Se è gratis la merce sei tu
Nell'apparente “capitalismo senza proprietà”
dei mondi digitali siamo sempre collegati in un lungo e potenzialmente
infinito streaming di dati che dal nostro smartphone fluisce
verso i server delle grandi major dell'Information Technology.
Questo comporta non solo essere fornitori attivi di dati,
inserendo informazioni mentre utilizziamo i servizi gratuiti
di queste compagnie, ma anche passivi, nel momento in
cui i dispositivi mobili diventano silenziosi ricettori e trasmettitori
di ciò che facciamo. Pensiamo alle applicazioni installate
sui telefoni e ai permessi che richiedono: cosa servirà
ad un banale giochino elettronico avere il controllo del microfono
del nostro telefono?
Per
capire questo e potenzialmente essere in grado di spiegarlo
ad altri, dobbiamo affidarci proprio alla nostra capacità
di farci domande semplici e controcorrente.
La finalità del web cosiddetto 2.0 non è “tenerci
in contatto con le persone della nostra vita” come ci
dice Facebook e nemmeno la “condivisone della conoscenza”
come recita Google, non c'è alcun obiettivo di emancipazione
sociale nelle piattaforme e applicazioni “social”:
l'obiettivo del web 2.0 è il profitto.
I grandi colossi dell'informatica commerciale, i padroni della
rete - tra cui bisogna nominare anche Apple, Amazon, Microsoft
– sono entrati a pieno titolo tra le aziende più
ricche del pianeta.
Ma perché sono diversi da altri più noti come
Zara, Wal-mart, Bloomberg, Ferrero o l'Oreal? La caratteristica
che rende unico il turbo-capitalismo californiano è che
i loro prodotti sono gratuiti. Com'è possibile
essere i più ricchi magnati del mondo “regalando”
servizi?
I più smaliziati staranno già pensando alla pubblicità
mirata. Ossia, la raccolta dei dati sugli argomenti trattati
o ricercati degli utenti nelle loro interazioni e navigazioni
on-line al fine di proporre una pubblicità il più
possibile specializzata. Questo è certamente vero, ma
avete mai visto una pubblicità di McDonald o di Nestlé
mentre andate in giro per il web? No, la pubblicità mirata
è fatta per i piccoli e medi inserzionisti, quelli che
non hanno come campo di gioco la globalità del pianeta,
ma che sono legate a territori fisici e linguistici specifici.
L'opportunità unica che viene loro offerta è quella
di arrivare ai propri potenziali clienti tramite una banca dati
superiore a qualunque possibile studio di settore.
Dopo circa quindici anni di informatica di massa gli utenti
hanno imparato a distinguere i risultati sponsorizzati, sono
diventati meno ingenui e tra un click curioso o annoiato e la
propria carta di credito lo spazio non è più così
breve. La pubblicità mirata è solo uno degli introiti
dei servizi gratuiti e non è il maggiore. Oramai è
diventato lo specchietto per le allodole da usare quando qualcuno
comincia a fare domande sul “modello di business”.
Quindi come guadagnano davvero i servizi gratuiti? È
noto lo slogan Se è gratis, la merce sei tu: nel
capitalismo informatico ciò che viene comprato e venduto
sono principalmente gli utenti, cioè noi. Ma come si
fa a far diventare un utente una merce? Il principio della reificazione,
cioè del rendere una persona un oggetto, si basa sulla
possibilità di fare una misurazione, dunque un calcolo.
In informatica: incapsulare un concetto non computabile in un
modello digeribile da un linguaggio di programmazione.
La domanda allora diventa filosofica, come si misurano gli umani?
Si deve trovare il modo di ridurre drasticamente la complessità.
L'escamotage trovato dall'informatica commerciale è quello
di implementare un metodo di marketing: il profiling,
a sua volta mutuato dalla psicologia comportamentista. Il profiling
è quell'insieme di tecniche che permettono di identificare
e suddividere (discernere) gli utenti in base al loro
comportamento. Nei mondi digitali dei servizi gratuiti l'identità
della persona è interamente sovrapposta al suo comportamento
sulla rete. Perché il comportamento? Perché si
compone di azioni che sono direttamente osservabili, registrabili
e misurabili attraverso degli indicatori. Il monitoraggio dell'utente
comincia subito, dalle cose più semplici: attraverso
la navigazione dei siti Internet - quali frequenta, quanto tempo
vi passa - continua attraverso uno snodo fondamentale quale
l'identificazione attraverso una email e tutti i relativi log-in
sui servizi, dai quali quasi mai si effettua un log-out, per
finire con ogni singola condivisione e “like” effettuato
sui social media.
Cosa succede una volta che i dati vengono raccolti e stoccati
nelle grandi banche dati - enormi hangar super refrigerati con
sede nel nord del Canada, in Groenlandia e in generale nei paesi
artici occidentali? Naturalmente vengono venduti; questa volta
non ai piccoli e medi inserzionisti ma agli altri, quelli con
i quali le aziende informatiche condividono le classifiche di
Forbes: i Bloomberg, le Koch, i Louis Vuitton...
In che forma siamo messi in commercio e cosa poi costoro se
ne facciano non ci è ancora dato saperlo. Quello che
sappiamo è che attraverso la firma dei TOS (Termini di
Servizio) cediamo ogni diritto sui quei dati e che i servizi
si riservano la possibilità di elaborarli in qualsiasi
modo e di farne merce. È importante dunque assumere questo
passaggio a livello culturale: con il profiling digitale
il tema del controllo dei viventi non è più di
appannaggio politico, ma è diventato una prerogativa
dell'industria commerciale. Il capitalismo senza proprietà
non esiste: la proprietà siamo noi, divenuti materia
prima.
È possibile rompere la catena impalpabile dei flussi
digitali che ci tiene saldamente ancorati ai nuovi padroni?
Naturalmente sì. Ma prima occorre imparare a capire da
dove parte e dove arriva.
Ippolita
www.ippolita.net
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