l'amore c'è sempre... tutti i giorni. (...) Casa è il mondo, è il pianeta. Il provenire da un posto è importante, è bello anche tornare in un posto che è casa, però il mio posto è dove vado, le persone che conosco, dove c'è gente che ascolta e apprezza la mia musica, quello è il mio posto. (...) Dove suono c'è sempre molta gente ubriaca, ecco, quello è uguale dappertutto, la gente beve per sentire meno dolore...”1 - è lo zingaro, il senzacasa, il giramondo a parlare, negli occhi una tranquillità grande come il mare, e che del mare ha anche la profondità e la malinconia.
Lui lo dice come può, come sa fare, il messaggio arriva un po' dalla voce e un altro po' dallo sguardo, da come muove le mani. Il terremoto ha lasciato il segno, è difficile racimolare frantumi di intimità fra le pietre e la polvere sapendo che lì sotto sono rimasti degli affetti, e raccogliersi in un angolo soli con sé stessi ed una chitarra o un'armonica o un banjo tra le mani e lasciar scorrere malessere rabbia e lacrime attraverso i versi. Sotto quelle pietre è rimasta schiacciata la voglia di cantare, eppure anche lui ce l'ha fatta, e come Tizio non si fa sopraffare dal silenzio e dal dolore, e decide di raccontare, di portarci una manciata di rovine che sono i suoi pensieri e ragionamenti e i groppi in gola come pane e vino da condividere lì, sull'angolo di un tavolo. Hanno perso salute, hanno perso amici e pezzi grossi di sé stessi: amo questi compagni che non si arrendono, e scavano e pestano e martellano e picconano, e stringono i denti e continuano a cantare. Cicale con l'estate che dura un anno intero, mi fanno sentire meno solo.
Dagger Moth

Strade, ancora strade. Per arrivarti accanto Dagger Moth sceglie strade differenti da tutti quelli che hanno suonato prima di lei al Fest (e anche dopo): si avvicina e ti avvolge con un abbraccio di complicità, la meraviglia degli strati di suono, i silenzi che fanno rumore, il rumore che ti tocca dappertutto. La guardi, vestito rosso, e sembra acqua fresca da bere, lei. Ti accorgi solo dopo/tardi che nasconde dell'altro dentro sé, dietro al sorriso magnetico: enigmi, trasparenze, veleno forse. Di nome vero lei fa Sara Ardizzoni, ferrarese, si è de/scritta “chitarrista (per scelta) e cantante (per caso)”. Da distante la sua musica sembra nascere dalle stesse strategie conosciute come Frippertronics ma è solo un'impressione che svanisce in fretta perché la musica che Sara fa succedere è una saetta imprevista e del tuono che segue non si sa proprio cosa dire di preciso perché schiaccia tutto, silenzio, rumori, l'aria, i pensieri. È davvero un po' poco chiamarle sovrapposizioni sonore: sono tutte musiche messe una sopra l'altra e una dentro l'altra, disposte in circolo a spirale in doppia elica a vertigine. Ogni canzone è un ascensore in corsa con fermate a sorpresa tra un piano e l'altro oppure si va su su su attraversando il soffitto, dopo l'ultimo piano, dritti verso il cielo. Un po' ragionamento, un po' gioco, un po' sortilegio: meraviglioso è come lei imbraccia la chitarra, come la trasforma in arma, come fa galleggiare la voce sopra il ribollire dei suoni. Quando smette spegne tutto e se ne va mi sento come se improvvisamente mi fosse stato portato via qualcosa di mio.

“...Bastò meno di un minuto / alla ricerca del tempo perduto / per rendersi conto che era stato / solo tempo sprecato / gli anni della ricostruzione / mai più guerre / e un nuovo mondo possibile / leggero resistente inconfondibile / (...) restano le scorie del sogno di un attimo / e del sogno di pace di un'epoca intera / solo sette colori su una bandiera / ma che fine hanno fatto gli altri colori / che fine hanno fatto i figli dei fiori / restano tra schegge di uranio e qualche svastica / solo i figli dei fiori di plastica / ma si può sapere dov'è questo paradiso di pace e amore / seguivamo tutti la stella del nord / invece era un satellite militare...”
Giorgio Canali

La terza giornata, quella conclusiva, è servita a riportarci a casa dopo tanta strada, come dire, è servita ad aiutarci a rimettere i piedi per terra dopo tanto volare. Fateci caso: è l'unico che si è presentato col suo nome vero. Giorgio Canali è con ogni probabilità il più conosciuto degli intervenuti all'OAC Fest, ma con altrettanta probabilità è il più difficile da amare. Non per un motivo preciso, quanto per tutto un grumo di scuse - è difficile, è scomodo, dice cose troppo dirette, cose così, pretesti per prendere una certa distanza, mettersi in salvo. Eppure serve un amico così per ritrovare l'equilibrio, come dopo una bevuta eccessiva, serve un amico vicino ed intimo che ti riaccompagni a casa. Così vicino e intimo che proprio in virtù di vicinanza e intimità sarà l'unico a prenderti a calci nel culo quando avrai sbagliato, a insultarti con una sberla per svegliarti fuori dalle paranoie, calci e sberle che ricorderai per il resto della vita e per cui gli sarai silenziosamente grato. A volte le sue canzoni hanno la miccia corta, gli prendono improvvisamente fuoco in mano e lui cosa fa - te le tira addosso. Canzoni come pappagalli verdi dall'apparenza innocua ma che custodiscono ciascuna una verità spietata, difficili da guardare come una luce forte puntata in faccia come negli interrogatori dei film noir d'una volta, verità raccontata senza girarci attorno in orbita alla cazzo come una falena: ogni verso uno scossone, una bastonata, un colpo in testa che riporta al centro delle cose.
Altro che rime baciate e sorrisi, queste sono televisioni che friggono e scoppiano, pezzi di vetro incandescenti in volo radente, pericolo in forma di parole accese che ululano come sirene d'ambulanza. Per quello che so e che ho ascoltato in questi anni, non conosco nessuno che sappia trasformare le canzoni in armi improprie come fa Giorgio, lui che queste sue armi le usa, e lo fa con una naturalezza che confina col malessere senza terre di nessuno in mezzo, senza erba morta, senza reticolati - prima di puntarti addosso una canzone ti guarda in faccia e non sorride, non sorride affatto, non serve che prenda la mira. È buio, intorno, improvvisamente.

“I nostri capi e il cancro sono la stessa cosa / sono il nostro nemico e il nostro dolore / la bestia che dobbiamo affrontare / la disgrazia della razza umana / saranno anche parole dure, ditemelo voi se sbaglio / ma non sopporto il modo in cui viviamo / scambiamo le nostre vite con qualcosa che non ci serve / e questo qualcosa uccide / non è difficile capire che siamo tutti uguali / donne e uomini / potremmo essere ricchi e sani e felici, ma siamo ancora poveri e malati / non fosse per tutti questi se / possiamo cambiare, io ci credo / ciascuno la nostra vita / se tutti facciamo un passo / cammineremo sulla strada della libertà...”
Phill Reynolds

Anche Phill Reynolds è un nome finto, forse è meglio così perché a un certo punto si capisce che è necessaria una diga per tenersi al riparo da tutto. Lui si chiama Silva Cantele, dice che viene da sopra Vicenza ma lo si direbbe imparentato con Tom Waits per l'atmosfera fumosa che gli si raggruma tutt'intorno quando apre bocca per cantare, o magari figlio di Nick Drake per l'incanto della sua scrittura mani piccole, oppure fratello di Scott Matthew per la fragilità trasparente delle melodie. Proprio mentre scrivo quest'ultima frase e questi nomi mi accorgo che forse non è vero niente, è che per non annegare tra queste onde alte mi aggrappo a qualche salvagente. Anche Phill racconta di strade e ancora strade, viaggi personali, incontri, partenze, delusioni, illuminazioni. Strade fatte a piedi, per camminare, percorrerle, non necessariamente per arrivare. Per la stessa ragione del viaggio, viaggiare - ma questa è una frase rubata, quasi quasi la tolgo. Mi sono ritrovato a desiderare che certe sue canzoni non finissero, che continuassero ad accadere, a vivermi intorno. Alla fine del set davanti alla pedana c'era un pubblico di astronauti sperduti, teletrasportati da altrove ciascuno davanti alla porta di casa. Ognuno con una valigia in mano che non ci si decideva a poggiare a terra, un adesivo in più appiccicato sulla custodia della chitarra, lo sguardo umido e perso e il cuore chissà dove.

Marco Pandin
stella_nera@tin.it

1. Ritagli da un'intervista a cura di Isy Marcucci, recuperata su un blog interrotto.