La terra è di chi la canta/
La musica di Piero Pacione e l'alleanza tra i popoli del sud del mondo e del sud Italia
Raccontare alcuni territori e le sue storie a volte può
risultare rischioso poiché si rischia di rimanere anestetizzati
dal loro fascino e dalle molteplici suggestioni che evocano.
È il caso di Matera e, in generale, delle terre lucane.
Una parte importante di quel sud che è stato laboratorio
fertile e offerta preziosa sull'altare della sciagurata e defraudante
“unità italiota” che ha svuotato e depredato
le terre del sud lasciando targhe e lapidi per le “eroiche
gesta di guerra” e per gli esodi migratori.
Per arrivare a tempi più o meno recenti dove i “cristi”
fermi ad Eboli di Levi, quelli dell'apocrifo Pasolini, ci suggeriscono
di non fidarci della “Resurrection” (metafora forse
amara della nuova vita tra i sassi del paventato sequel di “Passion”)
di Gibson. Ci affidiamo, allora, al libero e lucido pensiero
e all'arte della narrazione sonora del cantore contemporaneo
Piero Pacione per meglio conoscere e comprendere quelle “oasi
resistenti di tradizioni popolari” dove si soffia con
forza sulle polveri secolari che il potere deposita sulla storia
dei popoli per svelare le pagine scritte dai vinti e che vengono
riverberate attraverso il canto di festa e di lotta.
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Piero Pacione (foto Andrea Semplici) |
Piero quali sono le storie, anzi le sollecitazioni che
la tua terra ti ha “imposto” di raccontare, di cantare.
Negli anni '90 ho vissuto e studiato fisica all'università
di Bologna. Erano i tempi del movimento studentesco della Pantera
e la sera ci si ritrovava tra l'Università, piazza Verdi
e... l'Isola nel Kantiere. Erano i tempi delle Posse, della
prima guerra del golfo e di “Stop al Panico”. Mi
colpiva molto la capacità comunicativa de lu' Papa Ricky
che cantava in dialetto salentino la colonna sonora degli studenti
che occupavano spazi di autogestione sociale. Tornato a Matera
nel '95 ho ripreso a collaborare con i compagni che non avevo
mai abbandonato e con loro iniziammo a sognare un futuro della
nostra città e dei famosi “Sassi di Matera”
che non fosse solo turismo e business, ma anche arte, cooperazione,
autogestione. La nostra idea faceva parte di un pensiero politico
ampio che denominavamo “Sud – Sud” e che teorizzava
e praticava forme autonome di alleanza tra i popoli del Sud
del Mondo e il Sud d'Italia.
La nostra idea era di leggere attraverso questa lente le contraddizioni
della nostra terra (sociali, ambientali e politiche) e di costruire
percorsi di alternativa con comunità di altri sud. Non
è forse questa idea di fondo che porta Pasolini a scegliere
Matera per girare il Vangelo? Quale forza sprigionano i volti
degli abitanti dei “Sassi” di quei tempi tanto da
ricordare i segni del Cristo? In questo contesto si innesta,
per ultimo, il mio incontro con le tante e piccole storie psichiatriche
della città e la collaborazione con quanti si occupavano
di psichiatria “democratica” in città. Da
questo intruglio, per me, parte tutto un percorso umano ed anche
artistico nonché, ovviamente, politico.
Anche tu hai deciso di utilizzare il dialetto, di affidarti
al suono antico, ruvido e dolce mi verrebbe da dire, della parola
della tua terra per meglio raffigurare la condizione del presente,
le periferie umane oltre che quelle urbane, l'annichilimento,
la violenza del potere e la rinuncia del popolo a far sentire
la propria voce.
La scelta del dialetto è stata inizialmente naturale
e inconsapevole: nel movimento del folk revival degli anni '90
chi faceva musica popolare cantava in dialetto. Ma, presto,
ho dovuto fare i conti con la mia storia e con quella della
mia città e la storia di Matera è particolare.
Infatti negli anni '60 – '70, dopo che gli antichi rioni
dei “Sassi” furono definiti dal potere una “vergogna
dell'umanità”, è iniziato un processo di
spopolamento (in parte anche forzato) che ha prodotto una frattura
sociale e culturale di cui la città ancora oggi paga
le conseguenze. Probabilmente anche la passività con
cui oggi la città vive un vero e proprio processo di
espropriazione determinato dalla ribalta mediatica e dal turismo
di massa (e di élite) nasce da questa frattura oltre
che da atteggiamenti di inerzia sociale tipici di parte della
società meridionale.
Ebbene, la frattura di cui parlo ha prodotto perdita di identità
linguistica e culturale. Da anni gli abitanti che parlano il
dialetto dei “Sassi” sono una piccola minoranza,
priva di strumenti di trasmissione culturale diversi da quelli
familiari e ridotta, nel migliore dei casi, a residuo folkloristico.
In questo contesto, la scelta del dialetto ha rappresentato
il tentativo di una nuova generazione, cresciuta quando nei
“Sassi” spopolati, si vendevano armi ed eroina,
di riappropriarsi della propria storia per condividerla con
quella dei popoli del Sud del Mondo. Un tentativo non filologico,
ma piuttosto aperto alle contraddizioni e alle contaminazioni
(linguistiche e musicali) e, per questo, sempre avversato dai
sostenitori interessati della finta purezza.
Eppure c'è stato un momento in cui sembrava che
le masse avessero acquisito una forte coscienza popolare riversata
nelle lotte per le scorie di Scanzano, per le condizioni degli
operai della Fiat di Melfi, per le trivelle della Val D'agri,
il flebile e ingannatore miraggio dei “salottifici”.
È stato l'anno magico: il 2003. Prima la mitica protesta
antinucleare e poi lo sciopero storico degli operai di Melfi
che in venti giorni piegano la Fiat. E noi, a sostenere le lotte
con la nostra presenza, i nostri corpi e le chitarre e i tamburi.
Sembra passato un secolo! Non mi appassiona molto l'analisi
politica, ma quello che mi sembra si possa dire è che
quei movimenti furono vittoriosi sul momento, ma poi non hanno
trovato la forza di trasformarsi in una forza egemonica e, pian
piano, sono stati depauperati del loro potenziale sovversivo
per essere inglobati nelle pastoie della politica di sempre.
Proprio in quegli anni tu prendi parte ad uno dei progetti
più interessanti, da un punto di vista musicale, che
attinge alla tradizione popolare per farsi megafono e portatore
di istanze e rivendicazioni sociali. Mi riferisco al progetto
TerraGnora. Raccontaci la genesi e il senso di quel progetto.
Sì. In realtà i TerraGnora nascono prima, intorno
alla fine degli anni '90 quando, a Matera, ero impegnato, come
ho raccontato, in un percorso che era finalizzato alla rivalorizzazione
di alcuni spazi nei rioni “Sassi” all'interno dei
quali un variegato mondo di associazioni intendeva portare attività
artistiche, culturali e di cooperazione sociale. In questo contesto,
dalla sinergia dell'associazione “Loe” di Matera
e della cooperativa “Progetto Popolare” di Montescaglioso
(MT) nasce il progetto TerraGnora. All'inizio si formò
un gruppo che iniziò una attività di ricerca sul
territorio materano e, in collaborazione con Agostino Cortese
dei Tarantolati di Tricarico, mise in piedi un piccolo laboratorio
artigianale sulla costruzione di strumenti popolari. In un secondo
momento il progetto incontrò il favore di alcuni musicisti
materani e da lì nacque il gruppo musicale che ha suonato
con lenta continuità per più di dieci anni producendo
due CD: “TerraGnora: canti di festa, amore e lotta”
(ed. Onjx jazz club - 2003) e “MaterAfrica” (ed.
NigriziaMultimedia – 2008).
Il gruppo non è stato “solo” un gruppo musicale,
quanto piuttosto un collettivo variegato impegnato in prima
linea nelle lotte di quegli anni. L'idea fondamentale era quella
di sempre, legata alla possibilità di veicolare attraverso
la musica messaggi sociali e politici: “stand up”
lucano, la terra è a nostr e nun saddà
tuccà. Non che fossimo disinteressati alla ricerca
sonora, anzi; questa avveniva attraverso l'utilizzo arcaico/innovativo
degli strumenti popolari (cupa cupa, chitarra battente, tamburi)
e attraverso la commistione linguistica (dialetto, italiano,
swaili), ma l'obiettivo (almeno per parte di noi) prioritario
era quello di creare comunità nell'ottica “Sud
– Sud” di cui parlavamo prima.
Tra gli strumenti utilizzati in quel progetto, un ruolo
fondamentale lo ha occupato il cupa cupa, una sorta di “voce
madre” che ritualizzava molti momenti della cultura contadina
nei momenti di festa e di lotta, appunto, come il tamburo per
gli africani. E forse proprio grazie al cupa cupa nasce una
collaborazione, un “dialogo” con un gruppo di musicisti
kenioti. Erudiscici sulla storia e sull'uso del cupa cupa e
narraci di “MaterAfrica”.
Antonio Infantino, il guru della musica popolare lucana, ci
ha raccontato che il cupa cupa (questo straordinario tamburo
a frizione che i contadini costruivano con la cassa armonica
in terracotta e la vescica del maiale) nasce in Africa quando
per conservare il fuoco si inizia a custodire la cenere in fosse
scavate nella terra e lì si soffia producendo le vibrazione
della Madre Terra.
Non mi interessa la veridicità scientifica di questa
ipotesi perché quello che mi porto dietro del discorso
di Infantino è il tentativo di superare l'interpretazione
demartiniana che collega tutta la musica popolare del sud alla
miseria della civiltà contadina e di collegare la stessa
ad una tradizione millenaria (i riti orfico-pitagorici) di una
forza straordinaria in grado di metterla in relazione con tutto
il mondo.
Se il cupa cupa nasce in Africa, nel 2007 - sulla scia del lavoro
che alcuni amici svolgevano da tempo tra Matera e il Kenia -
partiamo per il social forum di Nairobi. Poi, alcuni mesi dopo,
finanziamo la venuta dei musicisti africani (tutti ex ragazzi
di strada della comunità Koinonia del padre comboniano
Kizito), ci chiudiamo per dieci giorni in una grotta dei “Sassi”
(le cavità risonanti del cupa cupa) e “partoriamo”
MaterAfrica.
Tu suoni la chitarra battente, un pezzo importante della
musica popolare che meglio racconta di contadini poeti che erano,
e sono, costruttori di questo ipnotico strumento. Come nasce
la tua passione e come hai adattato la battente alle tue esigenze.
La passione per la chitarra battente nasce dalla ricerca musicale
e dalla mia frequentazione con la terra di Calabria, ma soprattutto
dallo studio della fisica. La chitarra battente è uno
dei rari strumenti in grado di produrre naturalmente il fenomeno
dei battimenti e cioè quell'effetto sonoro che si genera
dalla interferenza di due suoni con frequenze prossime e che
si manifesta attraverso la generazione di un suono “nuovo”,
che per la chitarra battente assomiglia al suono di un flauto
o ad una voce femminile. Il mio maestro (a sua insaputa) è
stato Valentino Santagati, musicista, studioso e cultore calabrese
della chitarra battente.
A proposito di storia e di “pezzi” importanti
della cultura popolare, nella dissanguata Val d'Agri di cui
sopra, e più precisamente a Viggiano, resiste la tradizione
dell'arpa che, al pari della battente, ha una caratteristica
fondamentale: quella di essere compagna di viaggio dei musicisti
di strada e che secoli fa venne estirpata dalle “stanze
del re” per riportarla in strada e riconsegnarla al legittimo
proprietario, il popolo. Anche questo apre riflessioni profonde
sulla stucchevole e cattiva, oltre che sterile, abitudine di
enunciare la musica incolta e popolare, antica e contemporanea,
come da tradizione salottiera (o da “salottificio”).
Sì. Hai perfettamente ragione, ma quello che mi sembra
ancora più stucchevole è che oggi, dopo anni di
lotta per l'emancipazione della cultura popolare, assistiamo
nuovamente ad un'egemonia conservatrice che ha svuotato la musica
popolare di contenuto politico e l'ha relegata nel mondo finto
e fantastico del prodotto tipico. Se penso a quello che sta
succedendo nella mia città mi vengono i brividi oltre
che l'incazzatura.
Inevitabile a questo punto parlare anche del contadino
e “poeta anomalo del sud”, come lo definisce in
un suo articolo Domenico Sabino proprio dalle pagine di A-Rivista
Anarchica. Scotellaro anche per te rappresenta un punto di riferimento
e di ispirazione.
Il mio incontro vero con la poesia è la poesia di Rocco
Scotellaro. Ho iniziato a leggere Scotellaro da ragazzo grazie
ai libri che facevano parte della libreria meridionalista di
mio padre. Scotellaro per me è il profumo dei paesi della
lucania, l'odore di una donna, l'odore della terra, la forza
del nostro vino rosso che toglie le maschere dai volti e urla
la rabbia contadina contro il potere. Scotellaro che come De
Andrè cercava la sua ispirazione tra gli ultimi per ridare
agli ultimi la forza della sua poesia.
Sulla poesia di Scotellaro, i TerraGnora, si sono cimentati
anni fa in un lavoro teatrale. Più recentemente, assieme
al Collettivo Abbarrabis, ho accompagnato il fumettista G. Palumbo
nella presentazione della sua versione a fumetti di “Uno
si distrae al bivio” romanzo di esordio di Scotellaro.
Infine, il brano a cui sono più legato è “Sabella”,
messa in musica di una poesia del poeta.
Dovessi usare le parole di Scotellaro per congedarci:
“Sradicarmi? La terra mi tiene e la tempesta se viene,
mi trova pronto...”. Piero Pacione cosa direbbe?
“Non gridatemi più dentro, non soffiatemi in cuore
i vostri fiati caldi, contadini. Beviamoci insieme una tazza
colma di vino! Che all'ilare tempo della sera s'acquieti il
nostro vento disperato. Spuntano ai pali ancora le teste dei
briganti, e la caverna – l'oasi verde della triste speranza
– lindo conserva un guanciale di pietra... Ma nei sentieri
non si torna indietro. Altre ali fuggiranno dalle paglie della
cova, perché lungo il perire dei tempi l'alba è
nuova, è nuova” (R. Scotellaro – Sempre
nuova è l'alba).
Gerry Ferrara
Caso Mastrogiovanni/
Pubblicate le motivazioni della sentenza
Dopo circa quattro mesi dall'emanazione della sentenza emessa
dalla corte d'appello del Tribunale di Salerno per la morte
di Francesco Mastrogiovanni, nella quale sono state confermate,
seppur dimezzate, le pene per i sei medici del reparto di psichiatria
dell'Ospedale San Luca di Vallo della Lucania (Sa) e sono stati
condannati undici dei dodici infermieri loro collaboratori (assolti
in prima istanza), sono state rese note le motivazioni della
sentenza di secondo grado. Quali sono state le pene comminate
e le relative motivazioni?
Le richieste
Nella requisitoria del 10 aprile 2015 il Procuratore Generale
Elio Fioretti aveva chiesto pene variabili da cinque anni e
quattro mesi a quattro anni sia per i sei medici che per gli
undici infermieri. La dr.ssa Maddalena Russo, subentrata nel
corso del processo al dr. Fioretti, nella sua brevissima replica
ha confermato le richieste del collega, ribadendo la responsabilità
anche degli infermieri.
Le condanne
La Corte d'Appello di Salerno, presieduta dal Dott. Michelangelo
Russo, nonostante le richieste di inasprimento delle pene avanzate
dai due Procuratori Generali ha condannato gli infermieri: Giuseppe
Forino, Alfredo Gaudio, Antonio Luongo, Nicola Oricchio e Marco
Scarano a un anno e tre mesi di reclusione; Maria D'Agostino
Cirillo, Carmela Cortazzo, Antonio De Vita, Massimo Minghetti,
Raffaele Russo e Antonio Tardio a pene lievissime di un anno
e due mesi per aver dato “un contributo materiale consapevole
alle condotte dei medici, contribuendo consapevolmente, con
comportamento commissivo od omissivo, alla privazione della
libertà personale dei pazienti e senza esercitare il
potere/dovere di rifiutarsi o comunque di segnalare l'illeicità,
connesso alla loro funzione e comunque loro conferito dall'art.51,
comma 3 C.P.,”.
Per la prima volta i giudici hanno affermato che non basta ubbidire
ad un ordine per non essere ritenuti responsabili di un reato.
Per quanto riguarda i medici Rocco Barone e Raffaele Basso la
pena comminata è di due anni; Michele Di Genio, primario,
è stato condannato a un anno e undici mesi; Amerigo Mazza
e Anna Angela Ruberto ad un anno e dieci mesi; Michele Della
Pepa a un anno e un mese per aver messo in atto: “una
contenzione disumana”, che non può essere giustificata
con finalità di protezione del paziente e appare come
una prassi legata a carenze di personale e volontà organizzative.
Il fatto che nessuno dei medici l'abbia annotata in cartella
clinica dimostra per i giudici la consapevolezza di quanto non
vi fosse alcun presupposto per legittimarla. Se le pene previste
in primo grado sono state ridotte è solo nel rispetto
di criteri di commisurazione della pena, “che non devono
tenere conto di fattori emotivi” e in considerazione di
un contesto temporale in cui la sensibilità a certi temi
era meno avvertita.
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Emanuela Bussolati - “Angelo costretto”. Illustrazione a sostegno della campagna per l'abolizione della contenzione “...E tu slegalo subito” |
Lo sconcerto dei familiari
L'esiguità delle pene e la sospensione per i medici dell'interdizione
dai pubblici uffici hanno prodotto nei familiari dell'insegnante
un grande sconcerto. Caterina Mastrogiovanni, sorella di Franco,
intervistata dal TG3, visibilmente turbata ha dichiarato: “Resto
molto delusa, molto delusa soprattutto per il reintegro (del
personale sanitario, n.d.a.), mio fratello è stato
ammazzato in quel reparto”. Anche Grazia Serra, figlia
di Caterina e nipote dell'insegnante cilentano ha dichiarato
con forza: “Sono molto preoccupata, è stata sospesa
l'interdizione dal lavoro per i medici, noi quello che vogliamo
è che non accada mai più e invece questi medici
continueranno a lavorare”. Se necessario, continua Grazia,
ci rivolgeremo alla Corte Europea per i diritti dell'uomo.
La “Legge Mastrogiovanni”
A seguito dei tanti morti e degli abusi consumati nell'esecuzione
dei ricoveri coatti, i Radicali hanno preannunciato che presenteranno,
in Parlamento, una proposta di “Legge Mastrogiovanni”
che riveda il Trattamento sanitario obbligatorio. Altre battaglie
che ci attendono sono quelle per l'introduzione nel codice penale
dei reati di tortura e trattamenti degradanti. A chiederlo,
tra gli altri, è il comitato dei ministri del Consiglio
d'Europa che ha ritenuto insufficienti le misure sinora prese
dall'Italia per dare esecuzione alla sentenza di condanna della
Corte europea dei diritti umani sul caso Cestaro (irruzione
nella scuola Diaz durante il G8 di Genova) emessa il 7 aprile
2015.
Angelo Pagliaro
Ostia Antica (Rm)/
Le cinque pietre di Davide. Anzi quattro
Luca Vitone, artista genovese residente a Berlino, anarchico, si è più volte occupato su “A” di installazioni, quadri, foto, musica, Rom, mostre, percorsi urbani (ricordiamo quello romano sulle tracce di Errico Malatesta). In occasione del giorno della memoria 2017 ha partecipato a una mostra collettiva vicino a Roma. Ecco il suo resoconto.
Sono 5 le pietre che Davide raccolse quando scese al fiume
prima di affrontare Golia il filisteo. Così scrive la
Bibbia. Cinque ciottoli ben levigati, utili proiettili da lanciare
con la propria frombola e abbattere il gigante nemico. Un racconto
fondante l'immaginario occidentale, una storia di guerra spesso
rivolta ai bambini che narra del confronto tra piccoli e grandi,
tra deboli e forti, tra giovani e adulti, tra chi detiene la
Verità e chi ne è nemico.
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Le 5 pietre di Davide, 2016 (Ombrello, straccio di lino, 4 ciottoli di fiume, 90,5 x 135 x 100 cm) courtesy dell'artista, Galleria Pinksummer, Genova |
Siamo nel sito archeologico di Ostia Antica, (Roma) tra i
ruderi della più antica sinagoga del mondo occidentale
costruita nel primo secolo d.C. dove si svolge la nona edizione
di “Arte in memoria”, una mostra collettiva curata
da Adachiara Zevi, inaugurata il 22 gennaio e aperta fino al
18 aprile 2017. Qui, tra gli altri autori presenti - Sara Enrico,
Horst Hoheisel e Ariel Schlesinger - espongo la mia opera Le
5 pietre di Davide.
L'opera è costituita da quattro ciottoli di fiume appena
puliti e identificati con una sigla da reperto archeologico
(O.Sin.U.S.6-1, O.Sin.U.S.6-2, O.Sin.U.S.6-3, O.Sin.U.S.6-4),
appoggiati su uno straccio di lino blu perché non si
sporchino e un ombrello aperto con i colori dell'arcobaleno
che momentaneamente li protegge come fosse una chippa.
Questi sono i quattro sassi rimasti, contando che uno probabilmente
rimase conficcato nella fronte del filisteo. L'ombrello ha i
colori dell'arcobaleno, il primo patto tra Dio e l'uomo, Noè,
che con l'Arca salvò il mondo animale: l'altra storia
tra le prime raccontate ai bambini proprio per il suo tema che
affascina l'immaginario infantile. Infine lo straccio, che simboleggia
uno dei mestieri tipici praticati dalla comunità ebraica.
Luca Vitone
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