rivista anarchica
anno 47 n. 413
febbraio 2017





Sardegna/
In rivolta contro l'assurdità del sistema giudiziario-carcerario

Annino Mele è un detenuto sardo che ha cercato, e trovato, nella scrittura, un mezzo per rileggere il suo passato e per riflettere sulla sua attuale condizione di ergastolano, denunciando l'inutile e ingiusta restrizione a vita a cui è condannato, nonostante il suo percorso, che potremmo definire di auto-riabilitazione: poiché Mele, super-latitante ricercato per omicidio e sequestro di persona, da subito dopo l'arresto, ha cominciato a prendere le distanze dalle sue scelte violente e criminali, invitando i compagni della sua banda a rilasciare la vittima del loro ultimo sequestro (cosa che è prontamente avvenuta) e lanciando un appello a tutti i banditi e latitanti sardi a non perseguire più la via dei sequestri e dell'illegalità. Da quel momento - ed era il 1987 - per Mele è iniziato comunque, nonostante il suo ravvedimento, il calvario della detenzione con le angherie, i soprusi, le violenza fisiche e psicologiche a cui sono sottoposti in gran parte e in ogni carcere, i detenuti.
La sua rivolta all'assurdità di un sistema giudiziario-carcerario che reclude e non rieduca, che isola e non reintegra, Mele l'ha concretizzata nella protesta aspra e decisa contro le inadempienze delle strutture che di volta in volta l'hanno ospitato e nella richiesta di rispetto dei suoi diritti di detenuto, ma anche nell'informare, attraverso i suoi scritti, su cosa avviene nel mondo “di dentro” alle sbarre, nell'universo concentrazionario delle prigioni, dove si viene privati non solo della libertà ma anche della dignità.
Eppure, nell'ultimo libro del detenuto Mele, scritto assieme alla giornalista Giulia Spada, a stupire è innanzitutto l'ottimistico titolo, Quando si vuole (Sensibili alle foglie, Roma, 2016, pp. 128, € 15,00), che testimonia la fiducia nella possibilità di un cambiamento, individuale e collettivo, che porti ad una società migliore, nella quale, nonostante tutto, credono sia Mele che la Spada, che, nella diversità delle loro situazioni e prospettive, si riconoscono accomunati dall'appartenenza allo stesso popolo, quello della Sardegna, del quale rivendicano le secolari ansie di indipendenza ed autonomia e le singolari tradizioni.
Dalla rievocazione di quest'ultime, in particolare dall'attaccamento, quasi sacrale, dei pastori sardi ai boschi, inizia il racconto autobiografico di Mele che costituisce la prima parte del libro: vengono fuori le memorie della latitanza, fatta di fughe e di soste nei più remoti anfratti dei fitti boschi dell'interno della Sardegna; le gesta dei banditi con le loro prede umane in ostaggio, merce di scambio e di riscatto; i ricordi della strenua lotta dei contadini e dei latitanti contro il fuoco che divampava a volte, per la disattenzione di qualcuno, e che rischiava di compromettere il lavoro degli agricoltori e degli allevatori e al contempo metteva a rischio i latitanti, “smascherandone” i rifugi e costringendoli a nuovi ripari, lontani dalle fiamme e dall'esercito di uomini (forze dell'ordine, pompieri, guardie forestali) impegnati a spegnerle.
E nelle rievocazioni di Mele, tra minute descrizioni della vita in clandestinità e ricostruzioni storiche-sociali delle origini e dello sviluppo del banditismo, ampio spazio trovano alcune proposte, costruttive, di far ripartire l'economia dell' Isola non da improbabili e dannosi piani industriali, ma proprio dalla valorizzazione di alcuni aspetti specifici e persistenti che l'hanno nel tempo caratterizzata, come, ad esempio: l'allevamento allo stato brado del suino nero, razza rara e pregiata; la tenace conservazione dell'habitat naturale; la presenza di paesaggi, suggestivi e unici, ancora intatti e di paesi dalla vita a misura d'uomo: tutto questo, argomenta con passione e rigore propositivo Mele, potrebbe richiamare un turismo misurato e sostenibile, che, lontano dalle mete e dai consumi di massa, troverebbe nell'Isola cibi genuini e luoghi d'incanto. La visione e la speranza di Mele, di una Sardegna liberata dal crimine (non più orizzonte inseguito dai giovani, finalmente occupati in lavori gratificanti e redditizi), continua nella seconda parte del libro, con la contestazione della legittimità e dell'esistenza stessa dei luoghi che il crimine dovrebbero “combattere” e non lo fanno: le carceri.
Sempre attraverso la narrazione di vicende personali o direttamente conosciute, dall'interno da Mele, dall'esterno dalla Spada (studiosa e autrice di inchieste sul carcere e sulle “retoriche del corpo recluso”), viene vivisezionata la pratica ottusa del “sorvegliare e punire” che anima la “giustizia” carceraria, nell'assenza permanente di una qualsivoglia politica di prevenzione dei delitti e di remissione giustificata delle pene. I due autori, mostrando l'orrore dei luoghi, anche moderni, di detenzione, come il carcere di Opera, nel milanese - dove violenze e umiliazioni sono all'ordine del giorno e il mancato rispetto dei sacrosanti diritti umani investe non solo i detenuti ma anche i loro parenti e amici visitatori - provano a immaginare un uso possibile e creativo del dismesso edificio che ha ospitato sino al 2015 il carcere del Buoncammino a Cagliari: nei suoi enormi spazi, dati in gestione a cooperative giovanili, potrebbero essere ospitate biblioteche, centri di studio e di progettazione economica, laboratori artistici e musicali, etc.
Il libro di Mele e della Spada è ricco di note storiche che aiutano a capire genesi e forme del banditismo sardo, come reazione alle “chiudende” (le leggi di Re Vittorio Emanuele I, che privatizzarono, nel 1820, le terre demaniali, da secoli a disposizione dei pastori sardi) e poi via via come forma di ribellismo selvaggio e individualistico ad ogni forma di potere centrale e invasivo; ma contiene, soprattutto, la lucida testimonianza di un detenuto che altro non cerca che spazi maggiori di autonomia e libertà, dopo una maturazione umana e spirituale più che evidente e dimostrata, affidando questa sua più che legittima pretesa alla volontà degli uomini che possono (“Quando si vuole...”) “abbattere le barriere di egoismo e di ignoranza che dividono e allontanano”.

Silvestro Livolsi


Le poesie di Giovanni Marini/
Un poeta dietro le sbarre (e dopo)

Come Giovanni Marini, il poeta dei folli e dei giusti, che vi nasce il 1 gennaio 1942, anche il curatore del libro Silvio Masullo è nato a Sacco, nel Cilento interno. Questa “compaesanità” e la constatazione che la poesia e la poetica di Giovanni Marini sono state dimenticate, lo ha meritoriamente spinto a curare e a proporre - insieme all'archeologa Lucia Cariello - una nuova edizione della raccolta E noi folli e giusti, pubblicata nel 1975 dall'editore Marsilio di Venezia, Premio Viareggio nello stesso anno, mentre Marini sconta dodici anni di carcere, inflittigli per omicidio volontario l'11 luglio 1974 dal tribunale di Vallo della Lucania. La sentenza è attesa nella notte da centinaia di compagni e compagne venuti da ogni parte d'Italia, accampati nei giardini di fronte al tribunale (tra loro, anche chi scrive, che aveva seguito il processo per la stampa anarchica italiana, spagnola e francese).
A Sacco, il padre è responsabile del locale ufficio di collocamento e amministratore comunale con la lista popolare della Spiga. I contadini vanno a trovarlo a casa anche la sera, dopo che l'ufficio è chiuso e dopo una dura giornata di lavoro e, a volte, lo ringraziano per i piaceri che fa con i prodotti del lavoro e della terra, portandogli un pezzo di formaggio, ortaggi e le tavolette di cioccolata che mandavano gli emigranti e che Giovanni - come testimonia il racconto di Masullo - sottraeva e distribuiva agli altri ragazzi, compagni di escursione e meno fortunati.
Marini, dopo aver fatto un'esperienza come studente nel lontano seminario di Vallo della Lucania, con la sua famiglia si trasferisce a Salerno, dove il padre è stato nominato ispettore del lavoro. Frequenta l'istituto tecnico-commerciale De Martino, del quale è preside Raffaele Monaco, originario di Sacco, ex-partigiano nelle valli di Cuneo. Milita nel PCI e nei gruppi della sinistra, prima di diventare anarchico attratto - secondo Masullo - da figure come Camillo Berneri e dalla tragica morte di Giuseppe Pinelli. Intanto lavora a Monza e a Bologna, poi rientra a Salerno.
Dopo lo strano incidente della notte del 26 settembre 1970 - nel quale perdono la vita cinque compagni calabresi diretti a Roma per consegnare i risultati (spariti nell'incidente) di un'inchiesta sugli attentati fascisti ai treni che portavano i lavoratori in Calabria - viene incaricato di indagare sul camionista salernitano che ha provocato il mortale incidente e che risulta iscritto al MSI. Salerno, in quegli anni, è una città con una larga maggioranza fascista e spesso l'on. Almirante vi teneva comizi. Da allora, per Marini, cominciano le provocazioni, le minacce e le telefonate anonime e minatorie.
Nella prima serata del 7 luglio 1972, mentre passeggia tranquillamente sul bel lungomare di Salerno ed è in compagnia di Gennaro Scariati, viene provocato con una gomitata da un giovane fascista, ma Marini non reagisce anche perché si è reso conto che il lungomare è pieno di fascisti, che probabilmente aspettano la sua reazione per picchiarlo. L'incidente finisce lì, o almeno così sembra. Più tardi ha appuntamento con Francesco Mastrogiovanni per andare a teatro. Percorrendo la strada che li porta a teatro, in Via Velia incontrano i due fascisti che percorrono l'altro lato. Poco più sopra c'è la sede del MSI. Marini informa Mastrogiovanni che sono i fascisti che lo hanno provocato e Mastrogiovanni lo rassicura: «Non ti preoccupare, adesso ci vado a parlare io». Attraversa la strada e chiede: «Che volete? Che vi abbiamo fatto?». Per tutta risposta vede luccicare la lama di un coltello che lo ferisce alla gamba, sviene e cade nel sangue. A questo punto interviene Marini, che riesce a disarmare gli aggressori e, impossessatosi del coltello che ha ferito Mastrogiovanni, nella colluttazione ferisce Carlo Falvella, un giovane fascista di 21 anni. I fascisti - di fronte all'imprevista e coraggiosa reazione - si limitano a soccorrere i due camerati, mentre Mastrogiovanni, sanguinante per la ferita alla gamba, ricorre all'autostop per recarsi in ospedale. Poco dopo, Falvella muore e ai funerali partecipa anche l'on. Almirante, che, pochi mesi prima, in un comizio a Firenze, aveva invitato i giovani del Fronte della Gioventù a praticare lo «scontro fisico».
Marini, costituitosi poco dopo, è dichiarato in arresto insieme a Mastrogiovanni e Scariati, che si costituirà dopo alcuni giorni e verrà prosciolto in istruttoria, mentre Mastrogiovanni sarà scarcerato ma imputato per rissa, poi assolto.
Il processo, iniziato a Salerno il 28 febbraio 1974, sospeso il 13 marzo per motivi di ordine pubblico, è spostato a Vallo della Lucania, dove riprende il 30 giugno e la sentenza viene pronunziata l'11 luglio 1974. Al processo d'appello - che si tiene a Salerno dal 2 al 23 aprile 1975 - la condanna è ridotta a nove anni di carcere. Ne sconta sette.
Durante la dura carcerazione, Marini denunzia le incivili e aberranti condizioni carcerarie e per punizione è mandato da un carcere all'altro e nel carcere di Caltanissetta è rinchiuso in una cella buia e umida.
Nel carcere trova un conforto nella poesia e - con le catene ai polsi - nel 1975 pubblica il volume E noi folli e giusti, che ottiene un lusinghiero successo letterario e di pubblico e vince il Premio Viareggio. Scarcerato nel 1979, continua a pubblicare per proprio conto dei libricini di poesia, che vende o dona a un ristretto gruppo di compagni e di amici.
Silvio Masullo e Lucia Cariello hanno il merito di aver riunito, attraverso un lavoro meticoloso e paziente, in un unico volume E noi folli e giusti e parte della successiva e introvabile produzione poetica di Giovanni Marini, che muore a Salerno il 23 dicembre 2001.
La raccolta (Giovanni Marini. Il poeta degli anni di piombo, Casa Editrice Kimerik, Patti - Me, pp. 234, € 16,00) è stata presentata a Sacco lo scorso 6 agosto e ha consentito ai paesani di scoprire la dimensione poetica e umana di quel loro concittadino finito in carcere. Nell'aula comunale è presente un numeroso pubblico. Al tavolo, oltre i due autori e il sottoscritto, il sindaco Claudio Saggese, il dott. Ubaldo Baldi (che nel 1972 militava ne «Il Manifesto»), l'ex senatore Alfonso Andria e l'on. Tino Iannuzzi e Mastrangelo della Banca Cooperativa di Monte Pruno di Roscigno che ha contribuito alla realizzazione del libro e della manifestazione. Dall'altro mondo, se c'è, probabilmente l'anarchico Marini ha sorriso a vedere una banca e esponenti della Democrazia Cristiana di una volta alla presentazione del suo libro...
Pur apprezzando quest'omaggio e questa iniziativa, mi sia tuttavia consentito di dissentire da Silvio Masullo quando afferma che ha voluto solo operare un recupero e una valorizzazione della poetica di Marini; quando non fa chiarezza sulle responsabilità dello scontro dichiarando che «non ha alcuna intenzione di rinvigorire le ferite e le rabbie del passato, offrendo comodi pretesti a chicchessia, né tantomeno procedere a improbabili analisi postume delle responsabilità nelle quali era maturato il delitto»; quando apre la prefazione riportando l'invito alla pace e alla cessazione di ogni violenza pronunziato dal padre di Carlo Falvella e quando chiude la cronologia su Giovanni Marini citando il «Comitato per Carlo Falvella», che nel giugno del 2014 ha chiesto di fare del 7 luglio un momento condiviso per «dare dignità ad una comunità che si sente spiritualmente legata al ricordo di Carlo Falvella», dimenticando che è stato proprio Giovanni Marini ad essere vittima della violenza fascista, tant'è che la sera dello scontro Marini e gli altri due anarchici erano inermi e disarmati e, a differenza dei fascisti, credevano nel valore della parola e della convinzione e non delle coltellate e Mastrogiovanni che va a parlamentare con i fascisti viene accolto dalle coltellate.
Il volume Giovanni Marini. Il poeta degli anni di piombo può essere richiesto telefonando al n. 0941.21503 o scrivendo all'email redazione@kimeric.it.

Giuseppe Galzerano


Cosa resta dell'Occidente/
Tra decadenza inarrestabile e valori imprescindibili

È uscito per la casa editrice Elèuthera il libro dell'antropologo Franco La Cecla Elogio dell'occidente (Milano, 2016, pp. 176, € 14,00) di cui pubblichiamo l'introduzione.

Intendiamoci, l'Europa, l'Occidente, sono anche la sorgente di buona parte dei mali del mondo. Una storia di prevaricazione, di assoggettamento, di schiavismo, di distruzione delle culture e delle economie altrui. Se si legge la storia dell'Occidente, non c'è massacro, disastro ambientale ed errore umano attuale che non abbia già avuto un'anticipazione nella politica, nell'ideologia, nell'arroganza occidentali.
Da questo punto di vista, i complottisti hanno vita facile.
Tutto ciò che di marcio oggi c'è nel mondo viene in un modo o nell'altro dall'Occidente. Basta dunque mettersi dall'altra parte e si è dal lato della ragione, dal lato dell'arrivano i nostri, dal lato dei buoni contro i sempiterni cattivi – America ed Europa – accomunati nell'avere creato il caos che è oggi il mondo, distruttori di paesi che avevano un loro equilibrio come Iraq, Afghanistan, Libia, tanto per citare quelli più conosciuti, fautori di distruzione in buona parte dell'Africa, dell'Asia, dell'America Latina. E ancora, principali responsabili della crisi ecologica che il pianeta sta vivendo oggi, orrendi consumatori di risorse che sarà impossibile rinnovare, inquinatori mai puniti, esportatori di bubboni e rifiuti tossici, sostenitori della folle corsa del capitalismo contro il muro del futuro. C'è parte del mondo più colpevole dell'Occidente? Di fronte alle responsabilità occidentali, terrorismo, massacri di fanatici armati, furia devastatrice di folle inferocite sono tutte azioni giustificabili. Cosa ci si può aspettare dal resto del mondo quando l'Occidente ha creato l'orrore che è alla base di buona parte del male odierno?
Eppure, all'interno dello stesso Occidente c'è una storia e una geografia che parla d'altro. C'è la storia dell'opposizione a questa follia, la geografia di individui e di movimenti che si sono battuti per secoli contro la protervia dei potenti, contro la devastazione capitalista ed economicista.
C'è la storia di pensieri e azioni che hanno contrapposto alla follia omicida dell'Occidente la dignità umana, l'idea della irrinunciabile profondità dello stare al mondo, la difesa del principio spirituale che insieme a quello materiale muove l'umanità. Chi non vede che l'Occidente è il male, e al contempo la costante opposizione a esso, crede di essere innocente solo perché indica il male, ma poi è incapace di sostenere il vento della lotta, della solidarietà, della compassione, della sensibilità, della costruzione di un bene comune. Questa forma di miopia è forse un male peggiore del male nemico. È quella che alimenta il nichilismo, il sadismo, il masochismo in cui viviamo, è l'omicidio di coloro che «comunque» sperano e vivono per dare un senso alla speranza. Il pessimismo, l'analisi spietata della «merda» in cui siamo, sono probabilmente ideologie che fanno solo bene al male, sono, insieme al vittimismo, la più grande vittoria della spietatezza del capitale.
Oggi il vittimismo sembra spesso il diritto a incarnare minoranze, etnie, lingue oppresse, appartenenze, generi e sessi di vario tipo che sarebbero emarginati ma a cui basta l'esercizio del vittimismo stesso. È diventata una pratica talmente diffusa che chiunque può trasformare la propria identità in una «comunità oppressa». L'Occidente, l'Europa, il Capitalismo, la Globalizzazione consentono a chiunque il diritto di esserne vittima. A scapito di analisi più dettagliate, di denunce di veri responsabili e di complicità inconfessate.
A rileggere oggi Ivan Illich ci si stupisce di quanto tagliente fosse la sua analisi delle professioni debilitanti, delle istituzioni invalidanti, dei servizi e delle erogazioni atte a creare dipendenze. E proprio perché le sue non erano analisi «generali», ma dettagliate, che scoprivano la nostra complicità nel concreto, nelle dipendenze che ci scegliamo giorno per giorno. Per sentirsi vittima occorre invece restare «sulle generali», adoperando slogan e locandine come bandiere.
Mai come oggi sono attuali le parole di Étienne de la Boétie nel Discorso sulla servitù volontaria:
Costui che spadroneggia su di voi non ha che due occhi, due mani, un corpo e niente di più di quanto possiede l'ultimo abitante di tutte le vostre città. Ciò che ha in più è la libertà di mano che gli lasciate nel fare oppressione su di voi fino ad annientarvi.
Da dove ha potuto prendere tanti occhi per spiarvi se non glieli avete prestati voi? Come può avere tante mani per prendervi se non è da voi che le ha ricevute? E i piedi coi quali calpesta le vostre città non sono forse i vostri? Come fa ad avere potere su di voi senza che voi stessi vi prestiate al gioco? E come oserebbe balzarvi addosso se non fosse già d'accordo con voi? Che male potrebbe farvi se non foste complici del brigante che vi deruba, dell'assassino che vi uccide, se insomma non foste traditori di voi stessi? Voi seminate i campi per farvi distruggere il raccolto; riempite di mobili e di vari oggetti le vostre case per lasciarveli derubare; allevate le vostre figlie per soddisfare le sue voglie e i vostri figli perché il meglio che loro possa capitare è di essere trascinati in guerra, condotti al macello, trasformati in servi dei suoi desideri e in esecutori delle sue vendette; vi ammazzate di fatica perché possa godersi le gioie della vita e darsi ai piaceri più turpi; vi indebolite per renderlo più forte e più duro nel tenervi corta la briglia. Eppure da tutte queste infamie che le bestie stesse non riuscirebbero ad apprendere e che comunque non sopporterebbero, potreste liberarvi se provaste, non dico a scuotervele di dosso, ma semplicemente a desiderare di farlo. Siate dunque decisi a non servire mai più e sarete liberi. Non voglio che scacciate il tiranno e lo buttiate giù dal trono; basta che non lo sosteniate più e lo vedrete crollare a terra per il peso e andare in frantumi come un colosso a cui sia stato tolto il basamento [Étienne de La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria (1571), Jaca Book, Milano, 1979, p. 19].
Sono parole di un'apparente ingenuità, di quella seconde naïveté che Paul Ricoeur riteneva necessaria per ricominciare a fare una filosofia del presente. Mai come adesso sembrano attuali, per chi vede nell'Occidente il pretesto per la rinuncia alla propria libertà.
Chi non coglie nella storia e nel presente dell'Occidente la resistenza al male riproduce l'alibi di chi si fa servo volontariamente, di chi pensa che non c'è niente da fare e con il suo vittimismo si tira fuori dalla storia e dalla geografia, e pensa di non «entrarci per nulla». L'anti-occidentalismo è oggi per buona parte un vittimismo di questo tipo, una comoda depressione che porta alla contemplazione cinica del disastro del mondo. Oggi il principio speranza viene sbeffeggiato proprio da coloro che pensano di essere i più realisti del pianeta.
La grande tragedia del mondo che dell'Occidente fa parte è di agire per buona parte influenzato dallo stesso atteggiamento.
Le classi dirigenti, ma anche i terroristi di altri mondi, apprendono il principio del «tanto peggio» dalla viva voce di coloro che in Occidente sperano nella palingenesi universale dell'Armageddon e che pensano che solo nella distruzione definitiva e totale, nel sangue altrui e proprio versato, c'è la morale che questa nostra storia si merita. Il vittimismo del resto del mondo somiglia da presso a coloro che in Occidente se ne stanno con le mani in mano a leggere le notizie e a dire che ormai non c'è più niente da fare. E si ritirano bellamente in luoghi sicuri e nel loro magnifico privato.
In altri continenti, in altri paesi, c'è la scusa supplementare dell'avere ragione. L'Occidente è decadente, è alla fine, diamogli il colpo di grazia. Come se altrove che in Occidente non ci fossero le stesse radici del male, della crudeltà nei confronti degli altri esseri umani, non ci fosse la soppressione della voce delle donne e dei diversi, lo sfruttamento di intere fasce di popolazione ridotte in caste o in etnie e tribù avverse.
Il ritorno ai sacri valori della comunità di cui il mondo non occidentale sarebbe il garante è una pantomima idiota creata dallo stesso Occidente. L'idea che altrove la gente sia meno colpevole di quello che fa è un insulto alla dignità umana.
Ancora per quanti anni sentiremo la solfa che l'11 settembre è una creazione dell'intelligence, perché il mondo arabo sarebbe incapace di pianificare e portare avanti qualcosa di simile? Come se la complicità e il doppiogiochismo non potesse essere patrimonio anche del mondo arabo. Tutto questo è parte dell'idea della superiorità occidentale anche nel fare il male, del monopolio, se non reale almeno ideologico, della nefandezza. È ora di farla finita con questo idiotismo che percorre l'intero pianeta, con la globalizzazione di un'idiozia colpevole e miope allo stesso tempo.
Buona parte della visione che vuole tutto il male in Occidente è l'effetto di un'idea dell'essere umano come incapace di fare gesti liberi, magnifici o atroci che siano. Da una parte ci sono i cattivi, capaci di tramare contro tutti, dall'altra i buoni, vittime di tutto (e in mezzo l'Atlantico, lo stretto di Gibilterra e il Canale di Sicilia).
La deformazione di un certo materialismo dialettico e la cattiva lettura del peso dell'economia nella storia hanno creato una lettura meccanicistica e riduttiva della vicenda umana. E hanno prodotto un'idea deforme dell'umano.
Nessuno è colpevole, ci sono solo circostanze. Se nessuno è colpevole, non lo è nemmeno l'Occidente, verrebbe da dire, e allora restiamo fermi a guardare il «pachinko flipper» del mondo andare verso l'esplosione. Oggi ci sarebbe bisogno di un dibattito filosofico e di pensiero che riprenda tutte le tesi sul libero arbitrio e sulla possibilità che anche l'ultimo schiavo abbia in sé il principio della libertà.
Per questo non è un caso che mi sono risolto a scrivere questo pamphlet per gli amici libertari, perché nessuno come loro sa che sul crinale del presente è solo la convinzione della libertà profonda dell'essere umano che oggi fa la differenza.
La libertà di fare il bene o il male, non la libertà retorica, conclamata politicamente, ma la pratica quotidiana di essa, nelle routine e negli incontri, nelle convivenze e nelle adiacenze. È la grande storia dell'anarchismo consapevole, quello che crede nella grana che tiene insieme la società e non soltanto nell'individuo come monade; è la storia – per buona parte occidentale, ma esportata nel resto del mondo – del principio della volontà e della speranza, che da Carlo Cafiero in Italia a Pëtr Kropotkin in Russia e in Europa, a Multatuli in Indonesia, a B.R. Ambedkar in India, a José Rizal nelle Filippine, è stato il motore di infinite trasformazioni e della creatività di chi sa che il male è anche dentro di noi e che però è addomesticabile – perché umano – e può essere volto in bene. Bisogna difendere questa storia e questa geografia che sono antropologicamente molto occidentali, insieme al patrimonio di resistenza e di vita e di futuro che l'Occidente rappresenta. Senza l'Occidente la stessa idea di libertà sarebbe molto più dubbia e incerta, come la storia attuale ci racconta.

Franco La Cecla


Tomaso Serra/
Un militante anarchico tra antifascismo, Sardegna, Spagna e...

Fonti primarie, documenti, articoli, lettere e memorie alimentano la trama della vita avventurosa dell'anarchico sardo Tomaso Serra: ecco un'altra bella narrazione biografica che attraversa il Novecento (Costantino Cavalleri, L'anarchico di Barrali (quasi) 100 anni di storia per l'anarchia. Biografia di Tomaso Serra, detto “Il Barba”, Juan Fernandez, Pinna Joseph, Tomy Casella... 1900-1985, Guasila - Ca, Editziones de su Arkiviu-Bibrioteka “T. Serra”, 2016, pp. 1088, € 28,00).
L'opera, oltre mille pagine basate anche su un epistolario di valore inestimabile, incorpora un progetto editoriale militante bloccatosi ad un primo volume uscito nel lontano 1992 (e che fermava il suo racconto ai primi anni Trenta). Sebbene il libro non paia esente da difetti “tecnici” (editing che poteva forse essere alleggerito con un CD allegato; scarso utilizzo della storiografia nello sviluppo del testo), la sua possibile funzione di strumento eccezionale di conoscenza, ricco di informazioni e di suggestioni allo stesso tempo, è più che evidente. In queste pagine ci sono tante esistenze che si intersecano con quella del protagonista e, come succede in questi casi, c'è prima di tutto quella dell'autore che ha seguito amorevolmente e reso avvincente questa storia.
Le due generazioni – di Cavalleri e di Serra – in fondo si assomigliano e ciascuna, sebbene in contesti e con modalità differenti, ha per così dire tentato a suo modo l'assalto al cielo, “inseguendo la vita fino in fondo”. Sardegna / Europa / Sardegna: il viaggio che ci viene proposto evoca emozioni e incontri del secolo scorso. Ed anche noi abbiamo conosciuto bene “Il Barba”, quell'uomo piccolo di statura ma d'animo grande, ormai vecchio ma sempre curioso di confrontarsi con i giovani compagni. Dense, puntuali, precise le sue lettere che tutti ricordiamo, e le composizioni che distribuiva ai convegni contenevano sempre messaggi semplici ma ricchi di vena poetica.
Gli uomini, si sa, sono come gli uccelli, e quando sono stanchi di volare si lasciano docilmente rinchiudere in gabbia, dimenticando la loro antica selvatichezza di uomini liberi; si spegne così in essi ogni spirito di indipendenza e di propria dignità. Ma per fortuna ogni tanto ce ne sono alcuni che, invece di entrarvi, spiccano il volo verso più liberi e sconosciuti orizzonti. Mirano in alto guardando alla vita qualitativamente...
Riassumiamo qui di seguito – pensando di fare cosa utile per i lettori – alcuni passaggi essenziali della vita del protagonista. Tomaso Serra era nato il 23 marzo 1900 a Lanusei (Nuoro) da Silverio e Paola Mameli. Secondo di sette figli, il padre era ferroviere e la mamma bottegaia. Una malformazione congenita sul viso lo affliggerà per tutta la vita. Svolge innumerevoli mestieri: boscaiolo, manovale, operaio metallurgico, carpentiere, minatore e attore di teatro. Emigra in Francia nel 1916 per motivi di lavoro. Rientra in Italia dopo due anni per passare la visita per il servizio militare; riformato, espatria di nuovo.
Nel 1919-1920 è in Svizzera dove conosce e frequenta, presso la redazione de «Il Risveglio», Luigi Bertoni che, ben presto, diventa il suo principale punto di riferimento. In seguito si stabilisce in Francia: prima a Longwy nella Lorena, poi a Le Cannet in Costa Azzurra. In questo periodo subisce, incolpevole, una carcerazione di due mesi con l'accusa di rissa e violenza privata. Insieme al cugino Paolino Puddu mantiene contatti assidui con Raffaele Schiavina e Paolo Schicchi. Si occupa del Comitato pro vittime politiche, aderisce alla LIDU e partecipa alle varie manifestazioni per Sacco e Vanzetti. Sostiene e diffonde la stampa anarchica italiana edita a Parigi come «La Diana» e «Il Monito».
Nel 1927 è arrestato per affissione di manifesti sovversivi e per detenzione illegale di pistola. Espulso dalla Francia come sospetto terrorista, ripara in Lussemburgo. L'anno seguente è costretto a rifugiarsi in Belgio. Qui svolge un'intensa attività antifascista insieme a Puddu, Lorenzo Gamba e Angelo Sbardellotto. Secondo le fonti di polizia farebbe anche parte di un gruppo di anarchici denominato “Gli Espropriatori” insieme a Carlo Girolimetti ed Enrico Zambonini. Nel 1929-1934 vaga tra Francia, Svizzera (ospite del Foyer des réfugés politiques antifascistes) e Germania; più volte fermato ed espulso, inseguito da varie denunce e mandati di cattura. Nel 1936 è in Spagna per arruolarsi nella Colonna Italiana. Combatte nelle battaglie di Monte Pelato, Huesca e Almudévar; è inizialmente inquadrato nella batteria comandata da Libero Battistelli e poi nella “Michele Schirru”. Coadiuva Giuseppe Bifolchi nelle funzioni di comando ma assolve anche agli incarichi di furiere, cuciniere e portaferiti.
Politicamente sostiene nella Colonna posizioni di fattiva collaborazione tra le componenti libertaria e giellista. Pubblica corrispondenze sui fatti d'arme a cui partecipa in «Guerra di Classe» di Barcellona e su «Il Risveglio» di Ginevra. Denuncia in modo aperto il ruolo reazionario svolto dai comunisti staliniani durante i fatti del maggio 1937 e le loro responsabilità nell'assassinio di Berneri e Barbieri. Arrestato, è rinchiuso in una “prigione segreta comunista”, poi nel Carcel Modelo barcellonese. Nell'agosto del medesimo anno è accompagnato alla frontiera francese. Ammalato, in questo periodo subisce un'operazione chirurgica. Dopo un tentativo fallito di rifugiarsi in Belgio, nel 1939 è arrestato a Lille e rinchiuso nel campo di Rieucros in zona pirenaica. L'anno dopo si trova relegato a Vernet d'Ariège insieme a molti altri reduci dalla Spagna. Consegnato alle autorità italiane nel dicembre 1941, è subito tradotto nelle carceri di Nuoro.
Assegnato al confino di polizia per cinque anni come miliziano rosso e per attività antifascista svolta all'estero, è destinato all'isola di Ventotene. Trattenuto come internato a Renicci d'Anghiari (Arezzo) in epoca badogliana.
Dopo l'8 settembre 1943 fugge verso Roma e qui, messosi in contatto con il conterraneo Emilio Lussu, partecipa alla Resistenza – compiendo varie azioni di guerriglia e sabotaggio – inquadrato in una formazione di Giustizia e Libertà. Torna in Sardegna nel 1947. Svolge un'intensa attività nel movimento libertario.
Nel 1962 fonda a Barrali (Cagliari) la “Collettività anarchica di solidarietà” (poi Arkiviu-Bibrioteka “Tomaso Serra”). Partecipa a congressi e convegni nazionali della FAI fino agli anni Ottanta. Muore a Barrali l'8 ottobre 1985.
Il libro, scorrevolissimo e accattivante nella lettura, si suddivide in quattro corpose sezioni con la Spagna a fare giustamente da cesura centrale. A seguire la transizione con il lungo dopoguerra e, infine, l'ultima parte della vita di Tomaso dedicata agli incontri e alle esperienze comuni con un'altra generazione “contro”.

Giorgio Sacchetti


Tra Spagna e Svizzera/
Una madre, una figlia, la verità

L'amico anarchico e bravo critico fumettistico Boris Battaglia dice sempre che i fumetti non si leggono: si guardano. Penso proprio abbia ragione. E la recentissima graphic novel di Lorena Canottiere, Verdad (Coconino press, Bologna, 2016, pp. 160, € 19,00) lo conferma appieno: senza una certa disposizione dell'occhio – una pazienza, persino una devozione – gran parte del fascino dell'opera resta nascosto. Guardate dunque, guardate intensamente queste pagine in tempi di soddisfazioni effimere – godete del suo segno caldo, della varietà di particolari e di impostazioni delle tavole, del mix di strumenti usati tecniche usate (acrilico, pastelli, grafica digitale), e soprattutto dei colori: il rosso scuro, brunito, ramato; il giallo che vira quasi al verdognolo; gli inserti improvvisi di celeste.
Insisto su questo elemento perché la storia, in Verdad, è volutamente e costantemente resa “liquida” da una gestione della trama che procede per lo più tramite suggestioni e salti temporali. Protagonista è una giovane guerrigliera anarchica, impegnata nella guerra di Spagna contro i franchisti: Verdad, appunto. Il suo nome contiene un omaggio a un altro luogo classico del cosmo libertario, il Monte Verità in Svizzera. È qui che la madre della protagonista ha vissuto, sperimentando nuove forme di aggregazione sociale e attirando su di sé l'ira e la condanna della famiglia. Una madre che Verdad non ha mai conosciuto (l'ha abbandonata quand'era piccola), ma di cui serba il ricordo e l'ispirazione sia durante l'infanzia sia nei giorni duri del combattimento. Scrive Ettore Gabrielli su Lospaziobianco.com: “L'adesione entusiastica e quasi sacrificale alla resistenza antifranchista diventa quindi non solo la lotta per un ideale di libertà ma un tentativo di riscatto personale, la ricerca di un proprio posto nel mondo e un modo per dimostrare alla madre di poter essere se stessa e di poter essere viva senza scappare dalle proprie responsabilità.”
C'è però un'ambivalenza. (Tutto questo fumetto è percorso da ambivalenze, da forze contrastanti, da solitudini e comunità, da amori e disamori). Enrique, il suo compagno, non ama quel nome perché ritiene che la verità sia la fine della ricerca: la posseggono i preti, i capi, i padroni: “tutti quelli che ti vogliono comandar la vita!”, grida. E non è un caso che questo fumetto proceda di continuo senza mai fermarsi, sia come animato da una forza di fuga continua; è in transito come sempre in transito dovrebbe essere il momento rivoluzionario, nelle parole di Enrique. Non contiene verità, e non la conterrà nemmeno nel finale (ci arriviamo fra poco).
A fungere da sfondo di tutte queste vicende, ma con autentiche virtù di personaggio, è la montagna del sud spagnolo, disegnata da Canottiere con una forza e una semplicità commoventi. I boschi, le caserme dei combattenti, i sentieri, i villaggi, la grotta dove Verdad si rifugia per continuare solitaria la sua lotta – è difficile trovare qualcosa di meglio nella produzione fumettistica recente.
Ma c'è di più. Su questo tronco di realismo – non c'è nulla di banale o raffazzonato nelle scene di guerriglia antifranchista – Canottiere innesta un ramo di fantasia. La storia trascolora nella fiaba, sostenuta da un mito elementare per cui il mondo è diviso fra predatori e prede. Verdad stessa si muove su questo bilico. Come spiega bene Serena di Virgilio nella sua recensione per Panorama.it, l'indipendenza della protagonista “fa di lei una “volpe”, una sorta di strega che vive da sola tra i monti, un bandito a cui non è permesso uscire allo scoperto perché il regime e la gente le sono ostili.”
Verdad, con la sua fragilità e la sua determinazione, non sopravviverà al destino che sembra richiudersi sopra di lei. Ma come dicevo, il finale è caratterizzato dall'assenza di una verità definitiva, di una morale. Già: questo racconto di due donne libere, una madre e di una figlia che non si ritrovano, questa storia di anarchia e autonomia, non termina in maniera chiara. L'epilogo ci riporta di nuovo nel mito: una panoramica di valli e foreste, che si stringe lentamente su una casa abbandonata dentro cui vediamo una volpe serrare fra i denti una preda. A fungere da supporto c'è solo qualche didascalia, breve ma estremamente intensa: ciò che resta è “l'acceso rimorso che lascia solo l'amore e la vertigine di chi non vuole credere che sia tutto inutile.” Ostinarsi a non credere che sia tutto inutile: difficile trovare parole migliori per raccogliere la vita di Verdad – e per lanciare un monito che suona terribilmente urgente, terribilmente attuale.

Giorgio Fontana


Quando lo stupro è etnico/
Il caso Serbia

Il saggio di Simona Meriano Stupro etnico e rimozione di Genere. Le vittime invisibili (Edizioni Altravista, Pavia, 2015, pp. 162, € 18,00) offre uno sguardo antropologico al fenomeno degli stupri etnici, alle complesse implicazioni sociali, culturali, politiche e giudiziarie che li portano ad essere rimossi da tutte le storie di guerra. Gli stupri di massa vengono altresì considerati nel rapporto tra potere e memoria.
Simona Meriano inquadra la tematica nel più ampio contesto della storia del Novecento. Se nel secolo XX lo spostamento delle azioni violente di stupro è avvenuto passando da “diritto momentaneo”, concesso dopo le conquiste di un centro abitato, a strategia politica militare già prestabilita, dopo la guerra di Bosnia-Erzegovina, gli stupri di guerra costituiscono un'emergenza planetaria.
Cinquant'anni dopo Auschwitz, il conflitto nei Balcani si è tramutato in un piano di sterminio della popolazione civile. Per creare la grande Serbia, i villaggi vengono depurati dalla popolazione civile musulmana, gli uomini mutilati e uccisi, le donne stuprate. Tra il 1992 e 1995, lo stupro di massa, la violenza sulle bambine, le gravidanze forzate creano l'illusione di poter modificare la composizione etnica della Bosnia Erzegovina costringendo le donne musulmane a partorire figli di “razza pura serba”.
Tuttavia fallisce il tentativo di creare un nuovo stato etnico puro, poiché i bambini nati dagli stupri sono invisibili, anche se l'identità abortiva risulta ancora più perdente dell'identità invisibile.
L'autrice parte dall'assunto che considera lo stupro etnico espressione sintomatica della finzione identitaria voluta da un “noi” maschile, sedicente superiore, che sceglie e definisce l'alterità due volte, in base a criteri etnici e di genere. Nello specifico, nello stupro etnico in Bosnia- Erzegovina, l'identità di genere dominante maschile e l'identità di etnia superiore serba sarebbero arbitrariamente costruite e armate contro la donna, due volte “altra”.
Infatti, nell'immaginario maschile serbo, le donne bosniache musulmane assumono le sembianze delle femmine turche. Colpevoli di tradimento a causa della conversione all'islam da parte dei loro antenati, sono utilizzate per attuare la pulizia etnica in nome della vendetta serba.
Interessante la ripresa della questione sollevata dall'antropologo Ugo Fabietti (1995) sull'ambiguità del concetto di etnia. Designerebbe, infatti, gruppi dotati in modo fittizio di una irriducibile identità linguistico-storico-culturale. Nel momento in cui si crea e definisce un “noi”, nascono i “loro”, entità sociali costruite, ma vive, che interagiscono e hanno un ruolo nella storia. Il processo mentale di differenziazione potrebbe indurre a un allontanamento fisico e simbolico dell'altro, per spingersi fino alla sua soppressione. L'origine della violenza di genere andrebbe quindi ricercata nell'etnicità.
L'uomo serbo che intende conquistare la terra e sterminare il nemico di fatto si identifica con lui attraverso il corpo violentato della donna resa madre, colmando così lo spazio che separa la vittima dal suo carnefice.
Viene messa altresì in evidenza la legittimazione di pratiche violente pianificate da parte di un'oligarchia politica. Mosso da odio e desiderio, lo stupro etnico è considerato sempre uno stupro di gruppo. L'essere collettivo sovrasta l'uomo singolo. Il gruppo che stupra, connotato etnicamente, si sintetizza nel mito del centauro: la regressione della mascolinità al branco animale e alla forza fisica data dal numero, come risposta allo smarrimento dell'identità maschile. Inoltre, il gruppo sovrasta l'uomo singolo. È un “noi” che decide e interagisce, nel quale però si perdono responsabilità individuali e penali.
Quindi, lo stupro di gruppo non come patologia individuale, ma come potenziale comportamento nei maschi, rituale collettivo per ristabilire la gerarchia di genere e la supremazia etnica.
Se il ricorso alla memoria può mantenere viva una cultura dominante maschile, lo stupro etnico cancella ogni memoria di emancipazione e libertà femminile: stupratori si accaniscono contro le donne bosniache musulmane più colte e con ruoli nel mondo del lavoro, come sindacaliste, burocrati, insegnanti, segretarie, presenze nei quadri dirigenziali o intermedi.
Parimenti, l'attenzione dell'autrice si focalizza sulle vittime invisibili. Nonostante nel 1993, la risoluzione n. 827 del consiglio di sicurezza dell' Onu abbia istituito il tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia con sede all' Aja, con il compito di giudicare i responsabili dei crimini contro l'umanità e genocidio nelle guerre balcaniche, e nel 2001 lo stupro venga riconosciuto come un crimine contro l'umanità includendo il reato di schiavitù sessuale, solo nel 2008 il consiglio di sicurezza dell'Onu assumerà una ferma presa di posizione contro gli stupri come arma di guerra.
Ma sussiste ancora oggi il problema del riconoscimento dello status di vittime civili di guerra. Infatti, lo stupro contamina in modo irreversibile chi lo subisce, distrugge l'identità, tuttavia non ne crea un'altra: donne bosniache musulmane sopravvissute allo stupro di massa sono emarginate dalla loro gente, ma nemmeno vengono accolte nella comunità serba. Gli stessi bambini nati dalle violenze non incarnano affatto la “pura essenza serba”, sono individui dall'identità inafferrabile, rifiutati, spesso abbandonati ai margini della società.
Inoltre, si sottolinea quanto nelle società patriarcali, come quella balcanica, venga esercitato il controllo sessista sull'informazione e sui contenuti dei ricordi, favorendo il perdurare della supremazia maschile, il silenzio e il distacco della memoria, mezzi di oppressione per privare un gruppo o una minoranza della propria coscienza identitaria.
Il riferimento al contributo dell'antropologo Arjun Appadurai (2001) consente di cogliere meglio gli effetti della comunicazione di massa sull'immaginazione nella costruzione di soggetti sociali e le connessioni tra la propaganda bellica e immagini dello stupro.
La riflessione è condotta sugli stupri di guerra documentati in rete ai quali non corrisponde un adeguato sviluppo dell'empatia, condizione indispensabile per superare la passività nei confronti del potere sociale e culturale, ed esercitare la responsabilità individuale.
Simona Meriano chiama in campo gli obiettivi della Piattaforma di Pechino approvati nella IV Conferenza mondiale sulle donne (1995). Nel documento si ribadisce un principio fondante: mantenere la prospettiva di genere al fine di integrare le tematiche delle relazioni tra maschile e femminile in tutti gli obiettivi strategici che si intendono perseguire, dalla soluzione dei conflitti armati, alla costruzione di politiche per la pace.
A più di vent'anni dalla conferenza di Pechino, seppur nel variegato e accidentato percorso, la prospettiva glo-cale, con iniziative promosse dal basso che coinvolgano il quotidiano in proposte concrete, è da incoraggiare e incentivare, in un continuo dialogo cercato e coltivato con la componente maschile. Auspicabile partire, ancora, da un approccio educativo e formativo mirato, per aiutare a cogliere anche forme occulte di discriminazione e violenza simbolica veicolate dalla cultura dominante maschile, segnali anticipatori di aumento progressivo di violenza agita.
Una pratica per riconoscere e contrastare modelli convenzionali stereotipati introiettati in modo a-critico nell'immaginario collettivo, che confermano e rinforzano l'omologazione ai prototipi tradizionali.

Claudia Piccinelli



Kurdistan/
Per i bambini del Rojava

Il Kurdistan non esiste, o almeno non sulle carte mondiali fatte da confini, nazioni e continenti. Il Kurdistan è soltanto terra, è un vasto altipiano medio orientale parte di quella regione che un tempo vide fiorire grandi civiltà, chiamata Mesopotamia.
La questione territoriale curda risale a tantissimi anni fa: basti pensare che la sua prima spartizione ebbe luogo nel 1639, con il trattato di Qasr-e Schirin stipulato tra l'Impero Ottomano e la Persia. La sua dissoluzione territoriale definitiva ebbe luogo nel 1923 con la modifica del trattato di Sevres, causata dall'insoddisfazione turca in seguito alla spartizione dell'impero ottomano.
Con la stipula del trattato non solo la Turchia, l'Iran, l'Iraq e la Siria diventavano stati nazionali, ma assieme alla loro nascita si assisteva alla scomparsa dei diritti per i curdi: questi da allora hanno subito accuse e discriminazioni da parte dei quattro stati nazionali.
In risposta alla condizione curda, nel 1978, quello che fino ad allora era stato un movimento diventava un partito politico: il PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan). Sotto la guida di Abdullah Öcalan questo soggetto politico si rifaceva alle teorie marxiste-leniniste per avvicinarsi, attualmente, alle posizioni di un socialismo libertario con il sogno del confederalismo democratico. Nell'ultimo decennio infatti il movimento per la liberazione curda ha subito una vera e propria trasformazione ed ha posto come suoi fondamenti l'autonomia, il femminismo, la democrazia diretta e l'ecologia.
Nella Rojava, regione del Kurdistan siriano, tristemente nota per gli attacchi e i massacri compiuti per mano di Daesh (ISIS per gli occidentali), si sta assistendo ad una vera e propria rivoluzione rispetto alla partecipazione popolare e alla creazione di forme di autogoverno.
Proprio per sostenere e raccontare questa resistenza, questo esperimento rivoluzionario, nasce il progetto “Rojava Resiste: cuori e mani per il Kurdistan”. Il gruppo è formato da alcune attiviste e da alcuni attivisti, artisti di Milano e dintorni appartenenti a diverse realtà sociali dell'autogestione.
Nell'ottobre 2015 il gruppo decide di compiere un viaggio nel Bakur, Kurdistan settentrionale, in Turchia, per raccontare la scelta coraggiosa di un popolo, denunciare le prevaricazioni del governo turco e portare solidarietà tra le strade assediate, tra i campi profughi e nelle zone liberate che hanno proclamato l'autonomia.
Proprio da questa esperienza è nato un reportage a vignette realizzato da “Rojava Resiste” e “Vermi di Rouge” dal titolo Cuori e mani per il Kurdistan. Con la prima edizione, uscita nel febbraio 2016, ed esaurita in qualche mese, sono stati raccolti 2.660 euro che sono stati donati al progetto “Bimbi di Kobane” (www.bimbidikobane.com), associazione nata per aiutare i bambini della città di Kobane che hanno perso i genitori combattendo contro l'ISIS.
A dicembre 2016 è uscita una nuova riedizione di questo lavoro. L'opera, composta da 46 pagine, è stata arricchita con nuove tavole che non raccontano solamente la situazione curda, ma anche alcuni momenti del viaggio: dai campi profughi al coprifuoco imposto dal governo turco, fino alle manifestazioni di piazza.
Inoltre il volume reca un piccolo “glossario” in cui vengono riportate le sigle ed i nomi dei diversi movimenti che animano la resistenza e i nomi Kurdi di alcune zone, una mappa che riporta la spartizione del territorio ed una breve cronologia dei principali eventi che hanno influenzato la lotta curda negli ultimi due anni.
All'interno vi sono poi alcune fotografie delle opere di street art realizzate dall'artista “Vermi di Rouge” sul territorio italiano nelle sedi di collettivi ed associazioni. Al centro del volume compare il bellissimo murale realizzato, o meglio iniziato, durante il viaggio nel centro culturale curdo di Dicle-Firat di Diyarbakir. Infatti l'attuazione del dipinto, realizzato a quattro mani da Vermi di Rouge e da un'artista locale, Yesim, insegnante d'arte, è stata bruscamente interrotta dal coprifuoco, imposto per due giorni nella città vecchia. Comunque l'opera non è rimasta incompiuta: vedere per credere!
Troverete il volume in vendita durante gli incontri informativi organizzati da “Rojava Resiste” oppure potete acquistarlo on-line sul sito del progetto (www.rojavaresiste.org) o direttamente da quello di “Vermi di Rouge” (www.vermidirouge.com). Il costo è di € 5,00 e gli introiti saranno così divisi: 1/3 per i costi di stampa, 1/3 all'autore, 1/3 a sostegno del progetto (donazioni superiori a € 5,00 verranno devolute interamente al progetto “Bimbi di Kobane”.)
Per chi già conosce l'artista ritroverà il suo stile inconfondibile: vermi gialli, arrabbiati, sfacciati e senza troppi peli sulla lingua. Una satira di cui ora più che mai abbiamo bisogno non solo per ridere, ma per riflettere. Riderete... perché a volte bisogna ridere... per non piangere!

Camilla Galbiati


Biografie/
Anarchica, femmina, creativa, animalista, individualista

È uscito da poco un bel fumetto sulla vita-romanzo di Leda Rafanelli (Leda. Che solo amore e luce ha per confine, Coconino Press-Fandango, Roma, 2016, 21,5 x 29 cm, pp. 212, € 19,50) ispirato dalle sue opere edite e inedite e da alcuni saggi sulla polimorfa anarchica-futurista-musulmana, così come ormai veleggia la rapida biografia rafanelliana.
Sara Colaone e Francesco Satta, rispettivamente disegnatrice e scrittore dei testi, potrebbero essergli stati sulle ginocchia, ascoltando quanto scrive sul «Corrierino dei Piccoli» mentre l'altro coautore Luca de Santis, non è ancora nato quando la protagonista muore a 91 anni a Genova. La storia su Leda, vera ed evocata, non tralascia alcuno degli elementi ormai biografati. Qualche dubbio emerge in merito alla asserita crisi che avverrà con la morte dell'unico figlio e con i conseguenti dubbi sui suoi fermi convincimenti.
Conoscendola per averla frequentata, anche se solo da storico, non credo che Leda ne abbia avuti. Le sue convinzioni sono granitiche e le contraddizioni, lette dall'esterno, sono per lei forza e sintesi del suo sentire, e questo vale in politica come negli affetti. Ha vissuto integralmente la sua vita senza tentennamenti, gli altri o l'hanno accettata o rifiutata. Questo vale anche per le scelte spirituali, testimoniate da studi e analisi. L'adesione al sufismo l'ha, intelligentemente, largamente posta al riparo da limiti imposti dalle dottrine e dai dogmi, rendendola libera di darsene, quando ha voluto, chiamandoli “doveri”.
I principali protagonisti citati o presenti nel fumetto sono segnalati con foto e breve biografia in una sorta di “titoli di coda”. Questa ulteriore opera sulla poliedrica autrice che da diversi anni sta riscuotendo successi, deborda dalle carte depositate nel Fondo a lei intestato, presso l'Archivio Berneri-Chessa di Reggio Emilia dove, anche in questo caso, la curatrice Fiamma Chessa si è adoperata per la migliore riuscita del lavoro.
Leda, primadonna dell'Archivio, ha, contrariamente a quanto scritto da Gino Cerrito, contribuito e contribuisce a far emergere il proprio, ed anche nostro, anarchismo, dalla stretta cerchia: e lo testimonia l'ormai interesse pluridecennale. La vita è un romanzo ricorda l'incipit, e di romanzi è ricco il suo fondo, che la rappresenta, e che con certezza, affermiamo, continuerà a far fiorire ricerche, lavori, e chissà, pièce teatrali e film.
Per i lettori di “A” non ci addentriamo nella biografia, trattandosi di una figura assai nota, e chi vuole può agevolmente muoversi fra le schede del Dizionario degli Anarchici, o del Futurismo cercando elementi che tratteggino più e meglio che in questa sede, la sua particolare, multiforme, ed intensa vita. Anarchica, donna e femmina, vegetariana, creativa, animalista, individualista, militante attivissima, grande lavoratrice, ha interessato, dai rari lavori di Pier Carlo Masini di molti anni fa, una folla di storici, in particolare donne, che via via hanno scoperto la prolifica scrittrice ed animatrice culturale e politica. Negli anni sono stati prodotti molti saggi e articoli, racconti e interpretazioni, tesi e mostre.
Il sottotitolo del fumetto del quale oggi parliamo (non mi piace graphic novel) è preso pari pari dal logo della Libreria Editrice Sociale, nelle sue diverse versioni, definizioni e luoghi fisici di attività. Un simbolo di Arte&Anarchia da lei praticata come tipografa militante e disegnato come altri, dall'allora pittore anarchico (anni Dieci del Novecento) Carlo Dalmazzo Carrà, anch'esso attratto e innamorato di Leda. La LEF, in origine Polli-Rafanelli, inizia a Firenze per spostarsi a Milano, dove prosegue essenzialmente con l'apporto, anche affettivo, di Giuseppe Monanni, dal quale avrà l'unico figlio Aini (Marsilio).
Questa toscana di Pistoia, sposatasi con il fiorentino Luigi Polli “conosciuto ad Alessandria d'Egitto” in quella comunità anarchica derivante dai lavori per l'apertura dello stretto di Suez, ha avuto frequentazioni con Masini, ma anche con Maurizio Antonioli, Nico Berti e altri, i quali hanno avuto più volte modo di parlarne e scriverne.
Oggi la incontriamo attraverso una grafica morbida, a pennarello acquarellato, con copertina bohémien leggermente nouveau. Il fumetto è stampato su carta pesante, in grande formato, con 210 pagine in bianco/nero dove solo la copertina ha leggeri segni di colore, come un femminile piccolo trucco. Il fumetto vero e proprio si sviluppa su 198 pagine, con strisce o disegni volanti a pagina intera o frammenti con dialoghi inseriti in nuvole di forme continuamente diverse, in qualche caso con scritte fluttuanti, o concentrate in ritmi ad effetto collage. I disegni, con bordi a pennarello, sono spesso ampiamente acquarellati e sfumati. Il testo racconta le sue vicende di vita, di lavoro anche politico, che è bello vedere e gustare senza alcuna mediazione del recensore. Ormai novantunenne, “fa le carte” ad una cliente, e da qui, come in una sorta di flash back, torna più volte con la memoria al proprio percorso di vita.
Dall'infanzia con l'amato fratello Metello, al lavoro in tipografia, all'incontro con la politica e la spiritualità, alla lotta e l'impegno: agli amori. Non ho intenzione di raccontare un racconto, lasciando libero il lettore, invitandolo a questo compito. Solo due appunti su tutti i possibili.
Il primo riguarda il “passaggio” da Alessandria d'Egitto, fonte inesauribile del suo essere donna anarchica e musulmana Sufi. C'è stata veramente? E quanto? Gli autori, in maniera sagace, risolvono la questione in questo modo. Durante un importante e movimentato sciopero a Firenze, l'emozione, il coinvolgimento, la massa, la folla roboante e vociante, estrania Leda, che viene catapultata in una felice Babele di lingue e di figure, di incontri definitivi. Nel dubbio, gli autori scelgono un viaggio tutto mentale, ed a nostro parere, la scelta è felice.
Secondo appunto (forse per ragioni di notorietà del coinvolto), il fumetto si sofferma troppo, rispetto all'insieme, sul rapporto intrattenuto con Benito Mussolini.

Alberto Ciampi


Il cibo, un diritto per tutti/
Tre volte al dì

Ho iniziato a leggerlo pervaso da un po' di sano scetticismo. Temevo pregiudizialmente che si trattasse dell'ennesimo trattato para/universitario, infarcito di una buona dose di saccenteria accademica. Sono invece stato preso dalla lettura fino a convincermi che al contrario si tratta di un “gran libro” (Cibo e utopia – l'eterna lotta tra carnevale e quaresima, di Pierpaolo Pracca e Edgardo Rossi, Aracne editrice, Ariccia - Rm, 2015, pp. 332, € 20,00).
La sua insita bellezza deriva da ciò che riesce a trasmettere. Pracca e Rossi, i due compagni autori, non solo si sono accinti a studiare il rapporto, molto politico ovviamente, tra “utopia” e “cibo”, ma hanno scritto con tensione e gran passione, totalmente immersi nell'inquietudine utopica che caratterizza tutti gli amanti, fanatici come direbbe Bakunin, della libertà, insoddisfatti, fino a essere incazzati, del presente che continua a sommergerci tirannicamente.
È un testo dotto senz'essere dottrinario e profondo, vissuto con mente lucida e intensa emozione. Cerca di scoprire la “pentola” delle tensioni umane, le quali, sebbene stimolate dal bisogno biologico di cibarsi, da sempre non si accontentano semplicemente di riempirsi la pancia, mentre pretendono e sognano di farlo animati da spirito di emancipazione, spinti dal desiderio di emergere dagli stati di subordinazione cui, nei millenni del cammino collettivo della specie, sono stati costretti e continuano ad esserlo. Una ricerca che conferma ampiamente ciò che, senza esserlo affatto, può esser travisato come banale: il sogno di vivere bene; l'utopia insomma, si combina ed è strettamente legata alla voglia e al bisogno di mangiare al meglio, perché il vero desiderio che preme dal profondo delle pulsioni biologiche è proprio quello di vivere felicemente e di conoscere soddisfazioni il più possibile.
La connessione tra “cibo” e “utopia”, come mette bene in risalto il sottotitolo L'eterna lotta tra carnevale e quaresima, è un rapporto carico di conflittualità e manifesta tensioni radicalmente opposte tra loro. Da una parte la ricerca, fin dall'antichità, di pulizia e purificazione, di bisogno di emendarsi, che si riconosce in diete vegetariane che rifiutano la contaminazione delle carni in tutte le loro varianti. Dall'altra la rappresentazione di succulenti desideri traboccanti opulenza, dove la sovrabbondante enormità dei cibi sognati manifesta il bisogno di uscire dall'indigenza e dalla penuria imposti dalla prepotenza dei potenti.
“Una cosa è certa: il cibo nei mondi Utopici diventa un marcatore culturale, un principio identitario, in quanto ciò che si mangia è il riverbero dell'impianto ideologico sul quale si fonda un determinato immaginario sociale; il cibo quindi, come insegna Claude Lévi-Strauss (1908 – 2009), deve essere non solo buono da mangiare, ma anche buono da pensare. Ed è esattamente per questo motivo che, nella storia dell'umanità, il sogno della riforma sociale è andato di pari passo con l'idea di una riforma alimentare” (pag. 31).
Com'è giusto che sia, il viaggio comincia dall'antichità, dai primordi, dalla mitologica e agognata “età dell'oro”. Dai cibi dei primi racconti allegorici delle religioni, “la storia delle religioni è ricca di riferimenti a bevande magiche, a pozioni, a cibi divini” (pag. 34), a Esiodo, al Platone de “La Repubblica”, al ricco cibo effettivamente mangiato dall'aristocrazia romana opposto a quello povero delle plebi, che di contrasto sognavano banchetti luculliani. “Pare evidente il netto contrasto tra la reale vita quotidiana della plebe e l'opulenza della classe patrizia che da una parte vedeva la miseria e dall'altra una alimentazione eccessiva capace di cagionare gravi malattie da eccesso. [...] Il cibo diventa un marcatore culturale, sociale ed anche politico capace di evidenziare le differenze tra classi. Non è un caso che a Roma spesso il politico in cerca di consensi spesso offrisse il famoso panem, talvolta unito al circenses” (pag. 64).
È un excursus, fondamentalmente incentrato sull'occidente, che ne attraversa tutte le epoche culturali, confrontandosi anche di tanto in tanto con altre civiltà. Dal significato del cibo per gli ebrei, per i quali “l'alimentazione ha costituito un segno fondante dell'alleanza tra uomo e Dio” (pag. 73), alle diete della cristianità, dove assume un'importanza predominante l'utopia agostiniana della “Città di Dio”: “si passa dall'idea platonica di stato come governo retto dai filosofi a quello stato inteso quale strumento della divina provvidenza” (pag. 87). Scelta sostanzialmente legata alla penitenza, perché tutta l'utopia cristiana è impregnata del senso del peccato originale, coincidente con un peccato di gola per aver mangiato il pomo della conoscenza proibito da Dio.
Un dettato teologico che contraddice in modo vistoso le tavole dei nobili medioevali, riccamente e viziosamente imbandite, spudoratamente contrastanti con la povertà dei contadini. “Per il popolo la razione di cibo giornaliera spesso era scarsa, la netta divisione sociale si manifestava in maniera eclatante sulle tavole, o troppo ricche di cibo, o molto povere [...] se da un lato si inseguivano sogni miranti ad un'alimentazione pura o benedetta, dall'altra non si esitava a nutrirsi in abbondanza contravvenendo le regole che la Chiesa imponeva [...] il Medioevo fu un periodo di eccessi dove carnalità e spiritualità si confrontavano e si mescolavano dando vita a sogni infiniti” (pag. 92).
Questa condizione rappresentò una spinta irrinunciabile per “una contro utopia che si propone immediatamente come il rovesciamento della concezione quaresimale”. Presero così forma i vari miti e le diverse fantasie che ostentavano il sogno di un'abbondanza e di un benessere negati, che assumevano la forma di magnificenze gastro/culinarie. I più noti sono il “Paese di Cuccagna” e il “Regno di Bengodi”. Tensioni e contrapposizioni sovversive che si perpetuano, attraversano il Rinascimento e continuano a propagarsi evolvendosi. Significative le smisurate abbuffate dei giganti Gargantua e Pantagruele descritte da Rabelais nel cinquecento, che fra l'altro danno forma all'abbazia di Theleme, insuperato luogo immaginario dove vige una libertà anarchica totale e in cui l'unica regola è: fa ciò che vorrai. “L'utopia di Theleme è un attacco in piena regola all'insegnamento tradizionale” (pag. 142).
Cibo e utopia sottolinea in continuazione come il cibo, approntato e consumato, mostri in ogni epoca le differenziazioni di classe, prova prima dell'ingiustizia sociale che beneficia i privilegiati e condanna i deboli e sofferenti. Allo stesso tempo il cibo immaginato e desiderato rappresenta una autentica forza sovversiva, uno stimolo fondamentale per dare forma a utopie sociali dove si realizzano giustizia e benessere per tutti nella realtà negati.
Il libro prosegue fino ai giorni nostri, attraversando l'Illuminismo, le diverse utopie politiche della rivolta moderna e delle tensioni rivoluzionarie otto/novecentesche. Si addentra con disinvoltura e colta consapevolezza nella controcultura americana degli anni sessanta del secolo scorso in uno splendido capitolo, “La controcultura americana e l'assalto al paradiso - la droga come cibo degli dei”, che ritengo sia una delle cose migliori scritte sulla “beat generation”. S'inoltra pure nel meraviglioso viaggio delle avanguardie artistiche, fino alle performance della Mail-art e di Fluxus, dove il cibo è elemento fondante di autentiche provocazioni. “Fluxus vuole far regredire il mito dell'artista elevando l'arte ad espressione elementare di un desiderio creativo che non è più appannaggio di una elite culturale ma è alla portata di tutti” (pag. 276).
Non poteva che finire dicendo con forza che i due autori hanno un “desiderio potente”, antitetico al modello di sviluppo attuale, ma che si protende ugualmente verso un'utopia che spererebbero possibile. Di fronte al mondo attuale, che sembra irrimediabilmente finalizzato a soddisfare un'esigua minoranza che s'impone prepotentemente su tutti gli altri, l'utopia desiderata è proposta con queste parole: “Vogliamo un mondo dove a tutti i popoli, a tutti i singoli uomini, donne e bambini, vengano garantiti tutti i giorni tre pasti, e con un cibo sufficiente a nutrire il loro corpo e la loro mente. Un cibo che sia sano, buono e giusto e permetta a tutti di essere migliori, perché il cibo deve essere un diritto condiviso, non un privilegio o un lusso e neanche uno strumento di commercio” (pag. 316).

Andrea Papi