Quella sedia sui Colli Euganei
On a Chair Festival 2016
“Tre accordi sono abbastanza / con quattro
hai detto tutto quanto c'è da dire / inutile al confronto
ogni mozartiana altezza / curvo sul problema / abbracciandolo
fino in fondo / diventandolo quasi / in ogni fibra / celebrandolo
/ torcibudella e chiese fumose / notti umide / e la disperazione
che diventa gioia mentre le dita vanno sulle corde imprigionate
in melodie senza sbarre / colli di bottiglia e dita sanguinanti
/ voi / laggiù / lontani nel tempo e nello spazio / voi
santi inconsapevoli / voi maghi sapienti / del vivere / del
morire...”
Alessandro Spinazzi “Inermi saggezze” (a Charlie
Patton, ai santi del Delta)
tratta dalla rivista Lato Selvatico n. 49, equinozio
d'autunno 2016, curata da Giuseppe Moretti, www.sentierobioregionale.org
Il secondo OAC Fest si è tenuto verso metà settembre
in una vecchia corte benedettina sui colli Euganei, solo a pochi
chilometri da casa mia. La cosa è stata messa in piedi
da Umami, un'associazione di ragazze e ragazzi piuttosto attivi
in zona: l'intenzione è offrire un'occasione ed uno spazio
a musicisti che operano in solitudine, strumentisti e cantanti
soli soletti sulla pedana, e preferibilmente ma non necessariamente
seduti su una sedia (ecco chiarito l'on a chair).
L'anno scorso la manifestazione era stata organizzata ad Abano
Terme occupando e riarrangiando uno spiazzo malutilizzato a
ridosso del centro città: erano stati chiamati a partecipare
-tra gli altri- alcuni chitarristi non allineati come Egle Sommacal,
Maurizio Abate, Laboule e Stefano Pilia ed una sorprendente
Elli De Mon.
Per molti versi il Fest 2016 è stata una sostanziale
conferma delle buone intenzioni che motivano lo sbattimento
e degli organizzatori e dei musicisti, per altri si è
rivelata una sorpresa, come una specie di regalo collettivo,
ramificato, multidirezionale ed inaspettato nella forma che
ha preso. Quest'anno la direzione artistica pare essersi indirizzata
verso la canzone d'autore meno identificabile come tale - molte
virgolette tutt'intorno a queste due parole, canzone d'autore.
Ho potuto ascoltare dei cantautori che non si sentono tali,
che non fanno i cantautori per mestiere, o che per lo meno sono
determinati a non farlo in maniera tradizionale e convenzionale.
Le loro proposte sono derivate da scelte radicali e consapevoli
di campo, non tanto in senso ideologico o di schieramento quanto
muovendosi in un più ampio contesto culturale, se non
facendone addirittura una questione di stile di vita. Mentre
il Fest accade e facendo un po' il punto a Fest finito, mi colpisce
in senso positivo il fatto che scarseggi oppure manchi del tutto
l'impulso a cercare sostegno nelle strutture organizzate, e
si punti preferibilmente sull'autogestione e l'autoproduzione,
di quanto sia fondamentale il rapporto orizzontale e diretto
con chi ascolta - briciole dell'eredità anarcopunk, mi
sento di azzardare.
Al Fest si entra e basta, non c'è un biglietto, c'è
un po' di giro di dischi e cd offerti a bassoprezzo, una manciata
di banchetti variamente alternativi, chioschetto con birra panini
vino buono. Il palco è una pedana bassa, e le canzoni
volano via, lente, alte: non sembrano affatto confezionate per
essere poste in vendita - probabilmente dico io non ce n'era
neanche lontanamente l'intenzione eppure ciascuna viene offerta
al meglio, ben suonata e cantata con amore. Molta gente intorno,
per essere un finesettimana di beltempo a fine estate, tutti
venuti apposta e molto presi ad ascoltare, direi - un bel misto
diffuso di curiosità ed attenzione. Altra cosa che secondo
me va detta: c'era un ottimo impianto di amplificazione, sappiamo
tutti bene quanto sia importante.
Per ciascuna delle tre serate si è ripetuto un cambiamento
d'atmosfera che potrebbe essere rivelatorio. All'inizio di ciascun
set le canzoni assomigliavano a quelle cantate agli angoli delle
strade senza curarsi dell'attenzione della gente intorno. Le
strofe come messaggi in bottiglia precari e lanciati comunque,
ben sapendo di questa precarietà: quelli che passano
sono e rimangono pur sempre degli estranei anche se lasciano
nel cappello due spiccioli del loro tempo fingendo attenzione.
Molto presto però ci si è accorti tutti che parole
e musiche non erano affatto semi gettati a casaccio al vento
(c'è poco posto per la speranza e lo spreco, in questi
anni di penombra) ma erano lanciati verso un obiettivo preciso:
in direzione del cuore, il posto più adatto per germogliare.
Il bello del Fest è stato anche questo abbraccio, queste
mani strette, questo cercarsi, questo trovarsi.
Radici, strada, viaggio: ecco alcune parole ricorrenti. L'effetto
complessivo dopo tre giorni è davvero straniante: a momenti
sembrava proprio di ritrovarsi spostati in una qualche America
immaginaria ricostruita seguendo lo skyline delle colline intorno,
c'entra senz'altro il fatto di essersi nutriti di certa letteratura
e musica (e televisione, aggiungo non senza un pizzico d'amarezza).
Tutt'altro che un invito alla fuga nonostante la suggestione,
quelli sulla pedana e noialtri giù per terra ad ascoltare,
tutti, siamo rimasti attaccati ai nostri problemi, al nostro
orizzonte, al nostro oggi, al nostro senso di casa e appartenenza.
Forse il Fest ha funzionato perché ci ha fatto sentire
tutti più vicini.
Vado per ordine. Prima sera: apre (proprio come era successo
lo scorso anno) Simone “Ulisse”
Schiavo, dalle sue dita esce blues lacerato e sofferente,
un lamento che gronda lacrime e tristezza e così vero
e toccante che senz'altro sorprende risuoni dentro in bocca
a un ventenne padovano. A me, che ne ho quasi il triplo, sembra
inaccettabile che vent'anni siano abbastanza per poter cantare
il blues, ma mi sbaglio, me ne accorgo e cerco di disfarmi del
mio zaino di pregiudizi: se chiudi gli occhi e ti lasci portare
via, ecco che ti assale lo spaesamento di Richie Havens a Woodstock
- ogni tanto mi sembra di essere un bambino orfano e lontano
da casa, quello lì. Spaesamento in tutti i sensi, perché
ai tempi duri, alle porte chiuse in faccia e alla precarietà
non ci si fa mai l'abitudine; ecco trovata una continuità
con quello che accadeva quando avevo vent'anni io e dal telegiornale
arrivavano sempre e solo cattive notizie dal futuro per me e
per i miei sogni. Ulisse usa il suo blues come uno specchio,
io mi ci guardo dentro e cazzo non sono affatto contento di
come va, né di com'è andata, e neanche di come
andrà.
Non mi soffermerò sull'abilità tecnica ed esecutiva
sua e degli altri musicisti, piuttosto sono convinto vada riconosciuta
indistintamente a tutti una disponibilità totale a raccontarsi
all'altezza dello sguardo, guardando ciascuno fisso negli occhi,
diretti e immediati e senzafiltro sì ma con fiducia,
senza farsi né fare male (il discorso non vale per Giorgio
Canali, ma ne parlerò dopo). E anche questo è
stato il bello del Fest: non c'erano artisti-sul-palco in mostra
e pubblico messo laggiù a distanza, ciclo di io-suono-e-canto
poi voi-applaudite, ma una piacevole corrente tepida ed orizzontale
di relazioni, vicinanze e intrecci.
“Mi infilo i pantaloni e le scarpe / e non ho niente da
perdere perché non c'è nulla da vincere / ma ora
indosso le mie ali e volerò di corsa da te / e volerò
sopra il confine (che dimentico) / in cielo non ci sono confini
(e neanche nella mia mente) / così posso volare volare
e volare / volare fin dove ci sei tu / dove adesso fa buio /
e ti porterò il mio cuore e questa dolce breve buonanotte...”
Bob Corn a.k.a. Tiziano “Tizio”
Sgarbi è in giro per le strade da vent'anni
e passa, poeta ed attivista: è uno che ha impastato con
le sue dita, la sua voce e la sua fatica la scena indipendente
nazionale, dovreste conoscerlo, ve lo dico col cuore tra le
mani. Le sue sono le canzoni degli amici che se ne vanno via,
dei treni che si allontanano, della nostalgia del sole che abita
i primi giorni freddi dopo l'estate. Canzoni fatte accatastando
le parole, soprattutto quelle non dette quando bisognava, quelle
rimaste incastrate tra la testa e la gola e che non si sono
dette per mille motivi, per uno solo, per nessuno, e restano
lì a rimbalzare, a fare eco, riverberare. Lui ti guarda
un attimo soltanto poi gli viene in mente qualcosa e sorride,
si gratta in testa, guarda per terra e comincia a raccontarti
qualcosa ma poi smette cambia idea e ti guarda ancora e capisci
che non ha paura di niente, neanche del precipizio, neanche
del buio. Il suo è stato chiamato “sad punk”,
punk triste, ma a me è un'etichetta che proprio non piace.
Dovessi raccontare le sue canzoni direi che sono canzoni in
movimento. Roba che cammina, che cammina piano, pioggia o sole
che sia non importa, con quella regolarità di passo che
hanno i vecchi che girano in montagna da una vita e che amano
ogni singolo albero e fiore, ogni nuvola, e ne conoscono nomi
e profumo. Canzoni che seguono gli itinerari del graal, i percorsi
non scritti sulle mappe che si vendono nei baracchini, le strade
per arrivare le sanno solo lui e forse i lupi, forse - sentieri
che il Tizio ha ben chiari tracciati dentro in testa e che rivela
solo in frammenti, poi sta a noi leggere, valutare, interpretare,
metterci del nostro per trovare il nord. Il terremoto dell'Emilia
che gli ha squassato la casa e l'esistenza è stato una
pagina con sopra una macchia brutta, ma ognuno ha il libro che
ha, e le pagine del libro che lo vogliamo o no ci tocca girarle.
Lui al libro che gli è toccato ci danza intorno, muove
i piedi e le gambe come uno che è abituato al volo in
alta quota anche da seduto, senza vergognarsi di niente e di
nessuno.
La stessa pagina con la stessa brutta macchia è toccata
anche a Gypsy Rufina, cioè
Emiliano Liberali, uno che gira il mondo con tanti
nomi addosso, si fa anche chiamare zingaro e homeless/senzacasa
ma ha le radici che affondano nella campagna vicino a Rieti.
Nel suo libro c'è dentro un ragazzo in fuga dal paese
che gli sta abbottonato troppo stretto addosso, punk in una
Roma che però a un certo punto si fa insostenibile invivibile
irrespirabile e allora via, via a vedere cosa c'è dall'altra
parte del mare, a trovare lavori strani e conoscere gente e
poi a imparare e scambiare canzoni. Che bella storia la sua,
e che storie strane racconta - storie che non finiscono sempre
tutte bene ma che ci restano dentro, polverose come la prima
luce del mattino che si sparge a mezz'aria, imperscrutabili
come segni nel cielo.
“L'amore è in tutto, nei posti dove vado, negli
amici, nella gente che incontro, l'amore c'è sempre...
tutti i giorni. (...) Casa è il mondo, è il pianeta.
Il provenire da un posto è importante, è bello
anche tornare in un posto che è casa, però il
mio posto è dove vado, le persone che conosco, dove c'è
gente che ascolta e apprezza la mia musica, quello è
il mio posto. (...) Dove suono c'è sempre molta gente
ubriaca, ecco, quello è uguale dappertutto, la gente
beve per sentire meno dolore...”1
- è lo zingaro, il senzacasa, il giramondo a parlare,
negli occhi una tranquillità grande come il mare, e che
del mare ha anche la profondità e la malinconia.
Lui lo dice come può, come sa fare, il messaggio arriva
un po' dalla voce e un altro po' dallo sguardo, da come muove
le mani. Il terremoto ha lasciato il segno, è difficile
racimolare frantumi di intimità fra le pietre e la polvere
sapendo che lì sotto sono rimasti degli affetti, e raccogliersi
in un angolo soli con sé stessi ed una chitarra o un'armonica
o un banjo tra le mani e lasciar scorrere malessere rabbia e
lacrime attraverso i versi. Sotto quelle pietre è rimasta
schiacciata la voglia di cantare, eppure anche lui ce l'ha fatta,
e come Tizio non si fa sopraffare dal silenzio e dal dolore,
e decide di raccontare, di portarci una manciata di rovine che
sono i suoi pensieri e ragionamenti e i groppi in gola come
pane e vino da condividere lì, sull'angolo di un tavolo.
Hanno perso salute, hanno perso amici e pezzi grossi di sé
stessi: amo questi compagni che non si arrendono, e scavano
e pestano e martellano e picconano, e stringono i denti e continuano
a cantare. Cicale con l'estate che dura un anno intero, mi fanno
sentire meno solo.
Strade, ancora strade. Per arrivarti accanto Dagger
Moth sceglie strade differenti da tutti quelli che
hanno suonato prima di lei al Fest (e anche dopo): si avvicina
e ti avvolge con un abbraccio di complicità, la meraviglia
degli strati di suono, i silenzi che fanno rumore, il rumore
che ti tocca dappertutto. La guardi, vestito rosso, e sembra
acqua fresca da bere, lei. Ti accorgi solo dopo/tardi che nasconde
dell'altro dentro sé, dietro al sorriso magnetico: enigmi,
trasparenze, veleno forse. Di nome vero lei fa Sara Ardizzoni,
ferrarese, si è de/scritta “chitarrista (per scelta)
e cantante (per caso)”. Da distante la sua musica sembra
nascere dalle stesse strategie conosciute come Frippertronics
ma è solo un'impressione che svanisce in fretta perché
la musica che Sara fa succedere è una saetta imprevista
e del tuono che segue non si sa proprio cosa dire di preciso
perché schiaccia tutto, silenzio, rumori, l'aria, i pensieri.
È davvero un po' poco chiamarle sovrapposizioni sonore:
sono tutte musiche messe una sopra l'altra e una dentro l'altra,
disposte in circolo a spirale in doppia elica a vertigine. Ogni
canzone è un ascensore in corsa con fermate a sorpresa
tra un piano e l'altro oppure si va su su su attraversando il
soffitto, dopo l'ultimo piano, dritti verso il cielo. Un po'
ragionamento, un po' gioco, un po' sortilegio: meraviglioso
è come lei imbraccia la chitarra, come la trasforma in
arma, come fa galleggiare la voce sopra il ribollire dei suoni.
Quando smette spegne tutto e se ne va mi sento come se improvvisamente
mi fosse stato portato via qualcosa di mio.
“...Bastò meno di un minuto / alla ricerca del
tempo perduto / per rendersi conto che era stato / solo tempo
sprecato / gli anni della ricostruzione / mai più guerre
/ e un nuovo mondo possibile / leggero resistente inconfondibile
/ (...) restano le scorie del sogno di un attimo / e del sogno
di pace di un'epoca intera / solo sette colori su una bandiera
/ ma che fine hanno fatto gli altri colori / che fine hanno
fatto i figli dei fiori / restano tra schegge di uranio e qualche
svastica / solo i figli dei fiori di plastica / ma si può
sapere dov'è questo paradiso di pace e amore / seguivamo
tutti la stella del nord / invece era un satellite militare...”
La terza giornata, quella conclusiva, è servita a riportarci
a casa dopo tanta strada, come dire, è servita ad aiutarci
a rimettere i piedi per terra dopo tanto volare. Fateci caso:
è l'unico che si è presentato col suo nome vero.
Giorgio Canali è
con ogni probabilità il più conosciuto degli intervenuti
all'OAC Fest, ma con altrettanta probabilità è
il più difficile da amare. Non per un motivo preciso,
quanto per tutto un grumo di scuse - è difficile, è
scomodo, dice cose troppo dirette, cose così, pretesti
per prendere una certa distanza, mettersi in salvo. Eppure serve
un amico così per ritrovare l'equilibrio, come dopo una
bevuta eccessiva, serve un amico vicino ed intimo che ti riaccompagni
a casa. Così vicino e intimo che proprio in virtù
di vicinanza e intimità sarà l'unico a prenderti
a calci nel culo quando avrai sbagliato, a insultarti con una
sberla per svegliarti fuori dalle paranoie, calci e sberle che
ricorderai per il resto della vita e per cui gli sarai silenziosamente
grato. A volte le sue canzoni hanno la miccia corta, gli prendono
improvvisamente fuoco in mano e lui cosa fa - te le tira addosso.
Canzoni come pappagalli verdi dall'apparenza innocua ma che
custodiscono ciascuna una verità spietata, difficili
da guardare come una luce forte puntata in faccia come negli
interrogatori dei film noir d'una volta, verità raccontata
senza girarci attorno in orbita alla cazzo come una falena:
ogni verso uno scossone, una bastonata, un colpo in testa che
riporta al centro delle cose.
Altro che rime baciate e sorrisi, queste sono televisioni che
friggono e scoppiano, pezzi di vetro incandescenti in volo radente,
pericolo in forma di parole accese che ululano come sirene d'ambulanza.
Per quello che so e che ho ascoltato in questi anni, non conosco
nessuno che sappia trasformare le canzoni in armi improprie
come fa Giorgio, lui che queste sue armi le usa, e lo fa con
una naturalezza che confina col malessere senza terre di nessuno
in mezzo, senza erba morta, senza reticolati - prima di puntarti
addosso una canzone ti guarda in faccia e non sorride, non sorride
affatto, non serve che prenda la mira. È buio, intorno,
improvvisamente.
“I nostri capi e il cancro sono la stessa cosa / sono
il nostro nemico e il nostro dolore / la bestia che dobbiamo
affrontare / la disgrazia della razza umana / saranno anche
parole dure, ditemelo voi se sbaglio / ma non sopporto il modo
in cui viviamo / scambiamo le nostre vite con qualcosa che non
ci serve / e questo qualcosa uccide / non è difficile
capire che siamo tutti uguali / donne e uomini / potremmo essere
ricchi e sani e felici, ma siamo ancora poveri e malati / non
fosse per tutti questi se / possiamo cambiare, io ci credo /
ciascuno la nostra vita / se tutti facciamo un passo / cammineremo
sulla strada della libertà...”
Anche Phill Reynolds è
un nome finto, forse è meglio così perché
a un certo punto si capisce che è necessaria una diga
per tenersi al riparo da tutto. Lui si chiama Silva Cantele,
dice che viene da sopra Vicenza ma lo si direbbe imparentato
con Tom Waits per l'atmosfera fumosa che gli si raggruma tutt'intorno
quando apre bocca per cantare, o magari figlio di Nick Drake
per l'incanto della sua scrittura mani piccole, oppure fratello
di Scott Matthew per la fragilità trasparente delle melodie.
Proprio mentre scrivo quest'ultima frase e questi nomi mi accorgo
che forse non è vero niente, è che per non annegare
tra queste onde alte mi aggrappo a qualche salvagente. Anche
Phill racconta di strade e ancora strade, viaggi personali,
incontri, partenze, delusioni, illuminazioni. Strade fatte a
piedi, per camminare, percorrerle, non necessariamente per arrivare.
Per la stessa ragione del viaggio, viaggiare - ma questa è
una frase rubata, quasi quasi la tolgo. Mi sono ritrovato a
desiderare che certe sue canzoni non finissero, che continuassero
ad accadere, a vivermi intorno. Alla fine del set davanti alla
pedana c'era un pubblico di astronauti sperduti, teletrasportati
da altrove ciascuno davanti alla porta di casa. Ognuno con una
valigia in mano che non ci si decideva a poggiare a terra, un
adesivo in più appiccicato sulla custodia della chitarra,
lo sguardo umido e perso e il cuore chissà dove.
Marco Pandin
stella_nera@tin.it
1. Ritagli da un'intervista a cura di Isy
Marcucci, recuperata su un blog interrotto.
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