rivista anarchica
anno 47 n. 416
maggio 2017


dibattito anarchismo

Territori alternativi di libertà

di Andrea Papi


La rivoluzione “tradizionale”, di ottocentesca memoria, non è più ipotizzabile – si sostiene in questo scritto. E si propone come obiettivo la costruzione di spazi autogestiti: una società nella società. Non è una proposta nuova, già Colin Ward e altri l'avevano avanzata. Il dibattito è aperto, apertissimo.


Dopo la rivoluzione francese, avvio simbolico della modernità in politica, sorsero le varie scuole socialiste, divise tra loro ma tutte tendenti a desiderare, proporre e valorizzare il socialismo, sistema di convivenza sociale dove il valore collettivo della condivisione era considerato primario. I ribelli, i reietti, gli sfruttati, gli oppressi in generale si sentivano accomunati dalla tensione di una lotta per abbattere il potere dominante, per pervenire al “sol dell'avvenire”, una società nuova fondata su giustizia libertà e uguaglianza.
Erano fermamente convinti che fosse sufficiente abbattere le strutture di potere dominanti per realizzare forme e istituzioni di una socialità nuova, sorretti dalla certezza che libertà e solidarietà corrispondessero a una naturale propensione del vivere sociale, al momento repressa e impedita.
Oggi quel sogno è completamente e definitivamente infranto.
Nella fase attuale, dove il capitalismo proprietario ipotizzato da Smith e Ricardo è ormai un flebile ricordo e trionfa un liberismo rampante a egemonia finanziaria, sostanzialmente manageriale e speculativo, le società appaiono sempre più schizofreniche. Da una parte, a dire il vero prevalente, assistiamo a un proliferare di comportamenti mossi da smodati egoismi e pulsioni di avidità, provenienti da tutti gli strati e le classi sociali, seppur in maniere e modalità diverse. Un'umanità che sembra piombata in un baratro ferocemente anti-umanista, animata da grande cattiveria.
Dall'altra un proliferare, abbastanza minoritario seppur non marginale, di iniziative solidaristiche tendenzialmente mutuali, motivate da bisogni etici ed estetici, che si profonde in aiuti ai più deboli e oppressi. Tra queste due tendenze una specie di immensa “terra di mezzo”, apparentemente anonima, che sopravvive e si arrabatta nei propri ambiti individualistici, cercando di subire il meno possibile, senza in realtà riuscirci, l'incombente spietatezza del dominio economico/militar/politico che ci sovrasta con tracotante veemenza.

Altamente improbabile

Di fronte a un tale spettacolo è facile lasciarsi prendere dal timore che avesse ragione Hobbes, il quale nel Leviatano descrisse la società come luogo del “tutti contro tutti”, il famoso “homo homini lupus”, da cui scaturirebbero le paure che ci vorrebbero bisognosi del ferreo comando di un monarca tiranno al quale, per implicito contratto, si demanderebbe il compito d'imporre l'ordine e di proteggerci.
Per nostra fortuna si tratta di una visione viziata alle radici, astratto artificio fondato sulla certezza non comprovata di un presunto “stato di natura”, in cui prevarrebbero e predominerebbero istinti e comportamenti antisociali, in realtà finalizzata a giustificare l'imperio assolutista di uno stato despota.
Di fronte a uno sguardo antropologico attento, oggi possiamo dire con certezza che sono invece le relazioni e le condizioni sociali a determinare e stimolare i comportamenti, le mentalità e gli indirizzi politici delle strutture che ci governano. Non essendo presupposti innati, come sarebbe se si trattasse di natura umana, può benissimo mutare, perché la possibilità di cambiare dipende dalla volontà e dalle propensioni collettive.
Senz'altro il controllo sociale e la violenza statuale, che s'impongono protetti dalle leggi prodotte dagli organismi istituzionali, determinano grossi condizionamenti, come pure vincoli dipendenze e suggestioni pressanti derivate dalle logiche e dall'azione dei mercati. La possibilità di cambiare esiste perché nessuna condizione, per quanto propagatasi, è inscritta nelle ferree leggi della natura, da cui non sarebbe possibile prescindere.
Purtroppo al momento appare altamente improbabile qualsiasi cambiamento con caratteristiche di emancipazione. Le cronache quotidiane, infatti, documentano l'amplificarsi di ansie e apprensioni collettive. Paura di essere aggrediti o derubati, paura che gli immigrati siano troppi ci rubino il lavoro e diventino malviventi aggressivi, paura che la prepotenza e il bullismo ci sovrastino, paura del terrorismo sempre in agguato, paura di “mettere i piedi fuori dall'uscio di casa”. Un insieme di timori che inducono a un avanzante pessimismo, suffragato da un progressivo spostamento a destra del sentire e del manifestarsi collettivo. In diverse parti del globo, seppure con modalità e aspetti differenti, si stanno diffondendo sentimenti xenofobi e razzisti, sempre più frequentemente associati a richieste palesi di essere comandati da uomini forti.
Un clima che sta favorendo l'espansione di formazioni di estrema destra dichiaratamente razziste, di deliri suprematisti e voglie di nazionalismi sovranisti. Il tutto accompagnato da un amplificarsi di mentalità che esprimono comportamenti antisociali, androcratici e maschilisti. Se ne ha un riscontro nel panorama socio/politico determinantesi.
Gli eredi della “gloriosa” classe operaia, o quel che ne rimane, destinato fra l'altro ad essere affossato da un incipiente progredire dell'automazione e della robotizzazione, per esempio, negli USA hanno votato Trump, in Francia con molta probabilità voteranno per il lepenismo rampante, mentre in Italia da circa due decenni fette consistenti di proletariato votano Lega senza troppi problemi. In tutto il mondo un numero crescente di persone provenienti dagli strati meno abbienti della popolazione dimostra simpatie per neo/formazioni di ispirazione sciovinista xenofoba e nazionalista.
È così ormai fuori dalla realtà continuare a identificare e proporre l'attuale proletariato, in quanto classe, quale “naturale” soggetto rivoluzionario per eccellenza. Se poi pensiamo che in un passato recente, quando ancora dimorava nei cuori la “certezza del sol dell'avvenire”, su questa illusione si è in gran parte impostata l'impalcatura ideologica della sinistra in generale, ci rendiamo conto di quanto questo epocale spostamento a destra dei supposti “soggetti di classe” renda impraticabile la riproposizione, seppur aggiornata, di progettualità alternative libertarie di tipo solidale e mutuale. L'elemento desiderante, che rafforzava gli ideali e si traduceva in costruzioni utopiche da perseguire, si è disgregato nell'impatto con una realtà che nei fatti è spontaneamente mutata in senso antitetico a quello auspicato.

Abbattere l'esistente?

Ciò che si sta prospettando con sempre maggiore veemenza non è certamente rassicurante per gli amanti della pace e della libertà, mentre sempre di più risulta d'impedimento alla creazione e alla diffusione di situazioni di solidarietà e mutuo appoggio, cioè alla possibilità di avanzare verso alternative sociali libertarie, addirittura anarchiche. Almeno se intendiamo l'anarchismo come qualcosa che dovrebbe abbracciare la società nel suo complesso, come in effetti è stato concepito dai “padri fondatori”. Nel suo poetico “nostra patria è il mondo intero”, nel suo stupendo sogno di un “internazionalismo della libertà”, capace di abbracciare ogni essere umano del mondo intero, l'anarchismo ha sempre mostrato una bellezza umanista e libertaria senza compromessi. I nostri cuori sono ancora pieni dello stupendo “se uno non è libero nessuno lo è”, di bakuniniana memoria.
Quando questa prospettiva ideale è stata pensata aveva un senso profondamente realista, perché si collocava e prendeva avvio in contesti sottoposti a dispotismi centrali spietati, tutti imposti da altezze gerarchiche che senza remissione sottomettevano e impedivano la libera circolazione delle idee e il formarsi delle aggregazioni dal basso. Un contesto che rendeva legittimo supporre che se non ci fossero stati la mano di ferro e il blocco di stati eserciti e chiese situazioni di libertà e condivisione economica solidali sarebbero fiorite spontaneamente. Allora aveva senso presumere che, se si fosse riusciti ad abbattere i muri che ostacolavano d'autorità l'esprimersi della libera volontà collettiva, si sarebbe propagata una situazione diffusa di libertà e anarchia.
Un panorama visionario superato, che con grande evidenza si scontra con gli scenari che oggi si stanno prospettando. Se improvvisamente, per un qualsiasi improbabile evento rivoluzionario, si creasse una situazione senza autorità e senza strutture di comando, lasciando libero campo a costruzioni progettuali dal basso, quasi sicuramente si edificherebbe ben poco capace di avvicinarsi a prospettive di tipo libertario e anarchico. Anzi, date propensioni e climi che si stanno manifestando in varie parti del mondo, è lecito supporre che prenderebbero forma nuovi aberranti assolutismi, totalitari e dispotici, alcuni con preoccupanti punte di ispirazione teocratica.
Ha dunque senso continuare a spendersi col fine dichiarato di abbattere l'esistente, spinti dalla convinzione che, una volta abbattuto, si aprirà poi la strada verso forme di libertà e mutualità come quelle da noi auspicate? Giustamente, non si può escludere nulla a priori, ma non può neppure essere propagandato come la strada principe. Noi dobbiamo tenere ben presente che la rivoluzione per gli anarchici è solo un mezzo per pervenire all'anarchia, seppure fondamentale, mentre non potremo mai essere anarchici per fare la rivoluzione. Non ha senso fabbricarsi certezze su futuribili non prevedibili né dirigibili nel senso prospettato, per propinarle come fossero strategie politiche praticabili. Siccome i segnali sotto gli occhi ci suggeriscono inequivocabilmente che, con molta probabilità, si marcerebbe in una direzione antitetica a quella da noi auspicata, buon senso e intelligenza suggerirebbero di cambiare proposizioni strategiche, proprio per riuscire a mantenere intatte coerenza e prospettive delle nostre proposte.
Non dimentichiamoci mai che, per scelta, siamo sottoposti a un principio basilare irrinunciabile: l'anarchia non può essere imposta. Nel momento in cui diventasse egemone con la forza, seduta stante rinuncerebbe ad essere ciò che proclama, perché non più rispondente alla propria natura. È dunque imprescindibile che qualunque cosa prospettiamo sia sempre all'insegna dell'esser voluto e desiderato. Siccome in un'eventuale situazione di sommossa, come abbiamo visto, si prospetterebbe una probabile schiacciante maggioranza di richieste dal basso autoritarie e illibertarie, diventa impensabile continuare a ritrovarsi nell'ordine d'idee di dover vincere una guerra tutta nostra contro l'autorità politica di turno, per imporsi e…, a questo punto necessariamente, per tentare di “imporre l'anarchia”. Non avremmo né l'anarchia né la possibilità concreta d'imporla.

Luoghi non autoreferenziali

È allora finito il tempo degli anarchici? A mio avviso tutt'altro! Solo che non è più, né può esserlo, il tempo della rivoluzione insurrezionale, che vorrebbe abbattere con violenza taumaturgica la tirannia per dare libero sfogo alla libertà ora repressa. Molto più saggiamente oggi dovrebbe diventare il tempo della riflessione, della ricerca, della sperimentazione, in una propensione di azioni e prospettive auto/educanti.
Non possiamo, né dovremmo mai, obbligare gli altri a vivere socialmente come noi pensiamo opportuno, ma non possiamo neppure, da anarchici, accettare di vivere “vita natural durante” come le varie forme di dominio c'impongono. Con acume e buon senso cerchiamo di vivere il più coerentemente possibile nel quotidiano, come pure dobbiamo continuare a propagandare, accrescendone la forza, la critica radicale e spietata nei confronti del potere che c'è per come agisce. Soprattutto dovremmo cercare di costruire luoghi autogestiti dove, noi che lo vogliamo, cercheremo di vivere nel modo più anarchico oggi possibile. Luoghi non autoreferenziali né isolati, ma territori alternativi di libertà nelle società del dominio, concepiti come spazi attrattori, come luoghi capaci di sedurre per la loro bellezza e praticabilità libertaria.
Una società nella società. Un'anarchia al di là dell'evento rivoluzionario.

Andrea Papi
www.libertandreapapi.it