rivista anarchica
anno 47 n. 415
aprile 2017


comunità e ambiente

Dietro lo stadio

di Adriano Paolella


Si è parlato soprattutto dello stadio di Roma, ma ben altri sono gli interessi toccati. Un caso emblematico di disinteresse per il bene pubblico e di carenza di cultura ambientale e sociale. Urge la sensibilizzazione.


Piccola premessa

La vicenda dello stadio romano ha evidenziato due condizioni indicatrici di una profonda crisi culturale.
In primo luogo coloro i quali sono stati contrari alla sua costruzione non sono riusciti né a mobilitare i cittadini, né a divulgare una interpretazione del processo di trasformazione che esulasse dalla scelta “stadio sì/stadio no”. In secondo luogo gli effetti ambientali e sociali derivanti dalle scelte sono stati percepiti in maniera molto confusa per una incapacità di approfondire i temi e di palesarne le problematiche connesse. Queste due condizioni, strettamente collegate, mostrano un generale deperimento della cultura e nello specifico della cultura ambientale delle comunità.
Se infatti pochi si sono espressi correttamente sul tema, se ha avuto facile gioco la demagogia dei costruttori e dell'amministrazione, ciò dipende dalla scarsa penetrazione nella società dei ragionamenti relativi ai temi dei beni comuni, della qualità degli insediamenti, della partecipazione attiva, dell'ambiente.
Questo non è il primo segnale di quanto la distanza tra coloro i quali hanno consapevolezza di tali temi e la maggioranza della popolazione sia ampia e di quanto spesso sembra che si parli la stessa lingua, ma in realtà si adoperano solo le stesse parole.
Così quando si tratta di mutamenti climatici è raro incontrare qualcuno che non ne sia preoccupato anche quando è seduto su di un SUV, in un ufficio o in casa con temperature glaciali d'estate e torride d'inverno, in un aereo per fare un fine settimana in qualunque posto (basta che sia lontano) o quando sta facendo altre azioni inquinanti, dannose, evitabili.
Alla stessa maniera si parla di grattacieli indicandoli come soluzioni ecologiche quando sono edifici ad elevato consumo di energia, di rinnovamenti urbani che producono case per ricchi quando sono le periferie dei poveri che dovrebbero essere riqualificate, di nuove costruzioni quando parte degli insediamenti è inutilizzata. I termini riqualificazione ambientale e urbana, sostenibilità, partecipazione appaiono condivisi, ma in realtà nascondono al loro interno una distanza siderale tra soluzioni ecologiche e quelle coerenti con il modello economico e sociale imperante.
La vicenda dello stadio romano ha mostrato come la cultura ambientale e sociale sia troppo superficiale e labile per permettere alla comunità di esercitare il proprio diritto di conoscere e di essere attiva nelle decisioni. In presenza di una delle più grandi speculazioni edilizie che si sia concretizzata in Roma, di fronte all'inutilità della stessa, all'appiattimento mostrato dall'amministrazione nei confronti di poteri forti, alla demagogia che ha trovato veicoli appropriati nei media, alla scarsa incisività della ragionevolezza, la riduzione delle cubature appare una soluzione.
Poteva andare peggio, molto peggio, dei 600.000 metri cubi del progetto ridotto e concordato (orientativamente il volume di 85 palazzi di 5 piani con 20 appartamenti ciascuno). Ma questo non può essere sufficiente. Alla debolezza della comunità, alla sua impreparazione nel difendere e qualificare gli interessi comuni corrisponde il rafforzamento degli interessi privati ed è quindi imprescindibile tornare a sensibilizzare gli abitanti sui temi relativi alle modalità insediative da cui dipende una parte non marginale del benessere dei cittadini.

Com'è nata questa storia

Un costruttore romano, che propone edifici di qualità energetica e architettonica ed ha una capacità strategica superiore a quella degli altri “palazzinari”, anni addietro acquista terreni nell'area di Tor di Valle in prossimità di un ippodromo costruito negli anni sessanta e da tempo dismesso.
L'area è a rischio idraulico e nel piano regolatore (prodotto delle giunte Rutelli e Veltroni in circa sette anni con centinaia di consulenti, un'infinità di analisi, una pletora di momenti di informazione e confronto con operatori e cittadini) è prevista la costruzione di poco più di 120.000 metri cubi di edifici.
Il costruttore, tifoso della Roma, inizia a fantasticare sulla possibilità di “regalare” alla sua squadra un nuovo stadio utilizzando parte dei profitti derivanti dall'edificazione dell'area di sua proprietà. Solo per memoria, le due squadre di calcio romane chiesero per i mondiali del Novanta uno stadio (coperto) con il maggior numero di posti possibile - e questo comportò l'abbattimento e la ricostruzione dell'Olimpico con i fondi pubblici - e oggi, dopo solo 20 anni, non lo ritengono più adeguato vista la riduzione degli spettatori causata, in primo luogo, dalla vendita, che esse stesse hanno fatto, dei diritti televisivi ad emittenti private.
Ma l'intervento è troppo oneroso per le grandi quantità di edificato necessarie a garantire, oltre ad un significativo utile per l'imprenditore, anche la costruzione dello stadio. Ed ecco che arriva una banca e un miliardario americano (che acquista la squadra di calcio) che si rendono disponibili a cofinanziare l'impresa avendo la certezza della redditività dell'investimento.
Si chiama un architetto internazionale, uno dei più popolari ed evocatori, quello della Torre di Manhattan a New York, già usato a Milano per l'area dell'ex-fiera, che progetta tre grattacieli circondati da altre centinaia di migliaia di metri cubi di costruito.
Il progetto viene sottoposto al più inetto sindaco che Roma abbia mai avuto, Marino, sostenuto dalla “sinistra” e già propositore (una delle poche proposte da lui fatte) della “città a luci rosse”, che formalizza il progetto come di pubblica utilità e lo spedisce all'approvazione di altri (nel caso alla Regione).
Poi è storia nota. L'amministrazione cittadina così pronta a bollare come “colata di cemento” le opere connesse alla candidatura olimpica, consistenti principalmente in opere di restauro e adeguamento di strutture sportive esistenti, sottoutilizzate o abbandonate, e nella costruzione di un villaggio olimpico (che sarebbe divenuto residenza per studenti) per la quasi totalità all'interno del piano regolatore, non è altrettanto pronta a esprimere un parere negativo sui 900.000 metri cubi tutti nuovi, per 8/9 fuori piano regolatore, previsti dal progetto stadio (che costituisce solo il 14% del totale dei volumi).
A seguire l'enorme pressione esercitata dai proponenti, la “trappola” all'assessore che si opponeva all'impresa, la pressione della squadra (che utilizza le tifoserie per “stimolare” scelte favorevoli all'impresa) e infine la grande e minuziosa campagna di comunicazione (su google maps è già segnato il sito con tanto di foto) in cui si parla di stadio e mai si presenta l'azione per quello che è: una speculazione edilizia.

Sopra: il progetto con i grattacieli. Sotto: il progetto dopo la riduzione delle cubature

Alcune questioni

Riepilogando, vi è un interesse privato, legale, che vuole operare una trasformazione per ottenere un profitto economico (anch'esso legale).
L'interesse è quello di costruire edifici vendibili. Il mercato edilizio è da anni fermo e per ottenere un prodotto che riesca a interessare gli acquirenti è necessario fare un prodotto accattivante, costoso perché garantisce maggiori margini, rivolto quindi ai ricchi che si possono permettere di acquisire una casa non per necessità, e promuoverlo con forza.
Questa condizione apre alcune questioni.

Prima questione: lo sfruttamento di un bene comune.
Come mostrato dalle “rigenerazioni urbane” (ad esempio quelle londinesi, ma anche quelle milanesi) si ottiene un prodotto vendibile chiamando un architetto noto (e fin qui non c'è problema), facendo un progetto un po' fantastico tipo grattacieli ammosciati, ogive, boschi verticali (e qui qualche problema energetico-ambientale c'è) e costruendo edifici alti perché evocano la “città delle città”, New York, (e qui un po' di epigonismo sottoculturale) ma principalmente perché vendono un bene comune quale è la vista del paesaggio.
E già perché dalle torri progettate per Roma si sarebbe percepito molto bene tutta la città, da San Pietro fino al mare. Una città bellissima e riconoscibilissima oggi più che mai proprio per non avere edifici alti e avere conservato quella conformazione adagiata sui colli.
Una vista tanto apprezzata nel progetto che esso consente di percepirla dalle torri per quello che era prima che la costruzione di queste ne alterasse il profilo.

Seconda questione: l'inutilità delle pianificazioni urbanistiche.
È giusto che un imprenditore proponga un'operazione, ma è altrettanto giusto che una amministrazione, il cui compito è tutelare il bene comune e attuare quanto da essa stessa definito nei propri strumenti urbanistici, possa rispondere negativamente alla proposta.
Se non sono stati previsti nel piano regolatore interventi di tale natura e dimensione si può ipotizzare che non siano necessari. La mancanza di una pressione da parte dei cittadini facilita il superamento delle strumentazioni urbanistiche e ne vanifica la già scarsa utilità (i piani nascono sempre dal compromesso con gli interessi fondiari).

Terza questione: il ruolo dei proponenti eccede la dialettica democratica a cui si riferisce l'attuale assetto della società.
L'imprenditore non si limita a proporre ma fa di tutto per realizzare i propri programmi e attiva tutte le strumentazioni in suo possesso: grande comunicazione, demagogia, mobilitazione di tifoserie.
Negli anni cinquanta e sessanta, quelli del cederniano “sacco di Roma”, le speculazioni erano più rozze e violente. La trasformazione delle villette previste per il Tuscolano (Cinecittà) in palazzi alti undici piani e distanti 6 metri l'uno dall'altro, fu proposta dai costruttori in quanto “la bellezza dell'ingresso alla città era garantita dalla costruzione del quartiere INA-Casa” e quindi non vi era più necessità di mantenere bassa la cubatura prevista dal piano regolatore dell'epoca. Vi fu l'autorizzazione del Comune.
Ma come allora i grandi investimenti, come detto oggi più colti e attenti rispetto ai ritorni sociali, hanno dimostrato una grande capacità di indirizzare le decisioni, di sottomettere le strumentazioni urbanistiche, di mettere sotto pressione l'amministrazione, di annullare scelte pianificate la cui definizione ha impegnato tecnici, amministratori e cittadini per anni, forzando la dialettica democratica.

Quarta questione: la mancanza di partecipazione.
Il progetto è stato presentato come Stadio della Roma e non come speculazione edilizia la cui compensazione è lo stadio. Un'impostazione demagogica che tanto bene nasconde le matrici economiche e finanziarie dell'operazione da permettere all'imprenditore americano proprietario della squadra di calcio di minacciare la vendita dei migliori giocatori se lo stadio non fosse stato costruito.
Ad una proposta coerente con il modello economico vigente, ad una pressione decisa e ben orchestrata, alla debolezza congenita delle amministrazioni (esaltata dall'eterea sindaca) non si è opposta una capacità comune di evidenziare i suddetti limiti e di dibattere sui beni comuni e sulla configurazione della città.
I cittadini non hanno partecipato, hanno subito, nel caso si sono posizionati a favore o contro ma non vi è stata alcun interesse a rendere la scelta, che afferisce all'ambito individuale e collettivo, esito di una decisione partecipata.

Il problema culturale

Al “Famolostadio!” è mancata una diffusa risposta tesa ad evidenziare quanto questo atteggiamento fosse sbagliato, infantile, ignorante. Molti sono stati i partiti, i sindacati, i giornalisti, le persone di cultura che hanno visto nel “fare” la possibilità di migliorare, quando come ben noto a tutti il fare può essere anche sbagliato. A molti il progetto delle torri è piaciuto.
Una parte potranno essere conniventi, prezzolati, interessati, ma tanti altri danno a ciò che è grande, alto, lucido, nuovo un valore superiore a qualunque altra considerazione. Come se non vi fossero altre priorità, come se non vi fosse il problema del recupero di estese periferie invivibili, degradate, abbandonate o quello del riuso di edifici non utilizzati o quello di ridurre la mobilità con una configurazione dei servizi e delle attività produttive più prossime alle residenze.
Non solo, come se non vi fossero due impianti da recuperare: l'Olimpico che potrebbe essere modificato per contenere un numero minore di spettatori e per consentire l'avvicinamento del pubblico al campo e il Flaminio, una struttura che ha le dimensioni e le misure simili a quelle richieste e che da anni è inutilizzato.
Si ignora la questione ambientale, la cui corretta impostazione ci impone di ridurre quanto prima sprechi ed emissioni, si ignora la questione sociale, la cui priorità ci impone di riqualificare parti intere di città (non quelle, come l'area in questione, non costruite dove si scarica ogni anno qualche tonnellata di rifiuti, ma quelle dove vivono centinaia di migliaia di cittadini), si ignora la questione dei beni comuni la cui considerazione impone di fare scelte comuni.
Eppure a leggere i giornali nazionali, tra un tripudio di dichiarazioni dei tifosi e l'interpretazione “politica” dei pettegolezzi, l'attore Alessandro Gassmann intervistato da Repubblica il 25.2.17 (a soluzione trovata) come tifoso (sic) dichiara “quella zona è abbandonata nel degrado totale il piano presentato dalla Roma potrebbe essere l'occasione per farla rivivere. Analizzando il progetto, mi sono reso conto che non implica una cementificazione massiccia, ma che prevede una forte riqualificazione dell'area. Perciò sono favorevole”, l'articolo di Paolo di Paolo recita relativamente all'eliminazione delle torri “sull'eternità del passato di Roma nessuno può avere dubbi; sulla sepoltura del suo futuro cominciamo ad averne troppi” e prosegue parlando dell'altezza degli edifici a New York “noi restiamo bassini, con i 120 metri del trattazione progettato da Franco Purini al Torrino. Non che la bellezza e la vivibilità di una città siano riducibili ad una gara di misure, ma questa Roma appesantita non riesce a slanciarsi” e, pochi giorni dopo, un ex-presidente di una delle maggiori associazioni ambientaliste nazionali sostiene che il grattacielo è ecologico e che le opere sono ecocompatibili, quando è palese e noto come ciò non sia vero.
Ci sono state anche significative voci che hanno tentato di ragionare sui fatti, ma una valanga di luoghi comuni (la città moderna è nuova, alta, lucente, illuminata; bisogna modernizzarsi; il termine più usato è fare, non riflettere, non fare la cosa giusta, ma fare) ha sommerso tutto.
Dalle reazioni riscontrate è evidente che questo progetto e le modalità con cui si è composto non è stato percepito come un elemento di degrado per la comunità, una fonte di alterazione per il paesaggio e l'identità culturale di Roma, come un epigonismo ritardatario rispetto ad un modello economico, produttivo, insediativo che fa acqua e danni da tutte le parti. E questo è un problema culturale perché evidentemente non si è riusciti a sensibilizzare adeguatamente i cittadini sull'importanza dei beni comuni, delle scelte condivise, sulla bellezza del paesaggio e sulla dimensione contemporanea della vita a Roma.
Non avendo risolto la questione culturale che ha permesso l'ideazione del progetto, ritenuto anche dalla Sindaca (forse neanche sapendo di che stesse parlando) “ecosostenibile”, “ecocompatibile”, anche l'altra squadra romana, sostenuta da un altro costruttore che ha acquisito altri terreni da un'altra parte, vuole il suo stadio e non vuole recuperare il Flaminio.
E perché no: se non c'è necessità di riusare quanto esistente, se non abbiamo problemi di mobilità e di emissioni, se possiamo investire non sulle priorità sociali e insediative della città, e se abbiamo un buon architetto e casomai un grattacielo storto perché non dovremmo farlo.

Cosa succederà

I recenti eventi spazzano via, se ce ne fosse bisogno, alcuni imbarazzanti incomprensioni: che le amministrazioni, l'urbanistica e i piani possano garantire interessi comuni e che chi ha i soldi sia sottoposto alle stesse regole degli altri cittadini.
Ma questa condizione ci impone di constatare che appena la consapevolezza comune si appanna le questioni ambientali e sociali, e quindi i beni comuni, tornano ad essere oggetto di indiscriminato sfruttamento. E ciò non può che essere stimolo ad una nuova stagione di sensibilizzazione ed a porre una maggiore attenzione a quanto succederà

Adriano Paolella