Destino Manifesto
Secondo una vecchia teoria, agli USA spetta il ruolo di esportare la democrazia. Ne sanno qualcosa gli Indiani d'America.
Si son presi il nostro cuore sotto una coperta scura.
Fabrizio De André e Massimo Bubola, Fiume Sand Creek,
1982
All'arrivo degli olandesi, Manhattan era nel territorio dei
lenape o delaware, una società di tipo matriarcale. Sembra
che il nome odierno dell'isola derivi da manahatta, parola
che, nella lingua indigena, significava: “isola dalle
molte colline”. Sia come sia, oggi a New York non è
più possibile incontrare un lenape: nel 1860 i pochi
sopravvissuti furono deportati nel cosiddetto territorio
indiano, oggi Oklahoma, a 2500 km di distanza. Nella città
in piena espansione non c'era posto per i nativi. Così
oggi il turista non trova traccia delle genti che un tempo abitavano
questa terra, anche l'eco dei canti tribali si è confuso
nel frastuono della metropoli.
A nord di New York vivevano invece gli irochesi, altra società
matriarcale, civiltà fra le più complesse del
Nord America quanto a organizzazione politica e sociale. Ben
prima dell'arrivo degli invasori, gli irochesi avevano fondato
una federazione governata da organismi elettivi. Secondo la
tesi di alcuni storici, i padri fondatori degli Stati Uniti
si sarebbero ispirati agli irochesi per disegnare l'architettura
della federazione e scriverne la costituzione. Il mondo accademico
però respinge in maggioranza questa teoria, per motivi
ideologici più che scientifici: la nazione è stata
sempre immaginata senza peccato originale, fondata a partire
da un'idea nuova, un esperimento unico nella storia dell'umanità.
Che i fondatori potessero essersi ispirati a una cultura ritenuta
inferiore viene considerato un insulto alla grandiosità
del progetto. Il mito fondativo ne uscirebbe sminuito. Anche
degli irochesi non restano tracce visibili, è una storia
che ormai nessuno conosce.
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Uno degli ironici slogan dei nativi incornicia un famoso ritratto di Toro Seduto: “Certo che puoi fidarti del governo! Domandalo a un indiano!” |
Nell'autunno del 1868, dopo l'ennesimo massacro di cheyenne
indifesi1 da parte di truppe
guidate dal famigerato Custer, molti capi indiani accettarono
di trattare la pace. Le cronache dell'epoca raccontano che Tosawi,
un capo comanche, stringendo la mano al generale Sheridan disse,
in un inglese stentato: “Tosawi è un indiano buono”.
Il militare, guardandolo con disprezzo, replicò: “Gli
unici indiani buoni che abbia mai conosciuto erano morti”.
Sheridan era contrario alla pace, ai trattati, alle riserve
e alle idee di assimilazione e cristianizzazione che alcuni
vagheggiavano. Per lui la soluzione del problema indiano era
lo sterminio. La storia non dice se Tosawi capì le parole
di Sheridan ma ne nacque un famoso aforisma ancora oggi molto
in voga.2
A ovest le guerre indiane continuarono per oltre vent'anni,
fino a quando tutti i nativi superstiti furono rinchiusi nelle
riserve, privati della libertà e costretti a vivere di
razioni. Prima di allora il governo aveva provato altre vie.
Nel 1830 una legge federale, voluta dal presidente Jackson,
aveva fissato il confine occidentale del paese assegnando ai
nativi una vasta zona ancora non colonizzata, definita enfaticamente
Permanent Indian Territory.
Jackson non era un filantropo, ma un ex mercante di schiavi
e ufficiale dell'esercito, nemico giurato degli indiani. Nel
sud aveva combattuto cherokee, seminole e altre tribù
ed era convinto che bianchi e nativi non potessero convivere.
Con quella legge si stabilì infatti la deportazione oltre
il nuovo confine di tutte le tribù che abitavano le terre
a est del Mississipi. Una vasta e spietata operazione di pulizia
etnica, diremmo oggi, che costò la vita a migliaia di
nativi morti di freddo, malattia e stenti nel corso di lunghe
e terribili marce. Intere nazioni vennero cacciate dalle loro
terre.3
L'idea del territorio indiano, però, non resistette a
lungo. Prima ancora che la legge entrasse in vigore, un'ondata
di coloni invase le terre a ovest del Mississipi. Nel 1847 gli
Stati Uniti strapparono al Messico i vasti territori che vanno
dal Texas alla California, attestando la frontiera occidentale
sulla sponda del Pacifico e il territorio indiano venne a trovarsi
ridotto e circondato dai nuovi confini. Le corse all'oro, in
California nel 1848 e in Colorado nel 1850, provocarono nuovi
afflussi di coloni: appena vent'anni dopo l'approvazione della
legge il territorio indiano era stato così fortemente
eroso e invaso da essere ormai poco più che una finzione
e finì che venne annesso interamente dagli USA.
Più forte della legge si era dimostrata l'avidità
di capitalisti e speculatori, sostenuti da politici corrotti
e giornalisti pronti a infiammare il paese con mirate campagne
d'odio. Per giustificare l'espansione e i massacri venne lanciata
una teoria, divenuta molto popolare nel diciannovesimo secolo,
conosciuta come il Destino manifesto della nazione.4
I fautori sostenevano il diritto degli Stati Uniti a possedere
l'intero continente in quanto consegnato agli americani dalla
provvidenza divina, affinché venisse portato a compimento
il grande esperimento di libertà nel federalismo. Era
questo il destino manifesto, contrassegnato da tre temi centrali:
le speciali virtù del popolo americano e delle sue istituzioni,
la missione storica affidata agli Stati Uniti di fondare una
nuova civiltà e l'irresistibile destino al compimento
di tali doveri, determinato da Dio stesso.
Sebbene si tratti di un retaggio dell'Ottocento, la dottrina
del destino manifesto è tornata comoda anche nei
secoli successivi, utilizzata nella retorica che ha giustificato
varie avventure imperialiste, dall'invasione delle Filippine
nel 1899 fino alle guerre di Bush nel XXI secolo. Ma servì
soprattutto a trascinare gli USA nella conquista del west.
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Randall Island (New York), 12 ottobre 2016 - Le contro celebrazioni. Un gruppo di danzatori Maya impegnato in un'antica cerimonia |
Nel 1868 venne istituita, con la firma di un trattato di pace,
la Great Sioux Reservation. La riserva includeva le Black
Hills, una zona collinosa considerata sacra dai sioux. Il trattato
assegnava solennemente quelle terre ai nativi: “fino a
che l'erba crescerà e scorreranno le acque”.5
Ma da lì a poco la scoperta di oro e altri minerali sulle
Black Hills mutò la prospettiva e i fautori del destino
manifesto lanciarono una campagna velenosa per strappare
le colline ai sioux, sostenendo che Dio stesso voleva che quei
minerali venissero sfruttati per il progresso della nazione
e sarebbe stato quindi immorale lasciarli ai nativi. Il trattato
fu violato, le colline invase da esercito e minatori e molto
sangue fu versato per il loro controllo. Poiché i sioux
rifiutarono di cederle, nel 1877 vennero confiscate, la grande
riserva frazionata in sei piccole riserve e una gran parte del
territorio assegnato dal trattato ai sioux venne ceduto ai coloni.
Proprio sulle Black Hills sorge oggi uno dei monumenti americani
più famosi: la grande scultura con le teste di quattro
presidenti scolpite nella roccia di Mount Rushmore. Centinaia
di migliaia di turisti ogni anno visitano il luogo, calpestando
quel suolo sacro ai sioux, complici forse inconsapevoli di un'ingiustizia
mai riparata. La violazione del trattato del 1868 è ancora
oggi oggetto di contesa: i sioux non hanno accettato risarcimenti
e mai ceduto la sovranità sulle Black Hills, delle quali
reclamano la restituzione. Ma essi sono anche uno dei gruppi
umani più poveri e marginali e governi e tribunali fanno
orecchie da mercante.
Del resto la spoliazione dei nativi non è certo cessata
con la fine delle guerre indiane. Dalla fine della seconda guerra
mondiale fino a metà degli anni sessanta fu perseguita
la Indian Termination Policy, che puntava alla distruzione di
ogni residuo delle culture indigene e all'assimilazione forzata
dei nativi. Nuove leggi toglievano ai nativi i diritti di sovranità
riconosciuti dai trattati, stabilivano la chiusura delle riserve
e il trasferimento forzato in città dei loro abitanti,
in genere poveri e privi di istruzione. Un tentativo di genocidio
culturale messo in atto, ancora una volta, mediante deportazioni,
da parte di un paese che aveva appena combattuto gli orrori
del nazifascismo. Prima che il progetto venisse accantonato
oltre cento gruppi tribali vennero “terminati”,
con effetti devastanti, riconosciuti oggi da tutti gli studi
in materia.
Proprio da quegli indiani sradicati dalle riserve che, non più
separati dagli steccati tribali, cercavano di sopravvivere creando
fra loro legami di solidarietà, sono nati quei movimenti
di rivendicazione fortemente politicizzati che, negli anni settanta,
hanno lanciato le lotte per i diritti dei nativi, reclamato
il rispetto dei trattati e la sovranità delle nazioni
indigene. Nella paranoia maccartista che ancora aleggiava si
confusero le legittime rivendicazioni dei nativi con un immaginario
complotto comunista e partì una brutale campagna di repressione.
Le aule dei tribunali si riempirono di attivisti indigeni accusati
di cospirazione.
Disoccupazione, povertà, alcolismo, violenze
La guerra contro gli indiani, insomma, non è mai finita
e le conseguenze sono devastanti. Le poche inchieste disponibili
sul tema disegnano oggi una situazione terrificante. Se alcune
tribù hanno potuto conseguire un certo benessere grazie
al turismo o alle royalties delle case da gioco, la maggior
parte resta in condizioni di grande povertà ed emarginazione,
vittima degli abusi delle autorità.
Le ricerche rivelano che i nativi hanno maggiori probabilità
di altri gruppi di essere uccisi in scontri a fuoco con la polizia
o di finire in carcere. In Alaska, ad esempio, gli indigeni
sono il 15% degli abitanti, ma rappresentano il 40% della popolazione
carceraria. In molte riserve la vita scorre senza speranza,
senza nulla da fare, senza futuro per i giovani. Nella riserva
di Standing Rock, salita agli onori della cronaca mondiale per
le coraggiose lotte contro un oleodotto, l'indice di povertà
supera il 43% e la disoccupazione è oltre il 60%. La
violazione dei trattati è ancora all'ordine del giorno
e così il furto della terra: nella riserva di San Carlos,
in Arizona, recentemente sono stati assegnati diritti di sfruttamento
a compagnie minerarie contro il parere degli apache che vi abitano.
Le scuole delle riserve sono allo sfascio, l'istruzione offerta
è di scarsa qualità e l'abbandono scolastico altissimo.
I giovani nativi che lasciano le riserve mancano della formazione
necessaria e sono destinati ai lavori più umili e malpagati.
Le strutture sanitarie sono inadeguate e solo un nativo su tre
ha una qualche forma di copertura assicurativa in campo medico.
I territori delle riserve appartengono al governo federale,
i nativi non hanno titolo di proprietà. Ciò impedisce
l'accesso al credito ed è quindi quasi impossibile l'avvio
di attività imprenditoriali anche minime.
Molti gruppi tribali, fra questi i nativi delle Hawaii, non
hanno mai ricevuto riconoscimento formale dal governo. Non hanno
quindi identità giuridica come nazioni indigene e sono
sotto il totale controllo delle autorità. Infine, per
i nativi è spesso quasi impossibile votare, perché
uffici elettorali e seggi sono a grande distanza dalle riserve.
Di conseguenza i politici si disinteressano in genere alla loro
sorte.
Come accade a tanti altri popoli indigeni nel mondo, in maggioranza
i nativi americani vivono in condizioni di degrado, presi in
una spirale di povertà senza vie di uscita, che spinge
spesso alla disperazione: alcolismo, violenza contro le donne
e suicidio giovanile sono epidemici in molte riserve e alcune
ricerche hanno evidenziato nei bambini disturbi post traumatici
ai livelli dei veterani del Vietnam. Tradizioni e lingue stanno
lentamente morendo, trasformando molti nativi in alieni che
non hanno più radici né identità.
In sostanza i cosiddetti indiani sono forse i cittadini più
negletti degli Stati Uniti, i più poveri della nazione
più ricca e potente. Il destino manifesto per
loro si è rivelato un incubo. Mai nessun governo ha fatto
ammenda per gli orrori del passato, nessun piano Marshall è
stato lanciato per risollevarne le sorti.
Il 12 ottobre negli Stati Uniti è Columbus Day. Il navigatore
genovese viene celebrato a New York con una grande parata e
discorsi ufficiali. I nativi non festeggiano: quella data rappresenta
per loro l'inizio del più grande genocidio della storia.
Per me, italiano, si aggiunge un elemento di malinconia. Avevo
lasciato Colombo sui banchi di scuola uomo geniale e coraggioso
e l'ho ritrovato qui uomo avido, miserabile, assassino e predatore,
rapitore e schiavizzatore di nativi in nome di Dio e del profitto.6
Non posso unirmi ai festeggiamenti, preferisco stare a casa.
Ma l'ultimo 12 ottobre lo sguardo mi è caduto su un trafiletto
nel giornale di quartiere, ho scoperto le controcelebrazioni
e mi sono avventurato.
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Randall
Island (New York), 12 ottobre 2016 - Le contro celebrazioni.
Dall'alto:
Una donna Mohawk intona una canzone tradizionale; un pubblico
variegato e
un po' dimesso osserva la scena. Alle spalle il viadotto
della ferrovia |
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Resistenza e tante piccole lotte in corso
Il pow-wow7 si teneva
su un isolotto nel fiume e il luogo sembrava davvero adatto
all'occasione: posto sfigato, prati stentati sotto un viadotto,
terra umida e fetore di fogna. Eravamo davvero in pochi, ma
c'era molta allegria e qualche vero indiano: mohawk, aravak,
persino dei maya. Pochi discorsi ufficiali, molta musica, danze,
commozione e qualche appello per ricordare le tante piccole
e grandi lotte in corso, la resistenza in atto in varie parti
del paese da parte di gruppi che è già un miracolo
siano sopravvissuti a secoli di repressione.
Ho scoperto così che, anche qui a New York, un po' di indiani ci sono e non hanno alcuna intenzione di mollare, di farsi integrare o di scomparire. Mentre molti miei connazionali celebravano Colombo fra le vetrine luccicanti di Manhattan sono orgoglioso di aver trascorso quella giornata assieme a loro, su quei prati tristi, sotto il ponte della ferrovia. Un ironico slogan del movimento indigeno ricorda che i nativi il terrorismo lo combattono fin dal 1492. A quanto pare dopo più di cinque secoli non si danno ancora per vinti e non hanno intenzione di diventare storia: qui si lotta ancora contro l'invasore.
Santo Barezini
- Si trattava dei superstiti dell'eccidio del fiume Sand Creek,
avvenuto pochi anni prima, di cui racconta l'omonima canzone
di De André e Bubola. Lo stesso capo Black Kettle fu
ucciso in questo secondo massacro.
- “The only good Indian is a dead Indian”.
- Famoso il caso dei Cherokee la cui deportazione fu accelerata
in pieno inverno quando sui monti Appalachi venne scoperto
l'oro. Nel corso delle marce forzate morirono circa quattromila
indiani. I Cherokee ricordano oggi quel terribile episodio
come il “sentiero delle lacrime” (trail of tears).
- Manifest destiny.
- As long as grass grows or water runs.
- I diari di Colombo e altri documenti dell'epoca sono stati
pubblicati da alcuni storici e ricercatori, svelando dettagli
raccapriccianti.
- Raduno. Il termine deriva dalla lingua degli algonchini
ma è oggi usato da tutte le tribù del nordamerica.
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